“Lo dicono i sondaggi” è diventato il nuovo “l’ha detto la televisione”. Scienza infusa, insomma. Noi – rimbambiti, oramai, da una miriade di percentuali che ci piovono addosso da ogni dove – non possiamo che prenderne atto. Però, permettettemi lo sfogo: non è giusto! Il sondaggio è una macchina infernale a senso unico. Riceve e basta. Non comunica, non è dialettico, non è pedagogico. Perché se un tizio – uno di Rimini, tanto per dire – vi viene a dire che sì, lui è d’accordo sull’affermazione “Per un mondo più pulito torna in vita zio Benito”, voi potete almeno replicargli (con tutta la gentilezza che il caso vi suggerisce) che quello che pensa è una cagata pazzesca di fantozziana memoria, potete suggerirgli di studiare, di informarsi, magari addirittura di provare a pensare. Invece il sondaggista, a uno gli afferma che “quando c’era Lui le cose funzionavano”, non può che prende atto della cosa, registrare la risposta, girare i tacchi e andare via. Questo è diseducativo (la neutralità della scienza il più delle volte è diseducativa). Bisogna inventare urgentemente sondaggi pedagogici che abbiano il compito di dire, di fronte a una risposta sbagliata (non un’opinione, attenzione: proprio una risposta sbagliata) che quella risposta è sbagliata. Punto. In rosso, fargli comparire la scritta: Prego correggere. Risposta non ammessa. Come nei giochi per i più piccini. Il massimo sarebbe che di fronte alla risposta palesemente da coglione partisse lo scappellotto. Allora sì che potrei incominciare a credere anch’io ai sondaggi.
Pare che Facebook si sia dotato di un nuovo algoritmo capace — almeno secondo le intenzioni dichiarate — di combattere le fake news attraverso una “alfabetizzazione” più o meno consapevole dell’utente. La parola “alfabetizzazione” fa venire in mente il dopoguerra, il maestro Manzi, la matita in mano a operai e massaie con la stessa potenza emancipatrice dello Sputnik e della lavatrice. Che sia il giovane Zuckerberg a lanciare ai giorni nostri una “campagna di alfabetizzazione” per gli utenti dei social è dunque una notizia bellissima. Emana il profumo buono da èra nascente. Credevamo di essere a Bisanzio e magari, invece, abbiamo appena mosso i primi passi per la Città del Sole. Ancora più sorprendente è che Facebook, per questa sua missione pedagogica (per la quale potrebbe investire addirittura uno zero virgola qualcosa dei suoi giganteschi introiti), dichiari di volersi servire della stessa community per valutare l’affidabilità delle fonti che pubblicano su Facebook: il destino di publisher, testate e broadcaster dipende quindi — udite, udite — da un paio di banalissime domande poste alle stesse persone che negli anni scorsi hanno creduto alle fake news, le hanno condivise con gli amici e che oggi, dall’alto della loro esperienza, si trasformano in giudici supremi della veridicità di una fonte giornalistica. Permetteteci di dubitare. Lalfabetizzazione dei social è unimpresa lodevole ma impervia, non sappiamo — ne dubitiamo fortemente, a dire il vero — se gli stessi utenti siano in grado di rendersi utili. Ci permettiamo di suggerire — ed è anche un contenimento dei costi — dei buoni correttori di bozze. Un bell’Ufficio Correttori planetario, che mettesse anche gli insulti e le cazzate condivise in buon inglese (francese, italiano, russo, mandarino, eccetera).
Sarebbe già un grande passo avanti.
Chissà come si svolge concretamente l’attività di un revisionista neofascista dei giorni nostri. Chissà dove si dà appuntamento coi colleghi di studio e con quali parole. E in quale locale mangia prima di dedicarsi al suo hobby di appassionato divulgatore. Chissà se esiste una qualche forma di destrezza o, come si dice oggi, di professionalità, se è considerata prioritaria la lettura dei documenti del tempo o, chessò, l’analisi attenta e ragionata del pensiero dei contemporanei. Se inizia lo studio “matto e disperatissimo” prima o dopo un qualche dibattito. Chissà…
Ultimo gradino nella pur lunga scala della vigliaccheria, il revisionista neofascista avrà pure una casa, una famiglia, un banco di scuola o un luogo di lavoro. Un suo habitat dove sentirsi serenamente sciacallo. Forse ne conosciamo uno, lo salutiamo mentre esce di casa la sera, prima della discoteca o la birreria, o durante le ore di lavoro.
Ogni volta che vedo uno di quei documentari sui campi di sterminio, la cosa che mi sembra più atroce non sono le immagini dei forni e delle cataste dei morti – chissà, forse perché col tempo certe immagini non hanno più il potere di incidere profondamente nella coscienza. Sono le casette dei vili villaggi intorno, fiorite, pulite, dove mamma pulisce l’insalata e babbo fuma beato la pipa.
