Pare che un attento e puntigliosissimo partigiano di Lombardia progressista, lista a sostegno della candidatura di Giorgio Gori (Pd) alla presidenza della Regione, abbia offerto su Facebook un minuziosissimo elenco di quanti milanesi di nome Benito andranno a votare. Si scopre così che il prossimo 4 marzo saranno chiamati alle urne ben 276 milanesi che al momento della nascita sono stati battezzati col nome del famoso maestro di Predappio. Non solo: c’è anche la sfilza dettagliata di quelli che portano Benito insieme ad altri nomi. In alcuni, la scelta ideologica appare difficilmente contestabile: cinque elettori, infatti, sono stati battezzati Benito Adolfo, e a uno – perché non ci fossero dubbi – il babbo ha dato come secondo nome Mussolini. Riconducibili alla figura del Duce sono forse anche i due Benito Arnaldo e magari anche i tre Benito Romano. Ma ad affollare la classifica sono una quantità di cittadini, che portano l’odioso marchio solo come secondo, terzo o addirittura quarto nome. Tanto per dire, esiste un Francesco Gabriele Ferdinando Benito Romano, che potrà, qualora fosse chiamato a dar conto di questo crimine, invocare le attenuanti generiche per avere ben tre nomi sinceramente democratici — un paio poi di tendenza marcatamente mistica — prima di quello dispotico, appunto.
La notizia, a ogni modo, comprende il commento del simpatico contabile: «Un inquietante risultato». Beh — non me ne voglia il contabile — ma direi solo “un po’ inquietante” se si pensa che siamo responsabili di tutto, anche della nostra faccia, quantomeno a partire da una certa età, ma non certo del nome che ci viene affibbiato all’anagrafe. Certo, dato il contesto, un rilievo un po’ ambizioso. Venisse poi confermato in qualche modo, aprirebbe scenari interessanti. Tipo, si potrebbe tentare di scovare a uno a uno i Leoluca, come Bagarella, per acciuffare i mafiosi a Palermo, e se pare troppo almeno le Beatrici in Italia per acchiappare le civici popolari (esistono!). Ad ogni buon conto: Milano avrà pure ‘sti 276 Benito, ma volete mettere con noi a Napoli? Un cuofono di Giggino. Inquietante!
“La famiglia è una camera a gas” era il motto stampato su un poster anarchico degli anni sessanta. Era in auge, a quei tempi, l’antipsichiatria e Gaber, con “C’è solo la strada”, invitava a buttare le chiavi di casa perché “la strada è l’unica salvezza”.
Poi si cresce, tra i tanti bisogni che ci spingono a cambiare si constata, con un po’ di imbarazzo, che c’è anche il bisogno d’ordine, e dunque ci si acconcia a formare, a volte addirittura con esiti più che positivi, la nostra brava famiglia.
«No, non lo condanno perché quelli sono soldi suoi e non ha commesso nessun reato», ha dichiarato ieri il papà dell’ormai ex grillino Ivan Della Valle, fuggito (ma lui nega) a Casablanca per sottrarsi almeno al confronto diretto coi vertici del Movimento per l’imbarazzante questione dei bonifici prima sbandierati e poi revocati [*]. «Dico però – ha continuato Della Vale senior – che è stato un imbecille, perché avrebbe potuto lasciare il Movimento e tenersi tutti i suoi soldi». Insomma, come la più classica delle tradizioni cerchiobbottiste impone, anche papà Della Valle giustifica e poi accusa il figliolo di incoerenza. Ma — e qui il punto — non perché avrebbe fatto meglio a rinunciare ai soldi per rimanere nel Movimento. Al contrario, perché avrebbe fatto meglio a uscire dai Cinque Stelle pur di tenerseli. E fanculo agli impegni presi con gli elettori, l’etica d’apparteneza, gli ideali, le regole: lo stipendio, par chiaro, viene ben prima dell’onore! Onestà, probità, serietà, severità… ma-va’-là!
Ecco, quando ci verranno a raccontare che “la famiglia” è cosa buona e giusta, varrà la pena obiettare sul principio generale. Non sono le istituzioni a contare, ma le persone. Brave persone fanno buone famiglie, brutte persone fanno orrende famiglie. O Movimenti, come in questo caso. “Nelle case / non c’è niente di buono / c’è tutto che puzza di chiuso e di cesso / si fa il bagno ci si lava i denti / ma puzziamo lo stesso.”
Sostiene Di Maio (che non è affatto Pereira): “La notizia in un paese normale è che M5S ha restituito 23 milioni e 100mila euro di stipendi e questo è certificato da tutti quanti e ci sono 7mila imprese in Italia che lo testimoniano perché quei soldi hanno fatto partire 7mila imprese e 14mila posti di lavoro. Se ci saranno controlli da fare li stiamo facendo, ringrazio chi ha fatto queste inchieste ma questo è un paese strano in cui restituisci 23,1 milioni e la notizia è che manca lo 0.1”.
