«La pena mia non è che si rubi; è che io non mi ci trovo in mezzo». Questa frase, che ho sentito pronunciare qualche anno fa con tono di scherzo, a velarne la viscerale sincerità, è ormai sulle segrete bandiere di molti.
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Le sentenze – è in uso dire – vanno rispettate, sempre, anche quando sono considerate ingiuste. Rispettate, senz’altro. Ma criticabili, pure.
Senza però star qui a farla troppo lunga – ché qualcuno poi ci legge un dappiù di malizia da parte mia nel voler, magari, aggirare un ostacolo sopravanzando il legittimo diritto –, da quando la Cassazione ha stabilito che l’espressione “paese di merda” configura reato di vilipendio alla nazione, io mi limito a pensarlo, ma m’impongo, anche con la forza, contravvenendo ai miei principi morali di liberà di esprimere le mie opinioni sempre e comunque, m’impongo, dicevo, di non venir qui a scrivere “questo è un paese di merda”. Mi costa, lo ripeto, enorme sacrificio, ma la legge è legge; e dinanzi alle disposizioni dell’Alta Corte, m’inchino umilmente e mai, dico mai, mi troverete più a scrivere “paese di merda”, mai. Rinuncio anche a imbastir un minimo di ragionamento a sostegno della tesi che la definizione sia perfettamente calzante al nostro Paese. Ci rinuncio non foss’altro per evitare di dover utilizzare giri e giri di parole per non contravvenir al divieto di citare palesemente l’espressione tra virgolette. Chiaro, no?
Premessa che sarebbe superflua, questa, se il Paese, questo Paese, non fosse quello che è. Paese in cui è permesso, con disarmante superficialità, aggirare le leggi dello Stato a tutti e a tutti viene offerta, poi, un’interpretazione comoda a parargli il culo; un Paese questo in cui un delinquente pregiudicato ancora ha la possibilità di dire le sue idiozie in tv davanti a milioni di telespettatori; un Paese questo in cui a un altro viene offerta la possibilità di candidarsi in barba a disposizioni dello Stato, salvo poi sputtanarlo con una lista la cui legittimità viene poi disconosciuta dagli stessi organi che ne hanno voluta la legittimità.
Ecco, e qui mi fermo: quale migliore definizione – chiedo ora – per un Paese in cui questo (e molt’altro) può accadere? Chiaro, no?
D’un tratto m’è apparsa la Gruber, per poco non ci restavo secco. Era in chiodo di pelle, leggings attillatissimi, zeppe di legno vertiginose, e una grinta da entreneuse di deliziose gallerie di orrori rocchettari: presenziava al ricevimento del Quirinale per la Festa della Repubblica, ripristinato quest’anno dal capo dello Stato Sergio Mattarella dopo gli anni di spending review del predecessore Napolitano.
Mai interessato il genere, professionalmente nulla da ridire, ma devo confessare che stavolta ne ho avuto grande pietà.
Come i peperoni, il dibattito si ripropone, ha una sua intrinseca ciclicità specie — ça va sans dire — in periodo pre- e post- elettorale. Tema: il ruolo politico della televisione; sottotitolo: occupare gli schermi davvero significa ottenere un’influenza decisiva sull’opinione pubblica?
A sentir gli argomenti di chi si sente estromesso dal mezzo di comunicazione, verrebbe da rispondere subito con uno schietto ‘sì’ al quesito proposto. Ma la risposta sarebbe — spero ne converrete — un riflesso condizionato più che un ragionare ancorato sui dati.
Proviamo, per quanto possiamo, ad abbozzar un pensiero attraverso quello che il fisico danese Hans Christian Ørsted definiva un gedankenexperiment — esperimento mentale.
