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piuttosto…

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Quella foto, il bimbo morto sulla battigia di una spiaggia turca, il volto adagiato sulla sabbia, la maglia rossa, il braccio lungo il corpo… beh, sì, quella foto lì, che tanto sta facendo discutere, è un fatto. Non un’immagine. Non descrive, come accade per le fotografie in genere, un ritaglio del mondo, lo sguardo del fotografo, il suo punto di vista; non c’è un resto che viene lasciato fuori, non ha da essere interpretata, calata nel contesto. No. Quella foto è la brutale descrizione della realtà. È un fatto, appunto: è la cosa in sé.
Piuttosto, lo scandalo – se scandalo si vuole vedere a forza – non è nella foto in quanto tale, ma nella storia che racconta nel suo tragico (e triste) epilogo. Quel piccolo profugo – Aylan, dicono le cronache si chiamasse – era un curdo, scappava da una città siriana di confine martoriata da fanatici tagliateste e difesa da pochi e coraggiosi combattenti. Lì, in quella zona, altri bambini (troppi, purtroppo) sono in attesa di scappare e alta è la probabilità per loro di finire tragicamente i loro giorni come Aylan. Domando: quanto deve durare ancora tutto questo? quanti bimbi ancora dovremo vedere in quelle condizioni? quanto occorre ancora aspettare per agire con la violenza – sì, con la violenza –, a spazzar via quei fottuti tagliateste?

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un tempo si diceva…

Renzi leopolda

Era il 30 ottobre del 2011 e dal parco della Leopolda di Firenze il nostro attuale Presidente del Consiglio proponeva una governance della TV pubblica riformata sul modello della BBC con l’obiettivo dichiarato di “tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica”. In meno di due anni stupisce non già la promessa non mantenuta (ché quelle – è uso dire – esistono solo per non essere mantenute) ma la rinuncia a ogni ambizione di cambiamento tanto strombazzato e auspicato. Le cronache di questi giorni hanno restituito, infatti, il solito triste quadretto: uno spezzatino di poltrone, la simulazione in scala ridotta di un sistema politico allo sbando in cui il solito pregiudicato (e spregiudicato) Berlusconi si ritrova a negoziare su questa o su quell’altra poltrona nel doppio ruolo di capo politico della destra nazionale e capo di Mediaset, diretta concorrente della Rai. Lo ripeto: non s’era qui così sprovveduti e incantati da credere davvero a che la rivoluzione culturale promessa venisse rispettata del tutto, ma – era questa la speranza – che almeno si facesse il tentativo di restituire alla più grande azienda culturale del paese una autonomia nel mercato e soprattutto un’indipendenza nelle scelte del prodotto televisivo da offrire. Evidentemente, alla politica interessa di più fare le nomine che offrire di sé una immagine diversa (nella sostanza, e sottolineo sostanza) dal passato. È una scelta, e probabilmente nella realtà delle cose – che è fatta di numeri, di idee, di capacità e di possibilità – non c’è contraddizione. Forse la vedo solo io, questa contraddizione. In tal caso fate finta che queste poche righe siano la confusione di uno che a fatica riesce a stare dietro alle cose che accadono nel mondo del reale; mondo dove, un tempo si diceva, i versi potevano anche cambiare.

