Papa Francesco: “Se la suora non sorride, le manca qualcosa.” [*] Un dente.
La bella Shahrazād, per evitare che il sovrano Shāhrīyār — perfido e cornuto — infligesse anche a lei il trattamento che amava infliggere alle belle del regno (consumava ogni notte un rapporto sessuale con una giovane fanciulla, per poi farla giustiziare dai suoi sottoposti non appena sorto il sole della nuova giornata), dovette inventarsi mille e una favola per incantare il sultano — perfido e cornuto — e trascorrere immune هزار و یک شب (più o meno tre anni). Singolarissimo espediente. Ma forse, da che mondo è mondo, gli uomini raccontano (e scrivono) favole per allungare la vita un po’ di più e, sempre nella speranza di fregare un po’ la morte, ascoltano (e leggono) favole per ammazzare un po’ meno.
«Non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità. Non si può vivere felici altrimenti.
Epicuro, Massime capitali
Immaginate che Francesco – vostro figlio – sia sempre taciturno, schivo, introverso, non ami giocare coi suoi coetanei; di notte, mettiamo che il fanciullo confessi di sognare il diavolo e vi capiti – siamo già verso i nove anni – di sorprenderlo a flagellarsi la schiena con una catena. Immaginate ancora che Francesco, vostro figlio, sia attratto ossessivamente dal “sistema pilifero” di Padre Camillo da Sant’Elia a Pianisi: “La barba di fra Camillo – avrà modo di confessarvi – si era ficcata nella mia testa, e nessuno mi poté smontare”; che il piccoletto abbia febbri continue, spesso oltre i quaranta, intervallate con continui malanni respiratori e intestinali. Che vi chieda, in continuazione, di ripetergli la storia delle stigmate di San Francesco e che a sentirsela raccontare vada ogni volta fuori di testa, come in trance. Che lo troviate spesso gonfio come un pallone, pieno di lividi e tagli e, a domanda, la risposta sia: «L’altra notte la passai malissimo; quel cosaccio da verso le dieci, che mi misi a letto, fino alle cinque della mattina non fece altro che picchiarmi continuamente. […] Credevo proprio che fosse quella propriamente l’ultima notte di mia esistenza; o, anche non morendo, perdere la ragione. Ma sia benedetto Gesù che niente di ciò s’avverò. Alle cinque del mattino, allorché quel cosaccio andò via, un freddo s’impossessò di tutta la mia persona da farmi tremare da capo a piedi, come una canna esposta ad un impetuosissimo vento. Durò un paio d’ore. Andai del sangue per la bocca». Che su un suo tema in classe, a quindici anni, leggiate: “Oh, se fossi re, combatterei prima di tutto il divorzio, da molti cattivi desiderato, e farei sì che il sacramento del matrimonio fosse maggiormente rispettato… Io cercherei di illustrare il mio nome col battere sempre la via del vero cristiano; guai poi a coloro che non volessero seguirla. Li punirei subito o col metterli in prigione o coll’esilio, oppure con la morte“.
Immaginato tutto? Fatto? Bravi! Adesso – mi pare lecito – la domanda è: voi, da genitori, che fareste? Ricovero? Psicoterapia? Oppure, che ne so, esorcista? Col cuore in mano, credetemi: qualunque cosa decidiate di fare, siete in errore. Per carità di Dio, fermatevi! Mi raccomando! Ché con un po’ di culo, qualche goccia di acido fenico puro e, magari, l’interessamento di qualche buon prelato in alto loco avrete un autentico santo in famiglia. E so’ soldi (oltre che soddisfazioni)!
Una mattina Petr, lo scarafaggio, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nella sua tana, in un minuscolo e lindo politico. Era disteso con la schiena sulla terra nuda, dura come solo la faccia di certi suoi colleghi, e alzando un poco la testa poteva ben vedere il suo ventre molle, chiaro, obeso, coperto da peli lunghi e radi, in cima a cui la coperta del letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica.
Due gambe e due braccia, mostruosamente grosse rispetto alla sua mole, si muovevano davanti ai suoi occhi.
«Che cosa mi è accaduto?», si domandò. Non stava affatto sognando. La sua tana, una normale tana per blatte, anche se un po’ troppo piccola, era sempre lì quieta come l’aveva lasciata prima di addormentarsi…
Le elezioni Campane, per Renzi, sono un continuo e omertoso rimando agli impresentabili: nomi «che io — a voler usare le parole del capo del Governo — non voterei mai». Al netto dell’imbarazzo mediatico che la cosa comporta, “di grazia — avrei da domandare al premier — mi dici chi sono almeno i presentabili?”.
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È davvero difficile dire se la legge 40 sia più crudele o cretina. Quanto sia crudele hanno dovuto viverlo sulla loro pelle, in questi anni, le donne alle quali è stata vietata la diagnosi preimpianto e che poi sono state costrette ad abortire l’embrione portatore di una patologia non desiderata; un di più di sofferenza che si poteva evitare d’impiantare. Quanto sia cretina, invece, ce lo stanno, piano piano, facendo scoprire tribunali e Consulta: il nostro Parlamento, piccolino, da solo non ci arrivava.
«Cultura umanista» invece che «cultura umanistica», ovvero metti un piazzista semianalfabeta in cattedra a spiegar la riforma della scuola.
Folla di persone in fila a osservare una macchia grigiastra affiorata su un muro; macchia che ha fattezze di un volto – quello Santo di Padre Pio, manco a dirlo. Lo aveva scorto – questo è il ricordo – una donna e ne aveva dato voce al paese intero. Storcevano il muso i cinici e gli scettici: l’è umidità, il piscio d’un cane bla-bla-bla. Nulla, nessuno dei presenti accorsi si curò di quelle voci stonate e tutti sfilarono, piansero, videro e pregarono, a ribadire la superiorità della nostra cultura giudaico-cristiana su quella dei fanatici mussulmani. Il vero Dio, è risaputo, sa a chi mandare i segni. La differenza la fa il cuore di chi vi si pone di fronte, ai segni, e col cuore la fede.
Questo ricordo riaffiora alla mente come efflorescenze di salnitro su un muro e me ne richiama un altro legato a ciò che mi diceva, quand’ero adolescente, S.: dottore in ingegneria, temibile scassacazzo, cirrotico e, dimenticavo, d’animo cinico assai; morì giovane (ne soffrii nel profondo, stragiuro). Egli, fumando beato la sua cicca (accesa e spenta chissà quante volte) e sorseggiando, di nascosto dai suoi ma non da me, la mitica Sambuca Molinari, era solito indicarmi nella vastità del cielo, a lavoro finito – uno dei tanti che svogliatamente conduceva e che mi costringeva a seguire –, qualche barocca nuvola lontana, che a me di volta in volta pareva somigliare a galeone, amerindio o pescecane. Ed egli a me, svogliatamente, col labbro sporgente e sempre screpolato: “Ma no, ma no, testa di cazzo, non hai un briciolo di sensibilità artistica… Ma qua’ indiano o pescecazzo. Guarda là, guarda bene quella è una vulva! Non la vedi?” E guai ad ostinarsi col pescecane o col pellerossa. Io, poi, pur molto affezionato e a lui legato da una devozione pressoché filiale o, se volete, di paracula riconoscenza (ché lui poi, a modo suo, m’aiutava con la matematica), non ero mai capace di convenire, foss’anche per rispetto o per antipatico dispetto. Al massimo, ammettevo: “Sì, a ben vedere un galeone e una vulva…”. Sempre stato di una civiltà inferiore, io. Né cuore, né fede, né fegato.