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Oh i bei cretini di una volta!


Il brano è tratto da Nero su Nero del maestro Sciascia. Come si riconosce un buon maestro? Beh, un buon maestro di solito non è un cretino.
Di intelligenti — lo dice anche Sciascia — c’è stata sempre penuria; enumeravo tra quest’ultimi il buon Ceronetti. Devo ricredermi e portarlo subito a carico della lista dei cretini “adulterati, sofisticati”. E un po’ dispiace. Davvero.
 

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Moda…

«Io — fa un mio amico — Salvini non lo posso vedere,» (cioè: mi è antipatico, lo detesto) «ma sugli immigrati ha ragione»; e tira via verso la sala del convegno.
Grazie a coloro che dettano moda (di «mal protesi nervi» il più delle volte) l’eros è oramai tutto un intricato rameggio di varici.

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Prendete, per esempio, la cattolica Italia.

Mussolini alessandra

La famiglia tradizionale è un modello che, nel tempo, vede immutato il suo fascino ammaliatore. Le tetragone certezze su cui si fonda, infatti, vengono direttamente dalla legge naturale, discendono dunque da Dio per essere restituite in un incantevole caleidoscopio di serenità e letizia a chi – ça va sans dire – è disposto a rispettare quella legge, accogliendola in sé come propria natura.
Innanzitutto, natura di genere, cioè quella che stabilisce e disciplina la diversità biologica tra maschio e femmina, diversi perché fatti per completarsi a vicenda e nel fine più nobile, cioè quello riproduttivo, che è, in ultima analisi, anche e soprattutto trasmissione di cultura e di valori. Dunque, natura di genere, ma anche – e per forza di cose – di persona, e di persona intesa come “organismo unitario – dice lo Zanichelli – costituito da un complesso di persone fisiche e di beni cui lo Stato riconosce capacità giuridica e d’agire per il perseguimento di uno scopo lecito e determinato”, soggetto relazionante, cioè facente parte di un corpo articolato in strutture che nessun malinteso senso della libertà può azzardarsi a mettere in discussione senza con ciò minare le fondamenta stesse della società.
Il Family Day l’ha fatto capire in modo inequivocabile: è la tradizione cristiana che informa il modello di famiglia, perché nemmeno può dirsi famiglia un modello diverso da quello tradizionale. La tradizione cristiana, che in questa bella parte d’occidente coincide con quella cattolica, difende questa famiglia, l’unica a potersi dire famiglia, l’unica che sulla verità fonda l’amore e dall’amore trae la verità.
“Maschio e femmina Iddio li creò”, e doveva esserci un motivo, e il motivo era appunto la specializzazione dei ruoli. Sovvertire quest’ordine arreca disarmonia, e sconcerto, e, spero ne converrete, crisi. Rispettarlo come cosa sacra, rinunciando alle pulsioni egoistiche che fanno fraintendere questo modello di famiglia come rigido e oppressivo, e quanto se ne allontana come ricerca della felicità dell’individuo – rispettare quest’ordine, che è rispetto del sacro e quindi indissolubile vincolo matrimoniale e dell’altrettanto sacro debito di amore nella catena che ci genera come figli e ci rende genitori – rispettare quest’ordine, dicevo, è sublime fonte di ricchezza spirituale e, perché no, materiale.