Siamo nel Tremila. Con noi è un illustre storico che sta provando, poveretto, a sintetizzare la storia a noi (sue cavie) più prossima. Osserva lo storico. Negli anni cinquanta, e per buona parte dei sessanta, i dettami seguiti della televisione in Italia erano quelli democristiani. Sul piano della morale — sono sempre le considerazioni dell’amico storico — la televisione virava decisamente verso il bigotto: era attenta a non mostrare nudità perturbanti, calzamaglie coprivano voluttuose cosce; i servizi religiosi erano oculatamente diluiti lungo tutto il palinsesto televisivo; i personaggi positivi avevano tutti i capelli corti, cravatta e modi gentili. Risultato: di lì a poco sarebbe esplosa la generazione del Sessantotto: capelli lunghi, libera convivenza sessuale, lotte per divorzio e aborto, odio per il sistema, anticlericalismo…
Poi — continua ad osservare lo storico — è arrivata la televisione lottizzata: sul piano del costume, a poco a poco, è giunta a mostrare i seni nudi (e a tarda notte anche altre parti più intimamente segrete), ha dato spettacolo di spregiudicatezza, sarcasmo, rissosità, scarso rispetto per le istituzioni. E su questo piano del costume ha prodotto una generazione che a poco a poco è rientrata nei valori religiosi, e pratica il sesso con prudenza. Sul piano politico ha inculcato, sia pure dividendosi su tre canali che si volevano ideologicamente diversi, il rispetto per una classe politica che si mostrava in video ogni qual volta poteva e riaffermava, con l’invadenza della propria immagine, il proprio potere e (presuntivamente) la propria popolarità. Risultato? Una parte dei cittadini si è ribellata autonomamente a questa classe politica attraverso l’opzione anticasta (o fintamente tale); tutti gli altri, non appena si è aperta una falla nel sistema, non hanno atteso un momento per salutare nei magistrati, nei comici o negli arruffapopoli di ogni specie i propri giustizieri, e hanno incominciato a tirare duomi e uova marce (non solo per metafora) a quei politici che vedevano in video, non appena ora li scorgono per strada. Il nostro storico del Tremila potrebbe persino trarre l’avventata conclusione che una televisione democristiana ha prodotto il più massiccio avanzare di un Partito comunista mai verificatosi in Europa occidentale, mentre il graduale accesso dei comunisti al controllo dei canali ne ha provocato la recessione. Se il nostro storico vivrà in un’epoca di religiosità spinta e sentita, ne concluderà che la televisione era l’Impero del Male per chi cercasse di piegarne, a proprio uso, i poteri persuasivi o, più semplicemente, che quel medium portava una sfiga pazzesca a chiunque si affacciasse dai teleschermi. Se avrà invece disposizioni al ragionamento analitico e alla formulazione di ipotesi scientifiche dirà che questo mezzo invadente potrà forse aver sensibilmente influenzato il modo di pensare della gente sul piano dei consumi, ma non certo su quello delle passioni e decisioni politiche. Si chiederà allora costernato come mai per il possesso di questo mezzo si fossero scatenate tante lotte, e ne concluderà che gli uomini del nostro secolo non capivano un cazzo di comunicazione massmediale.
Siamo alle solite: hanno fatto così anche con Berlusconi, per vent’anni, e non è servito a un cazzo. Avranno imparato la lezione, uno pensa. Macché, anche stavolta hanno pensato che a far perdere consensi al demagogo potesse bastare mostrare le contraddizioni con se stesso, dar prova che sia un gran cazzaro, che cambi idea con la disinvoltura con cui una puttana si scopi un cliente o l’altro, che tratti la questione morale con l’elasticità di un copertone per automobili, tirandola e sformandola a seconda di come più gli aggrada.
Certo, dice, la battuta d’arresto c’è stata — ma relativa, ché quello delle Regionali era, in partenza, un test assai poco significativo: Renzi, in soldoni, vince comunque cinque a due. Eppure s’era lì a sparare nel mucchio, l’imbarazzo della scelta era davvero tanto: De Luca che piscia allegramente sulla legge Severino ma dice che la sua è una pisciata “di scuola”, lo scivolone mediatico della Bindi e la lista degli impresentabili, i candidati sbagliati in Liguria e in Veneto… un catalogo delle contraddizioni davvero voluminosissimo, roba da far invidia alla Treccani! Niente, cinque a due.
È che questi lodevolissimi commentatori delle altrui contraddizioni, indice teso a mostrar il paradosso, sotto sotto so’ sentimentalmente democratici e sfacciatamente ottimisti: convinti che alla gente faccia difetto solo la memoria. Magari! È che alla gente, oltre la memoria, fa soprattutto difetto la buona coscienza. E poi, cotanta cazzimma, cotanta guapparia, cotanta sfaccimma d’uomo – uomo, per giunta, di cotanta conseguenza – qui da noi, da sempre, fanno il deus ex machina.