È cronaca quotidiana, purtroppo: ragazzini giocano con la vita degli altri e con la propria. A Milano – leggo ora dal corriere.it – un 56enne, aggredito da adolescenti sul bus, reagisce e ferisce a coltellate un 17enne. A Verona, invece, dei ragazzi hanno bruciato un uomo per scherzo; a Napoli e a Torino, hanno massacrano altri ragazzi per togliergli il cellulare, la milza, o qualcosaltro. Anche se i numeri sono modesti – restano comunque atti gravi da denunciare, fossero anche un paio soltanto – di fatto cè da dire che cose del genere avvengono laddove della vittima cancelli qualsiasi elemento che possa fartelo sentire a te simile. L’altro, quello che hai difronte, deve, ai tuoi occhi, apparire come un pupazzo che, goffamente, cerca di imitare una vita vera, e come tale non è degno quindi di stazionare nel tuo stesso territorio, non merita di usare il cellulare, va punito il più selvaggiamente possibile per il solo fatto di aver cercato di assumere connotati umani. Insomma, a volerla far breve, la violenza che esprimono questi ragazzi è indice di quanto hanno ben appreso la più terribile delle lezioni degli adulti, della malata società degli adulti: svuotare gli altri di umanità e svuotarci – per una complicatissima legge di vasi comunicanti – a nostra volta di sensibilità. Ciò che questi casi di atrocità e cieca ferocia stanno cercando di dirci è che dobbiamo fermarci e smettere di lasciar correre. Questi ragazzini, malgrado la loro giovane età, non sono affatto un punto di partenza, ma di arrivo, il nostro – appunto. Essi sono noi, il nostro riflesso su uno specchio deformante di adulti peggiori e senza scrupoli; uomini e donne addestrati a muoverci in branco per sentirci i più furbi, i più spietatamente insensibili, i migliori.
Prima la rassegna stampa e le news, poi i talk fino ai social e le telefonate (ufficiali e non). Il New York Times ha intervistato sessanta tra deputati, collaboratori e amici di Donald Trump e ha provato a tracciare un profilo delle abitudini quotidiane e dello stile di vita della persona che sta ridefinendo — o, se preferite, sconvolgendo — il ruolo di presidente degli Stati Uniti. Il ritratto che ne viene fuori è di un uomo assai insicuro, incapace o inconsapevole del ruolo che investe, ossessionato dallimmagine che i mezzi d’informazione forniscono di lui, con continui sbalzi d’umore, che s’incupisce quando in tv non parlano di lui e convinto che liberal e giornalisti vogliano fargli il culo o comunque provano a farlo apparire al grande pubblico come un uomo che “lotta per farsi prendere sul serio”.
Prima ancora che nei sondaggi o negli ambienti politici, Trump — scrivono quelli del New York Times — cerca l’approvazione nei titoli delle emittenti ‘all news’. Se le sue aspettative vengono poi deluse si rivolge a chiunque. Può capitare – tanto per dire – che il presidente chieda un consiglio o un’opinione al volo anche ai camerieri che gli servono il pranzo o gli allungano la Diet Coke (che consuma abitualmente e in quantità rilevanti).
Ancora: molte delle persone intervistate hanno messo in dubbio la capacità e la volontà del presidente di distinguere tra bufale e notizie verificate e cosi il capo dello staf, il generale in pensione John Kelly, cerca di filtrare le informazioni che arrivano a Trump, che ogni giorno passa almeno quattro ore davanti alla televisione.
Secondo il quotidiano spagnolo El Pais, che ha analizzato la giornata degli ultimi presidenti Usa, “Barack Obama era solito concludere la sua giornata lavorativa alla Casa Bianca leggendo nello Studio Ovale, poiché i libri lo aiutavano ad avere un’altra prospettiva su ciò che stava accadendo nel mondo, a riflettere e fare autocritica. Prima di lui George W. Bush entrava nello Studio Ovale alle 7 e mezza del mattino per iniziare la giornata, che interrompeva con una sessione di allenamento sportivo, che spesso consisteva nel fare jogging o giocare con i cani. Poi mangiava con la famiglia e dormiva per otto ore, perché raccomandato, per rimanere reattivo”. Il tycoon invece non legge libri, non pratica sport ed è noto per le sue abitudini alimentari disordinate, come faceva quando abitava nella Trump Tower.
Oltre a stilargli il mattinale, all’ex generale Kelly è toccato anche il compito di ascoltare le telefonate del presidente attraverso il centralino della Casa Bianca. E quando qualche chiamata sfugge al suo controllo, si premura di richiamare l’interlocutore per assicurarsi che Trump non abbia fatto promesse assurde, impossibili da mantenere.
