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Intercettazioni

«In Italia il problema delle intercettazioni viene riproposto ciclicamente, in particolare quando emergono vicende che riguardano personaggi di una certa notorietà, soggetti “forti”, che hanno voce politica e/o mediatica. In questi casi scatta […] la richiesta di interventi restrittivi a tutela di coloro che si trovano sbattuti o temono di finire sulle prime pagine dei giornali […], anche se non si può non sottolineare che la stessa sensibilità non si riscontra quando sono in gioco interessi di semplici cittadini».
Così, stamani, l’ex procuratore Giancarlo Caselli in un’intervista apparsa su la Repubblica a firma di Liana Milella. Al netto dell’ultima parte della risposta – ché il tiro populista è evidente e, sinceramente, assai stucchevole – credo che proprio il punto inquadrato da Caselli – o, per meglio dire, l’eventualità che si possano presentare situazioni di disparità nel trattamento riservato ai “forti” rispetto a chi forte non è – debba essere la spinta a che il Governo (o chi per esso) si pronunci, al più presto, sul rognoso problema delle intercettazioni, fornendo, finalmente, delle regole certe su questa spinosissima questione.
Problema, quello della pubblicazione delle intercettazioni, che non è solo, ovviamente, di privacy quanto soprattutto di distorsione del processo a favore dell’accusa; sicché quando Caselli, riferendosi sempre alle intercettazioni, sotto l’occhio – e qui sto immaginando – inquisitore della Milella, afferma che “se non ci fosse stata un’informazione attenta, come per fortuna c’è stata, la qualità della nostra democrazia avrebbe potuto peggiorare. Se questo ruolo fosse cancellato o pesantemente limitato sarebbero guai”, l’ex procuratore sta affermando – e mi si scusi il lessico poco rispettoso – una enorme cazzata.
Oh, si badi, non sto qui anacronisticamente sostenendo che occorra mettere a tacere i media, nient’affatto: dico solo che sarebbe assai auspicabile che i media stessi riflettessero, nei ritagli di tempo, tra una pubblicazione di un’intercettazione e l’altra, sull’uso spesso indiscriminato, violento e schifosamente strumentale che hanno fatto, che stanno facendo e che (è probabile) continueranno a fare delle intercettazioni.
L’idea che il quarto o il quinto potere abbiano licenza di pubblicare qualsiasi cosa (merda compresa) fa parte delle tante presunzioni di casta di questo nostro strano Paese.

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…per difendere il suo paese

Fabio Tortosa

Non starò ad annoiare il mio lettore riportando i link e la dichiarazione integrale, ché tanto la notizia è fresca e già sta, giustamente, destando scalpore. In breve: sui fatti della Diaz di Genova, sul suo profilo Facebook, Fabio Tortosa, “uno degli 80 del VII nucleo”, ha scritto: “Quello che volevamo era contrapporci con forza, con giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a chi aveva, impunemente, dichiarato guerra all’Italia”. Si dice – stando a quanto riportano le agenzie – fiero “torturatore con le palle”, un coglione — verrebbe da chiosare — che ha affrontato e ancora affronterebbe (“ci rientrerei mille e mille volte” – ha precisato), protetto nel vigliacco anonimato della divisa, inermi e disarmati manifestanti, spappolandogli le ossa, come in quella vergognosa notte a Genova. E – si badi – non per coprirsi di gloria (per quanto marrone possa essere questa sua gloria) ma per difendere il suo paese; paese che – è il mio augurio – spero vorrà, già da stasera, non farsi più rappresentare da teppa di tal bassa fattura.

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…quotidiana normalità 

  

È l’istante in cui, più o meno inconsciamente, leviamo il capo dalle nostre occupazioni quotidiane e riscopriamo, con stupore, la vita che rende poesia anche la quotidiana normalità.

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…dov’è la strage?

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“Come parla! Come parla!
Le parole sono importanti.
Come parlaaaaaaaaaa!”

Palombella rossa, Nanni Moretti

Ammetto di aver controllato. Non si può mai sapere, chessò, potrei aver letto o, peggio ancora, ricordare male. E invece no, c’è scritto proprio così sul dizionario: “stràge /♫ ˈstradʒe/ [vc. dotta, dal lat. strāge(m) ‘abbattimento, macello’, da stĕrnere ‘abbattere’. V. †sternere ☼ av. 1363] – s.f. Delitto commesso da chi, per uccidere, compie atti idonei a mettere in pericolo l’incolumità pubblica […] di un numero indeterminato di persone”. E, continuando, si legge che alla base del concetto di strage c’è l’atto sconsiderato di un folle disegno criminale che colpisce la collettività in quanto tale, fatta bersaglio, pur nella sua disomogeneità, perché investita di una identità che è essa stessa, di riflesso, bersaglio del folle. Nel caso dell’omicidio plurimo avvenuto l’altro giorno nel tribunale di Milano, invece, c’è, di fondo, una scelta premeditata e precisa delle vittime, freddate perché responsabili, secondo la logica criminale del folle assassino, del suo stato di imputazione. E allora, chiedo: dov’è la strage? Forse che a strumentalizzare quel gesto torna molto più comodo farlo passare per tale?

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[…]

  

“Qui a Milano è accaduto qualcosa di gravissimo, di inaccettabile, che nel nostro Paese ha dei precedenti ma che non doveva succedere. Faremo di tutto perché non succeda più.” (Angelino Alfano, 10.04.2015)

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Semmai…

 orfini 

I fatti, al di là delle ideologie e delle dietrologie del caso, indicano per De Gennaro una assoluzione in Cassazione su quanto a lui contestato in merito alla Diaz perché, com’è uso dire, “i fatti non sussistono”. E quindi, brevissimamente, dov’è la vergogna nel ruolo che attualmente ricopre? Tre gradi di giudizio hanno portato il De Gennaro ad assoluzione, e dunque?! Cos’è — ripeto — che gli si imputa? Semmai, mettiamola su quest’altro versante e chiediamoci se non c’è vergogna a che sia Orfini il presidente del PD. E questo, sia detto per inciso, non per fatti giudiziari, ma per mera opportunità politica.