È che, diciamolo chiaro, la gente ha bisogno di un millantatore in cui versare tutte le proprie speranze, qualcuno che incarni i suoi stessi difetti con l’autocompiacimento di chi li sappia volgere a pregi, esaltandoli a carattere nazionale. Mente? Suvvia, lo farà a fin di bene, per catalizzare le positive forze della speranza. Imbroglia!? E chi non imbroglia. Ma è mai possibile che nessuno riesca a cogliere negli atteggiamenti, nei toni e nei tic comportamentali di questi Uomini della Provvidenza, più o meno unt(uos)i, gli stessi atteggiamenti, gli stessi toni e gli stessi tic di chi applaude loro? Di questa gente sono semplicemente il medium. Fosse bastato rammentare alla plebaglia la promessa di un milione di posti di lavoro e la sconfitta del cancro, quanto sarebbe durato Berlusconi? Volevano credergli, dovevano credergli e nessuno avrebbe potuto togliergli la malia del feticcio, se non chi avesse trovato il modo di fottergliela.
Dice: possibile che la gente sia tanto ottusamente in malafede? Non tutta, la maggioranza sì, però. Ed è una maggioranza che rimane salda e solida attraverso gli anni, forte come l’ignoranza quando si pavoneggia, compatta e rigida pure quando i flussi elettorali la descrivono liquida e mobile, senza soluzione di continuità anche quando si dilania in due schieramenti: è l’anonima maggioranza inetta alla libertà, quella che schifa le responsabilità, tutte le forme di responsabilità. Perché un paese con questa maggioranza dovrebbe salvarsi dallo sberleffo, dal fallimento? Non sarebbe giusto, via.
Era il 1924. Mussolini stravinse le elezioni politiche col 64,9% delle preferenze. Alcuni fra i suoi oppositori — quelli intellettualmente più onesti, a dire il vero — ebbero un sano istinto autocritico, ché il democratico verace, si sa, non dà mai della capra al popolo, neanche se lo sentisse belare.
Possibile, dicevano quelli, che due italiani su tre so’ così fessi o criminali, solo per aver scelto Mussolini? Macché, la faccenda era molto più complicata di quanto apparisse, bisognava capire: se, com’era vero, la gente aveva votato il Pnf, sotto sotto doveva esserci un motivo. La superba presunzione di sentirsi migliori solo in quanto antifascisti non pagava, isolava (e, in quel caso, a Ventotene).
Meno male, mi dico, che non ci si può mai bagnare due volte nello stesso corso degli eventi. E che ogni precedente non è detto sia causa fatale. O, almeno, provo a raccontarmela così.
(L’occhio del barbagianni, Guido Ceronetti per i tipi di Adelphi). Qui la riflessione 75 contiene la premessa per provare a chiarire tutte le scelte della Politica sociale, economica, interna, ec.: «Nessun politico è privo di datori di lavoro che abitano stabilmente nelle tenebre.»
A dispetto dell’iconografia classica, ne l’Annunciata di Antonello da Messina l’angelo dell’annunciazione non c’è. E l’assenza è, per così dire, funzionale alla rappresentazione: manca l’angelo non perché sia andato perduto, tagliato o disposto in altro pannello; no. Il genio di Antonello ha concepito l’immagine dell’immacolata da sola proprio a voler indicare la solitudine di una decisione così tormentata, così assoluta come quella di essere la madre di Dio. «L’annunciata di Antonello – scrive Vittorio Sgarbi in Piene di Grazia, Bompiani – ha lo sguardo che viene verso di noi per poi arrestarsi come per un riempimento, per un’improvvisa necessità di concentrazione in sé che vediamo sottolineata dal gesto a mezz’aria della mano»; mano che non è solo un elemento prospettico, ma è elemento che trattiene l’angelo fuori (dal quadro e) dalla mente della donna in un gesto che lo allontana, a tenerlo oltre dai suoi pensieri. Perché non bastò che un angelo dicesse: «Concepirai un figlio e lo darai alla luce» (Lc 1, 31), ma fu necessaria la profonda e tormentata riflessione di una donna, e che ella stessa dicesse: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1, 38). Sennò — col rispetto che è dovuto al caso — col cazzo che la storiella andava avanti!