Prendete, per esempio, la cattolica Italia. Provate a zoomare sulla ridente Lazio. Ancora zoom, sulla cattolicissima Roma. Zoomate ancora su quella macchia di verde. Ecco, vedete quella ventina di villette tra gli alberi di quella collina? Bene, osservate cosa accade in casa Floriani.
Gente sana, forte, laboriosa, che nella famiglia ci crede, e infatti sono tutti uomini e donne assai devoti, li troverete in chiesa ogni domenica, non mancano mai a una processione e, se chiedete al parroco, non potrà che dirvene un gran bene. Patriarcale, dicono. Dicono che quello dei Floriani sia un clan patriarcale. Qualche intellettualucolo azzarderebbe addirittura a definirlo un aggregato di tipo familistico-tribale, a tanto siamo giunti nel non saper più riconoscere come virtù nell’uomo la fedeltà alla regola dei nostri antenati, quella fatta di rispetto per i genitori e di venerazione per i nonni, di sollecita dedizione all’uomo e alla donna che sono e saranno il compagno e la compagna dell’intera nostra vita, di attenzione e cura al prolifico frutto dell’amore, cioè ai figli, cui non bisogna mai lesinare esempio e catechismo, semmai anche uno scappellotto, se necessario, ché uno scappellotto, è uso dire, non ha mai ammazzato nessuno. Ma torniamo ai Floriani.
Le donne stanno in casa, è la regola. D’altronde, una donna in casa, se non indispensabile, è quasi sempre necessaria volendo una prole sana, forte e rispettabile. Mettiamo caso che una donna voglia lavorare fuori casa. Mettiamo che di famiglia – la famiglia di lei, dico – la signora abbia la fissa della politica e mettiamo che, per il cognome che si porta appiccicato addosso, venga pure eletta al Senato. Mettiamo – e qui c’è poco da lavorar di fantasia – che cominci a guadagnare più di suo marito. Devo aggiungere altro? La famiglia tradizionale è andata a puttane (letteralmente, verrebbe da chiosare). È quasi inevitabile che inizino a crearsi malumori. La moglie perderà quella naturale mitezza femminile – non che nel caso in esame ne avesse prima, ma mettiamo che si sia accentuata –, e al marito verranno meno quelle certezze che fanno la sua forza anche nei momenti difficili che non mancano mai nella storia di ogni famiglia. Il pomo della discordia si insinuerà maligno nella pace domestica iniettando il suo mortale veleno, alterando i contorni della realtà, ombreggiando di sospetto e di risentimento quanto è ormai andato perso del sacro modello.
Basta uno scranno al Senato? Non è quello, via, non banalizzate. Però, pensateci: se siete stati educati come si deve dal vecchio Floriani, e invece della moglie tradizionale vi trovate in casa una moglie che non sta sempre in casa, be’, qualche pomo al culo ve lo ritrovate. La santa tradizione cristiana lo dice e lo sottolinea: o vergine o madre (tutte e due le cose insieme solo la Madonna). Se non sei vergine e non fai la madre come si deve, cioè non stai in casa a far la madre, non è che sei automaticamente una zoccola, ma insomma, come dire, la probabilità a favore non ti manca. C’è da perderci la testa, e il buonumore, e la salute. Per un maschio, diciamolo, è micidiale, si diventa nervosi, chissà, pure un pochetto aggressivi, o comunque ti si ammoscia la voglia. Come fai a scopartela, una che è così diversa dal modello incarnato da tua nonna, da tua madre e da tua sorella? In quello che l’intellettualucolo chiamerebbe gruppo familistico-tribale l’incesto, che era regola, oggi è sublimato, sicché non riesci proprio a scopartela una donna diversa dalla nonna, eccetera. Cioè, puoi pure scopartela, anzi puoi pure scoparti una minorenne, come fanno molti buoni padri di famiglia cattolici, ma una tantum, via, giusto per aver qualcosa da confessare al parroco, ecco. Una zoccola mica te la sposi (una minorenne tanto meno, la Cei su questo è categorica).
Trovarti in casa – quando te la trovi – una che avevi preso come moglie e adesso c’ha la chance d’esser zoccola ti fa passare la voglia, che infatti vuole testa, buonumore e salute. E infatti ultimamente te la scopi sempre meno. E così t’organizzi. Poi, un giorno, ti ritrovi accusato (*) dalla Procura di Roma di prostituzione minorile per avere chiamato due ragazzette dei Parioli che vendevano il proprio corpo in un appartamentino.
Tua moglie – l’ha dichiarato in passato ai giornali – ha partecipato a diversi Family Day – ora la difesa della famiglia tradizionale le impone di comportarsi di conseguenza – …insomma, stai sereno Mauri’!

Zoom indietro, villetta in mezzo al verde, Lazio, Italia, occidente cristiano.

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(…)


«Piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale.»

Porco Rosso
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…un far quattro dalla somma di due e due

Più ridotta è la possibilità di scelta, più lo strumento di scelta è inutilizzato o male utilizzato (per pigrizia, per limiti oggettivi, per sciatta incuria), e meno si ragiona: si interpreta male, si vede peggio e non si capisce niente. Parlare e scrivere sono più causa che effetto del conoscere: parlando e scrivendo si organizza un pensiero, si ragiona; è il linguaggio che costruisce il pensiero, non viceversa. Non a caso il logos è il discorso e il ragionamento (una cosa sola), “in quanto procedimento del pensiero, quindi — precisa lo Zanichelli — manifestazione delle stesse facoltà logiche e razionali dell’uomo”.
Sicché, e ritorno al punto, se presto ascolto a quanta gente parla, legge e scrive male, se ovunque mi capita di sentire e di leggere un pessimo italiano, io mi spiego — è, più che spiegare, un far quattro dalla somma di due e due — il perché della insana follia che ha pervaso l’Italia; e, giacché, purtroppo, il peggiore italiano è ormai praticato da chi, con le sue scelte, detta le sorti di questo Paese, mi spiego pure il perché di tanta merda che ci soffoca.