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domanda…

D'Alema

Un Massimo D’Alema tosto, asciutto, lucido, convincente, con diverse buone ragioni e bene argomentate: ieri contro i giornalisti non ha sbagliato una virgola. Incazzato sì, incazzato nero direi, ma a ragione, ché quanto gli veniva addebitato avrebbe fatto girare non poco i coglioni pure ai politici che hanno studiato dai gesuiti. La notizia? Avere buoni rapporti con una cooperativa fra le maggiori della LegaCoop.
Domanda: erano necessarie le intercettazioni per sospettarlo? Era necessario, poi, darle in pasto ai giornalisti a valorizzare una tale acquisizione investigativa? Beh, calma: prima di arrischiare una risposta – alleggerendola, magari, con qualche fragorosa pernacchia – tenete in conto anche questo dato: il pm dell’inchiesta è Henry John Woodcock.

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Chi volete crocifigga?

  


The lion and the calf shall lie down together
but the calf won’t get much sleep.

W. AllenWithout Feathers, The Scrolls.

Vista la folla che quella mattina si era riunita davanti al palazzo: “chi volete che crocifigga: Barabba o Gesù?”. “Tutti e due”, gridarono; e felici aspettarono di godersi lo spettacolo.

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[…]

 

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

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L’intelligenza…

  

“Идите, идите ио леcтницe, кoтoрая наз- cя цивилизацией, nporpeccoм, кулbтурой, нo куда идти? Право не энаю.” “Andiamo, andiamo — riflette Čechov — su per la scala cosiddetta del progresso, della civiltà e della cultura. Ma dove si va? Io davvero non lo so.” Questa riflessione dello scrittore russo, nella sua lineare chiarezza, mostra come la cultura contemporanea continuamente perda pezzi: forfora di saperi, cumuli di isole resi quasi inservibili, ché mancano i ponti, collante per tentare di tenerli assieme; è smemorata la cultura contemporanea, non ricorda, utilizza il tempo per il tempo, come fosse un luogo orizzontale, una freccia scagliata per dritto, e non scava a fondo, non mette radici e non sfrutta quelle del passato. O, comunque, crea con questi legami così flebili da risultare inefficaci e vani. I miti antichi, i cosiddetti classici, sono importantissimi per la nostra psiche, la psiche di noi uomini contemporanei. Ma quasi più nessuno legge di mitologia, né prova a recuperare i saperi perduti: non c’è tempo — si dice. E lo si dice con tanta superficialità e convinzione come se si sapesse davvero cos’è il tempo, come se fosse semplice rendersi conto di cosa si parla quando ci si riferisce al tempo.

“Mηϰέτι πάπταινε πóρσιoν”, ammoniva Pindaro, “non guardare troppo lontano”, proiettato troppo nel futuro; ma nessuno è più capace di fermarsi per far sedimentare il sapere. L’intelligenza, soprattutto nell’era del web, è velocità, rapidità, concretezza. La lentezza è vista come uno spreco di risorse, non è moderna. Un lusso che nessuno può più permettersi. Solo che si spaccia — con efficacia, visti i risultati — si spaccia, dicevo, per intelligenza un surrogato di essa: proiettiamo sull’individuo, sul singolo, un concetto che di per sé non può essere singolare; decliniamo un concetto collettivo in modo soggettivo, personale, individualista. E ristretto. L’intelligenza, per come l’intendiamo, è capacità di comprendere, di prendere decisioni, è efficacia: nella contemporaneità è talmente staccata dalla cultura a cui apparteniamo che può anche diventare artificiale, può essere gestita attraverso una serie più o meno complessa di algoritmi numerici.

Ma l’intelligenza che conta, quella che incide profondamente nel sistema organizzativo, consolidandone l’identità, quella che aiuta a capire è sempre un’intelligenza collettiva. È l’intelligenza collettiva che spinge al progresso, perché è capacità di leggere il passato attraverso strumenti che sono di tutti e sono condivisi: il linguaggio, la scienza, l’arte, la storia, la religione, in una parola la cultura. 

E — e questo è, se volete, l’aspetto più inquietante — più le società perdono gli strumenti di comprensione, di codifica delle cose, più il sistema tende a rifiutare le origini e a proiettarsi in un futuro snello, veloce, sbiadito tra le maglie del web, più vanno a dissolversi i saperi, più il sistema culturale diventa inutile e più si immagina che l’intelligenza sia qualcosa di infuso dall’alto, dote innata che brilla, solitaria, in un grigiore che tutti accomuna. E questa visione, di per sé, conduce, inevitabilmente, all’impossibilità di progettare il futuro, di fare dell’intelligenza collettiva il punto di partenza di qualsiasi cosa. “If I have seen further it is by standing on the shoulders of giants”, scriveva Newton a Hooke, “Se ho visto più lontano, ho potuto farlo stando in piedi sulle spalle di giganti”, sfruttandone, appunto, le conoscenze, i pensieri. Studiandoli.

Insomma, e qui chiudo, l’intelligenza — a dirla con una massima — non è un sapere autoreferenziale, spirale che collassa in un punto, ma è sapere condiviso, assieme agli altri. Non è la velocità del tempo, il lampo dell’intuizione, scintilla viva nel buio, non è l’eccezione del genio solitario, ma è il sentimento del tempo.

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