Si parla di Craxi e giù tutti a sentirsi autorizzati a usare il verbo avere…
“Ogni scelta ha un rovescio cioè una rinuncia,
e così non c’è differenza fra l’atto di scegliere
e quello di rinunciare”
— Italo Calvino
Amare, per piacevole che sia, presuppone sempre una scelta ovvero — stante l’assunto di Calvino — una rinuncia.
È un atto di rinuncia — quello dell’amare, dico — che ad ogni modo accetto volentieri, preferendolo di gran lunga agli altri, non fosse altro perché consente di donarsi e di conoscersi per quello che davvero si è. Del resto la scrittura — l’atto dello scrivere, del raccontare, intendo — è nient’altro che un puro strumento per esercitare l’amoroso e sublime rapporto col mondo tutto: uno sforzo, un intenso sforzo, alla rappresentazione, la più fedele possibile, delle cose che lo compongono.
Esiste una guerra giusta? Sulla domanda – nella sua banale formulazione – grava l’ombra di un equivoco: come se si stesse discutendo quanti kilogrammi è alto l’Everest. Rinunciando ai tecnicismi, sennò sai quanti sbuffi d’uggia, potremmo pure raffazzonare la domanda in questo modo: posto che la violenza sia male, esistono casi in cui una reazione violenta è giustificabile? Giustificabile — Zanichelli alla mano — non significa affatto giusto e buono: c’è qualcosa di biologicamente ingiusto nell’asportare un arto, ma in caso di cancro diventa giustificabile. Raffazzonando, insomma, potremmo dire che anche i sostenitori della non-violenza in genere ritengono, in certi casi, giustificabile l’uso della violenza: persino Gesù — giusto per fare un nome tra i buoni per antonomasia —, di fronte allo scandalo dei mercanti del tempio s’incazzo e non poco. Non solo le religioni rivelate (il lettore, se non si rompe troppo il cazzo, può andarsi a leggere, in rete, una dichiarazione di Papa Francesco sull’uso della forza a chi avesse a insultare sua mamma) ma anche la morale naturale ci dicono che se qualcuno assale noi, i nostri cari, o qualunque persona innocente e indifesa, è naturale che si reagisca violentemente a eliminare il pericolo. È giusto, quindi, parlare di resistenza come modello di violenza “giusta”? Sì, nella misura in cui quel modello vuole spiegare la reazione violenta di un popolo che, di fronte alla pressione esercitata dalla violenza del tiranno, non trova di meglio che fare il mazzo tanto alla tirannide insopportabile.
Cazzarola, la sto facendo troppo complicata? Chiedo scusa in aticipo e cerco di rimodulare il testo al prosaico.
Il problema — ‘sto cazzo di problema da cui siamo partiti, dico — nasce di fronte alla parola “guerra”. Essa è una di quelle parole come “fisica”: la usava la filosofia greca e la usano gli scienziati contemporanei, ma ha due significati completamente diversi; un tempo designava la filosofia naturale e oggi è la scienza che studia la materia, l’energia e le loro reciproche interazioni. Chi volesse leggere Aristotele in termini di fisica moderna, o viceversa, non capirebbe una mazza. Ora, tranne il fatto che in entrambi i casi sono morte delle persone, c’è assai poco in comune tra le guerre degli antichi romani e la seconda guerra mondiale. A stringere il dire, se in passato la giustificabile reazione violenta contro un prevaricatore poteva assumere la forma della guerra guerreggiata, oggi è possibile che la guerra guerreggiata sia una forma di violenza che non serve a contenere il prevaricatore, ma anzi potrebbe, per paradosso, avvantaggiarlo.
Negli anni, poi, siamo riusciti ad inventarci termini come “guerra fredda”: terribile, cattiva, nei fatti e in potenza, piena di violenza minacciata o espressa localmente, questa guerra surgelata nell’azione partiva dal concetto che la guerra guerreggiata sarebbe stata uno svantaggio anche per i “buoni”. La guerra fredda — a voler sintetizzare il pensiero — è stata il primo esempio di come il mondo si sia accorto che il concetto primitivo di “guerra” era cambiato, e che una guerra moderna non ha più nulla a che fare con i conflitti classici, che vedevano sempre alla fine i vinti da una parte e i vincitori dall’altra (tranne pochissimi casi limite che gli storici accumulano sotto il nome di ‘vittorie di Pirro’).
Così, visto come sono andate le cose e per i “benefici” effetti contenitivi che quella dittatura esercitava sul territorio, una giusta reazione violenta nel caso di Gheddafi avrebbe potuto prevedere un contenimento freddo molto serio o, al limite, spietato, con scaramucce di confine, e un sistema di controllo rigorosissimo – con legislazione di emergenza – per cui ogni industriale occidentale che avesse venduto a Gheddafi una sola spilla da balia si sarebbe visto affibbiato l’ergastolo; nel giro di un anno, le tecnologie di attacco e di difesa del dittatorello libico sarebbero state largamente obsolete.