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…errori

Dopo le elezioni, è tutto un contristarsi — per quelli che non sono riusciti a guadagnare voti o che ne hanno perduto — sugli errori commessi. «Beh, bisogna ammetterlo: abbiamo sbagliato». Hanno ancora sbagliato. Non fanno che sbagliare. E sbagliare — andrebbe aggiunto — sempre allo stesso modo. Non già, quindi, per avversione alla noiosa perfezione (Tò μὲν ἁμαρτάνειν πoλλαχῶς ἐστíν…, τò δὲ ϰατoρθoῦν μoναχῶς, ammoniva Aristotele) ma per assoluta mancanza di spirito critico su quanto accaduto in passato.
Si tratta il più delle volte di errori che – per dirla col Manzoni – potevano esser veduti (e quindi evitati) da quelli stessi che li commettevano. Per spiegarseli, allora, per provare a dare un senso all’illincrescioso agire, bisogna ricondurli o alla passione o all’imbecillità. La ragione sbaglia quando (per colpa) non vede. La passione e l’imbecillità, invece, fallano (a loro insaputa) sull’evidenza.

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[…]

Letto L’animale morente di Philip Roth, scrittore che amo — e specialmente per come è in grado di «portare» il racconto, cioè nel suo particolarissimo modo che ha di raccontare, intendo. Ma questo libro è di una straziante opacità, lo si attraversa, lento, come s’attraverserebbe una strada di campagna fitta di rovi in una cupa notte di nebbia. Non si può, ecco, andrebbe proibito, scrivere dei libri così grigi, così mortalmente soffocanti.

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(…)

sertorio
Sertorio è troppo intraprendente,
tutto comincia e non finisce niente.
Penso che quando lui una scopata fa
anch’essa la lasci interrotta a metà.

(Marziale, Epigrammi Lib. III, 79.)
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La letteratura come esperienza di vita…

Nell’insonnia di questa notte, con frammentaria e incandescente chiarezza, mi pareva di essere arrivato a una risposta sulla letteratura, su che cosa è la letteratura — “La letteratura come esperienza di vita”, a dirla con le parole del tema proposto quest’anno ai maturandi. Ma ora, qui, non so ripeterla. È come quando, a scuola, chiamati a ripetere il canto di Dante mandato a memoria il giorno avanti, inaspettato s’incagliava il filo della memoria su di uno scoglio pericolosamente affiorato dal nulla a trattenere le parole, nonché la memoria di quel canto, la memoria nella sua interezza e nella sua essenza. 
Di quella riflessione — se tale era, dico —, di quella risposta, non faccio che riportare, a mo’ di esempio, i versi 127-136 del V canto dell’Inferno di Dante, su cui mi pareva di aver verificato il concetto: e può darsi che, avulsi da quel contesto ormai come svanito, ancora e in qualche modo funzionino:

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per piú fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi baciò tutto tremante.

Ora, nel trascrivere i versi mi colpisce – a darmi non so che certezza o non so che smarrimento: come avessi di colpo bevuto un bicchiere di vino troppo forte – la bellezza del suono di quelle parole. Un evento infinitesimale, un adultero bacio “tutto tremante”, uno di quegli eventi che il nulla onnipresente e onnivorace continuamente ingoia: ma ecco che fermato su una pagina, spiaccicato in scrittura, diventato letteratura, poesia sublime, attraversa immortale i secoli pieni di rumori, colmi di morte, di inganni e furori e arriva, carico di rifrazioni, a me: a occupare la mia mente, a essere parte di un mio stato d’animo. E questo, si badi, al di là del significato ultimo dei versi, senza star lì a scomodare la logica o la parafrasi delle terzine, evitando — volutamente, confesso — che il lettore possa interferire “con la sua sensibilità e il suo gusto anche il proprio mondo pratico, diciamo pure il suo quotidiano, se l’etica, in ultima analisi, non è che la riflessione quotidiana sui costumi dell’uomo e sulle ragioni che li motivano e li ispirano”: è nell’essenza dell’intreccio di quei versi i sentimenti, i ricordi, le emozioni…
Non credo che la vita sia qualcosa da contrapporre alla letteratura. Credo che l’arte faccia parte della vita”, dice Borges in Conversazioni americane; ecco sì, la letteratura come un sistema di “oggetti eterni” (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che variamente, ciclicamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, per poi tornare a splendere e a eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un indispensabile sistema solare.

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ci vado io…

Si parla di politica, della crisi del sistema e della disaffezione alla vita pubblica di noi italiani. Il mio amico a un certo punto dice: «una volta c’era qui una famiglia di buoni mastri-carpentieri. Io avevo bisogno di un lavoretto fatto ad arte e sono andato da loro. Mi dissero: noi non possiamo, c’è molto daffare in questo periodo; ti mandiamo P. – un falegname che conoscevo. E io dissi: e c’è bisogno che me lo mandiate voi, P.? Ci vado io, a chiedergli di venire a lavorare da me». Fa una pausa, coglie il vago nel mio sguardo e così spiega la parabola: «Io ho sempre votato PD e prima ancora Partito Comunista; ma alle ultime elezioni mi sono detto: e che bisogno ho di farmi portare dal PD allo sfascio? Ci vado io. E mi sono astenuto.»

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