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Segnalibro…

Pietro Tosca, 69 anni, sceneggiatore, comincia a fare i conti con la decadenza dei suoi anni e in filigrana con la morte.
Non si fida più del suo corpo, dei suoi riflessi, della sua vista, della sua guida: la moglie ha sognato (o, meglio, finge di aver sognato) che lui morirà presto e forse è una premonizione o un voler giocar sullo spavento per costringerlo a sottoporsi a delle banali analisi cliniche di controllo; spavento che nasce da un mix di superstizione e razionalismo che convivono in “un cretino intelligente” com’è appunto Pietro. E infatti, Pietro comincia a stare male sul serio e si avvia sulla strada della apprensione e della negazione, convinto oramai di essere troppo vicino alla fine dei suoi giorni.
Ma in realtà Tosca è solo il protagonista di un racconto in corso di scrittura dal suggestivo titolo La morte allegra. Il suo autore, co-protagonista del libro e altro io dell’opera, va però curiosamente incontro a un destino analogo a quello di Pietro in un riuscitissimo intreccio di piani tra il reale e il narrato che in più punti collidono fino a fondersi. Un improvviso malessere, infatti, porta lo scrittore in ospedale e lui che, un po’ per carattere e un po’ per scaramanzia, aveva sempre corteggiato la vecchiaia anticipandola e adattandosela addosso prima del tempo, si trova ora, malgre soi, a fronteggiare una possibile fine: messo di fronte alla realtà, si scopre così curiosamente inadatto alla nuova situazione e, cosa ancor peggiore, incapace di fronteggiarla al meglio con gli strumenti che via via, nel corso della sua esistenza, s’era attrezzato e ingegnato di possedere. Rivestito di vecchie corazze inefficaci e d’armi scariche per poterlo efficacemente proteggere dalle sue paure, per l’autore iniziano in un sol colpo a vacillare tutte le certezze ed è costretto a ridisegnare gli schemi narrativi e a valutare sotto angoli diversi, con filtri speculativi completamente nuovi e rinnovati, le vecchie relazioni e gli antichi sentimenti.
Le due storie vengono così a procedere parallelamente: da una parte lo scrittore, ricoverato in ospedale, che cerca la distrazione o, per meglio dire, il filo conduttore degli intricati accadimenti del vivere quotidiano nell’esercizio della sua scrittura e dall’altra il racconto stesso che si inceppa e si nutre via via della realtà provando a cambiarla o a farsi del tutto cambiare.
Vengono così ad alternarsi e ad intrecciarsi i diversi tempi e modi di vivere la paura della morte, della sua negazione, della via di uscita la più decorosa possibile e la fuga dagli accadimenti reali fino allo sprofondare nella sofferenza con un compiacimento lamentoso.
La narrazione è tenuta sul filo dell’autoironia di cui Starnone è sempre capace e descrive con acutezza quel miscuglio di lucidità e autoinganno, di misura e teatralità di cui, con diversi gradienti, più o meno marcati, tutti noi siamo capaci con uno sparpetuare fino quasi allo sfinimento: straziante agonia per cercare di trattenere il più possibile la vita o allontanare il più possibile la morte.
Ma esisterà poi un modo per addestrarsi alla fine? per meglio prepararsi alla morte? Forse che la saggezza può stare nell’esser capace di liberarsi dai propri desideri, dalle proprie contraddizioni, dagli affanni e dal logorio delle passioni e sottrarsi così gradualmente al mondo? «Devo finirla sia con la vita regolata dai dieci comandamenti, che con il tempo sregolato delle voglie e delle vanità. Devo addestrarmi a ridurre il mio ruolo nel mondo al solo controllo degli sfinteri. Quando anche quello mi sfuggirà, vedrò con chiarezza quante stupidaggini mi sono raccontato per tutta la vita e accetterò finalmente la morte.»
«Ma no. Meglio tenermi fino all’ultimo — conclude Tosca — tutto e il contrario di tutto, come avevo sempre fatto. Desiderare. Godere della folla di esperienze nominabili e innominabili.
Io è questo, un turbinio di incoerenze che elabora tecniche per fingere una coesione.
Mi inventerò qualcosa, via, quante storie: ce la fanno tutti, ce l’hanno sempre fatta tutti, ce la farò anche io a morire».

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…il Re è nudo?

Re nudo

Agosto, si sa, è il mese in cui anche l’informazione va in vacanza, fa vuoto (è questo che etimologicamente vuol dire vacanza) ed è questo il periodo appetibile assai per chi è affamato di visibilità. A settembre, sa bene, tutto ridiventerà più complicato, affollato, occorre approfittarne ché la concorrenza poi sarà spietata. Con l’afa che opprime e il caldo che ammorba, i riflessi dell’opinione pubblica già di per sé sfiancati e lenti, diventano ancora più meccanici di quanto non lo siano di solito e così le provocazioni, che meriterebbero solo una scrollata di spalla, un’alzata di palpebra, un gesto minimo di indifferenza, riescono – queste provocazioni, dico – a ottenere l’attenzione sistematicamente cercata. È tutto un disperato rincorrere il sensazionalismo, la provocazione fine a sé stessa, il cocciuto voler emergere da un piattume imperante e sonnacchioso. E poco importa se si tratti del balletto di Razzi con Luxuria, del taglio di capelli di Arisa o delle lettere indirizzate al Primo Ministro dalle pagine di carta dei giornali o da quelle elettroniche di Facebook: è la disperata voglia di accaparrarsi quel minimo di visibilità a che una mezza provocazione assurga a notizia nazionale che mostra la miseria di certe idee; è l’atteggiamento – soprattutto questo – con cui l’attenzione mobile del pubblico riesce a essere più ossequiosa dei sudditi davanti al Re nudo a mostrare l’inconsistenza di certe opinioni. Il punto, tuttavia, è un altro: il Re è scioccamente vanitoso, non si discute, ma i sudditi? Non sono loro, in fondo, a essere il vero problema? Voglio dire: passi per chi, pur di dare segno della sua esistenza, ha bisogno di andarsene nudo in piazza avvolto da un manto invisibile, ma una voce a gridare “il Re è nudo!”, e via, no?! Insomma, chi è più sciocco: chi si pavoneggia in piazza o chi d’attorno gli da il consenso?

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«Ma che razza di domande mi fa?»