Ma questo, come usa dire, è il senno di poi. Il senno di sempre, e di domani, ci dice che se uno ti rompe il cazzo con un coltello hai diritto di rispondere almeno con un pugno; ma se tu, metti caso, sei Capitan America, e sai che con un tuo pugno, il tuo avversario finisce dritto dritto sulla luna e che, magari, l’impatto produrrà lo sbriciolamento del nostro satellite, il sistema della gravitazione universale se ne va a puttane, Marte mi collide con Giove e così via, ci pensi un momento – anche perché potrebbe darsi che la catastrofe gravitazionale fosse esattamente quello che il tuo avversario voleva. E che proprio non dovresti concedergli.
Dapprincipio, con vigore, si tenta di metter fine alle grandi migrazioni. E così, gli imperatori romani erigono un vallum qua e uno là a protezione sia dei castra che dei confini e mandano le quadrate legioni in avanti per sottomettere gli invasori; vengono poi a patti e provano a disciplinare le prime installazioni per poi, in seguito, allargare la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero. Alla fine, sulle rovine della romanità, ecco fiorire quelli che gli storici usano definire regni romano-barbarici: origine dei nostri paesi europei, delle lingue che fieramente oggi parliamo, delle istituzioni politiche e sociali che ci appartengono.
Le grandi migrazioni, anche a volerlo, non si possono fermare e, paradossalmente, qualsiasi tipo di intervento regolatore produce un aumento della pressione migratoria verso altre zone a creare, se è possibile, ancora più caos nei paesi di transito. Al di là dei calcoli elettorali o, magari, della miope incapacità di gestione politica, occorre, semplicemente, prepararsi a vivere una nuova stagione della cultura afroeuropea.
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Ci sono legami che non sono rinnovati, e col tempo diradano all’estremo; in un modo o nell’altro, comunque, formano o concorrono a formare la larga trama su cui insistono le vicende della nostra storia più recenti e frequenti.
Ci sono legami che il desiderio vorrebbe rinnovati, ma tanta è la distanza nel tempo e nello spazio, che la trama ahimè ne è irrimediabilmente compromessa, lontana e sfibrata, e fitto è solo il ricordo, come ombra che si allunga alla sera.
E così, quando B. arrivò correndo nel luogo stabilito, lei chiaramente non c’era nella piazza del paese dove s’era convenuto d’incontrarsi; eppure aveva fatto appena un quarto d’ora di ritardo! I telefonini, allora, non esistevano e lui, affannato e sudato, con lo sguardo disperato girava a compasso la piazza e, in fondo, in una stradina laterale di accesso, gli sembrò di intravederla. Fu un attimo: fece una corsa, era lei, triste: aveva il muso lungo, gli occhi spenti, era bella ma non gli disse manco ciao. E sì che si scusò, che dette la colpa a quella cazzo di catena della bici, e a un suo amico che lo aveva importunato per chiedergli un consiglio su non ricordo bene quale problema aveva con la sua pupa, ma lei niente, zitta, camminava a testa bassa, incurante e fredda, nessun segno di comprensione. A lui, improvvisa, giunse un’eccitazione mista allo sconforto: c’era quel fiore di vita pieno, acerbo, a portata di mano e sentiva di non poterlo cogliere. La rabbia montava, la disperazione bastarda prendeva il sopravvento. Così, dal mazzo che s’era preparato per quell’incontro, pensò di giocare la carta stupida dell’indifferenza e disse, tra lo strafottente e il serio: «Va be’, per un’ultima volta: mi spiace, non ho fatto apposta… accetta le mie scuse, altrimenti pazienza, ciao, buona passeggiata». Lei alzò la fronte da terra e per un attimo posò, altrettanto seria, gli occhi dentro i suoi. Un brivido di esitazione e le lucide labbra di marzapane lievemente si schiusero a lasciar filtrare i raggi bassi del sole negli spazi lievemente pronunciati tra un dente e l’altro. Un sospiro? Una parola soffocata in gola? Dio come era bella, buona, tanta! Un gesto, un solo gesto, e l’avrebbe seguita ovunque nonostante l’alterigia, l’orgoglio e l’ostentato disprezzo che, come velo funebre, le coprivano il viso. Ma fu impossibile. Quello sguardo di grazia pieno si diresse ovunque tranne dov’era posto lui. Non gli disse nemmeno ciao. Lui, stordito, non le disse nemmeno vaffanculo.
“…la correttezza amministrativa va di pari passo con l’etica culturale.”