All’inizio molti pensavano che dietro le scelte e i comportamenti del presidente ci fosse una strategia, ormai i più sono convinti che non è affatto così: è la strenua battaglia di un uomo fortemente convinto che, se i suoi toni hanno funzionato in campagna elettorale, possono funzionare anche alla Casa Bianca.
A poco più di un anno dall’inizio del mandato, Trump è il più impopolare dei presidenti degli Stati Uniti: solo il 32 per cento degli americani è d’accordo con lui. Dalla sua ha oramai solo l’approvazione autorevole della borsa di Wall street, che, non a caso, la settimana scorsa ha toccato un nuovo record.
«Ci mancavano anche i bambini che vanno all’ospedale, che muoiano». E ancora: «M’importa ‘na sega dei bambini che si sentono male, io li scaricherei in mezzo alla strada i rifiuti» [*]. Insomma, e qui la faccio breve, dalle intercettazioni pare che Erode oggigiorno gestisca una discarica in quel di Livorno.
Leggo dai giornali il resoconto del processo che vede imputato Marco Cappato, il leader radicale che condusse Dj Fabo nell’ultimo suo viaggio in Svizzera. Stando a quel che riferiscono le cronache, la pm aveva chiesto larchiviazione ma il gup ne ha disposto l’imputazione coatta nel sospetto che Cappato abbia agevolato la morte di Dj Fabo, appunto.
«Mi ha chiesto più volte di aiutarlo a farla finita. Piangeva e diceva: non ce la faccio più dal dolore», ha dichiarato l’infermiera. La fidanzata di Dj Fabo: «Era tetraplegico, era cieco. Voleva morire e io temporeggiavo, ma se gli avessi detto non ti aiuto avrebbe significato che non l’amavo». A seguire, la mamma: «Mi diceva voglio morire, mamma, devi accettarlo. A volte gridava dal dolore, gli sembrava di avere il diavolo in corpo. Ho barato tante volte, poi ho ceduto. Sono andata in Svizzera con lui e Cappato. Due minuti prima che premesse il pulsante con la bocca, gli ho detto vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada». Poi – leggo in un articolo – la signora è scoppiata a piangere. La pm le ha porto dei fazzoletti di carta. La signora ha detto: «Lo sapevo che avrei pianto, fin qui ero stata forte». La pm ha detto: «Mi dispiace. Lo è stata fin troppo».
Ecco, Dj Fabo è riuscito a sottrarsi anche a tutto questo.
La paura bisogna prenderla di petto, calpestarla, deriderla, saltarle sopra fino allo sfinimento, fino a che il sudore grondi copioso dalla fronte per lo sforzo, ignorarla, sfregiarla, deriderla, prenderla a pugni, a calci in faccia per sentire il rumore sordo delle ossa che cedono sotto la pressione incessante delle nocche. La pura bisogna evitarla, rispettarla, assecondarla per darle la possibilità di palesarsi, di fidarsi e allora, solo allora, avere la forza, il coraggio, di guadarla negli occhi e accopagnarla alla porta della propria vita, sbattergliela in faccia e gridarle forte di andarsene a farsi fottere. La paura bisogna abbracciarla e, tenendola stretta, stamparle il proprio sorriso sulle labbra, baciarla, stupirla col coraggio – il coraggio, quello vero, fatto di gesti e non di vuote parole. La paura bisogna spedirla al mittente, subito, con la femezza di un chirurgo, senza darle il tempo di attecchire subdola nel cuore. Umiliarla, scioccarla, scacciarla, baciarla, rispettarla… se ci si vuol salvare, alla paura bisogna farle qualsiasi cosa, adottare qualunque strategia, tutto, tranne perder tempo a scriverle come se davvero esistesse.
Come lama di un lampo ha guizzato cupamente nella mia testa, il suo nome. E il suono imminente, sospeso in un’ampia sorsata, ha rimbombato profondo, sfuggendo. La pioggia, che lava via i pensieri, ha pianto in modo acuto come le prefiche nell’intervallo delle orazioni. I piccoli suoni si sono disgregati dentro di me, inquieti. Rumore di vetri in frantumi. Frastuono di note impazzite. E sordo è piombato il dolore.
“Il vino dispone l’animo all’amore e lo rende pronto alla passione: l’inquietudine fugge e si dissolve con il vino abbondante.
Allora nasce il riso, e anche un poveruomo si fa audace; allora se ne vanno dolori, affanni e rughe sulla fronte, e la sincerità, nel nostro tempo cosi rara, rende aperti i cuori, giacché il divino Bacco bandisce ogni artificio.
Là spesso le ragazze rubano il cuore ai giovani, e Venere, col vino, è fuoco aggiunto al fuoco.”