Milella

Liana Milella intervista oggi, su la Repubblica, il capogruppo PD Luigi Zanda. Le interviste della Milella – interviste sempre assai spassose, invero – sono via via divenute un vero e proprio genere letterario. Il tipo di turno, l’intervistato (o, se vi pare, il malcapitato), viene sottoposto a un interrogatorio – è presumibile con la lampada puntata in volto – : una serie di domande costruite in modo da far apparire chi, per stile o per carattere, tenti di opporre anche solo un timido distinguo, non tanto come personaggio ambiguo e (quindi) colluso – ché per quello bastano un baffuto Ruotolo o uno spiritosissimo Travaglio – ma direttamente un furfante della peggiore specie.
I più tentano di sottrarsi con l’ironia; talvolta anche col dileggio. Non basta. La dottoressa trascrive col piglio dell’appuntato indefesso anche quel tipo di risposte, con aria tetragona di chi verbalizza le prove di nuovi capi di imputazione; il che – citando Sciascia – fa pensare che le scuole patrie “non lo danno al primo venuto, il diploma di ragioniere”….
Stamani, si parla del voto che ha negato l’autorizzazione richiesta della Procura di Trani di mandare Antonio Azzollini, Nuovo centrodestra, agli arresti domiciliari. «Serracchiani vuole chiedere scusa». Questa la domanda, nella quale la parola chiave è “scusa”, a giustificare l’errore commesso dall’Aula. Questa la risposta: «Invidio molto chi riesce a esprimersi sulla libertà o l’arresto di un parlamentare senza aver letto gli atti, senza aver partecipato a un lungo dibattito e aver ascoltato la sofferenza con cui molti senatori del Pd hanno raggiunto il proprio convincimento». E, subito dopo, a rincarar la dose: «Non è singolare che, quando D’Ascola ha finito di parlare, molti senatori Pd siano andati a stringergli la mano?». «Guardi – dice seccato Zanda –, adesso sto invidiando lei che ha visto e ha ascoltato dalla tribuna stampa quello che io non sono riuscito a sentire né a vedere dall’aula…». Ecco, lo diceva Italo Svevo: «non bastano le disgrazie a fare di un fesso una persona intelligente».

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L’innocenza dell’errore.

lento scorre il tempo del dolore
(non il dolore fisico, quello dell’anima)
troppi ricordi affollano i pensieri
pezzi di altri dentro noi stessi
posano lenti sul cuore;
tolgono a noi la leggerezza
e l’innocenza dell’errore.

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dai tempi di Anselmo d’Aosta

Dio

Ci sono quelli che ci credono a prescindere: fermi e inamovibili nella loro fede. A questi si contrappongono quelli che non ci credono affatto, e restano tetragoni nel loro rifiuto più assoluto. Ci son quelli poi che dubitano dell’esistenza ma che a scegliere conviene comunque crederci, ché tanto poi alla fine, mal che vada, hanno guadagnato l’illusione di vivere nella speranza dell’esistenza. Poi, ancora, ci son quelli che preferiscono non porsi affatto il problema, e per comodità dicono di sì, ci credono anche loro… Insomma, e qui chiudo, era dai tempi di Anselmo d’Aosta che non c’era un tal fervore tra le ragioni del credere e quelle del non credere nell’esistenza, come per l’intercettazione di Crocetta.

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senza oneri per lo Stato…

  
“Il governo è pronto a inserirla nella prossima legge di stabilità o a scrivere un decreto per sancire che le scuole paritarie non devono pagare l’Ici/Imu/Tasi.” Attacca così l’articolo a firma di Giovanna Casadio, su la Repubblica di oggi, in cui viene discussa la sentenza della Cassazione che ha dichiarato illegittima l’esenzione fiscale sugli immobili in cui si svolgono attività didattiche gestite da religiosi.
Dovrei, a questo punto, intrattenermi almeno un pochino sull’argomento, ché questo pare sia il temino sul quale la blogosfera è chiamata a fare il compito in classe, e a consegnare il foglio in bianco si fa una figuraccia, non sia mai detto. Ma — ma… — il rischio, visto il supporto dei filoclericali che siedono al Governo e in Parlamento e vista, soprattutto, l’offensiva clericale in atto, beh — visto tutto sto po’ po’ di roba, dicevo — pare impresa a dir poco assurda: provare a illustrare e a contestare punto per punto i motivi avanzati contro la sentenza è davvero tempo perso. Ché poi, a conti fatti, sono sempre i soliti motivi. Quali? Beh, quelli che da decenni hanno allegramente ignorato — neanche pisciato di striscio, ecco — l’articolo 33 della Costituzione: «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Perdere tempo a discutere sul resto, davvero, non mi sembra il caso e comunque, visto i presupposti, c’è davvero poco da discutere.

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