Ora, vi sembrerà strano, ma la dichiarazione è figlia di una lunghissima tradizione costruita e usata più e più volte dalla viscida kasta® sui piccoli e grandi fallimenti del potere. Tecnicamente è detta “doppio standard” (wikipedia o la cara enciclopedia impolverata può essere utile per i dettagli) ed è una delle categorie etiche più studiate in politica: “consiste nell’applicazione – copio/incollo da Wikipedia – di principi di giudizio diversi per situazioni simili, o nei confronti di persone diverse che si trovino nella stessa situazione”. Il doppio standard è solitamente riconducibile al potere regnante, lo stato, le classi abbienti, le gerarchie ecclesiastiche (nello specifico, poi, diviene “doppia morale”): è il potere che – pago del suo cinismo – perdona a se stesso quello che non perdona ad altri.
Purtroppo, tutte le rivoluzioni di epoca moderna – dalla Rivoluzione Francese in poi, diciamo – hanno fatto gran (ab)uso di questo strumento, perdonando a se stesse i peccati che non riuscivano a perdonare al potere che volevano rovesciare, facendo leva sul fatto che essendo ora loro al potere avrebbero, sicuramente, portato giustizia nel mondo.
E – tanto per spararsi la posa con le dotte citazioni storiche – Maximilien de Robespierre (quello di «La libertà consiste nell’obbedire alle leggi che ci si è date e la servitù nell’essere costretti a sottomettersi ad una volontà estranea»), all’inizio della sua opera rivoluzionaria chiese, tra le altre cose, l’abolizione della pena di morte: «La pena di morte è necessaria, dicono i partigiani degli antichi barbari usi; senza di essa non ci sono freni abbastanza potenti contro i delitti. Chi ve lo ha detto? Avete calcolato tutte le specie di mezzi con i quali le leggi penali possono agire sulla sensibilità umana? (…) Le pene non sono fatte per tormentare i colpevoli; ma per impedire il delitto, il quale teme appunto di incorrere nelle pene. (…) Si è osservato che nei paesi liberi i delitti erano più rari, perché le leggi penali eran più dolci. I paesi liberi sono quelli nei quali i diritti dell’uomo sono rispettati, e dove di conseguenza le leggi sono giuste. Dappertutto dove esse offendono l’umanità con un eccesso di rigore, si ha la prova che la dignità dell’uomo non è conosciuta, che quella del cittadino non esiste; si ha la prova che il legislatore non è che un padrone che comanda a degli schiavi, e che li colpisce spietatamente seguendo la sua fantasia. Io concludo perché la pena di morte sia abrogata.» (Discorso all’Assemblea Costituente del 30 maggio 1791)
Poco dopo diede il via al Terrore in nome della difesa della rivoluzione da chi voleva sabotarla: «Sì, la pena di morte in generale è un delitto e ciò per l’unica ragione che essa non può essere giustificata in base ai princìpi indistruttibili della natura, salvo il caso in cui sia necessaria alla sicurezza degli individui o del corpo sociale. […] Ma quando si tratta di un re detronizzato nel cuore di una rivoluzione tutt’altro che consolidata dalle leggi, di un re il cui solo nome attira la piaga della guerra sulla nazione agitata, né la prigione, né l’esilio, possono rendere la sua esistenza indifferente alla felicità pubblica, e questa crudele eccezione alle leggi ordinarie che la giustizia ammette può essere imputata soltanto alla natura dei suoi delitti. Io pronuncio con rincrescimento questa fatale verità. Io vi propongo di decidere seduta stante la sorte di Luigi. Per lui, io chiedo che la Convenzione lo dichiari da questo momento traditore della nazione francese e criminale verso l’umanità. » (Discorso del 3 dicembre 1792.)
Il numero delle vittime causate dal periodo del Terrore è, dicono gli storici, quantificabile con difficoltà. C’è chi ne conta 16.594 e chi 70.000, prevalentemente appartenenti alla media borghesia. Altri ancora parlano, con le approssimazioni del caso, di circa 35.000 esecuzioni, delle quali ben 12.000 senza processo. La metodica cancellazione di ogni forma di dissenso fu eseguita anche mediante l’incarcerazione di circa 100.000 persone, alcuni studiosi arrivano addirittura a stimarne 300.000, soltanto perché sospettate di attività controrivoluzionaria.
Il doppio standard rivoluzionario lo abbiamo visto al lavoro da allora, in modo più o meno subdolo, in maniera più o meno cruenta, in tanti accidenti e fallimenti della nostra storia. Sui diritti civili e umani, sulla equità sociale, sulla giustizia delle classi sociale, dalle grandi rivoluzioni, la Russa, quella Cinese, a quelle piccole ma non meno rilevanti per la formazione della nostra coscienza pubblica, quelle di Cuba, il Vietnam, Iran, i vari governi africani della decolonizzazione etc. etc. etc.
Curiosamente, la difesa di questi fallimenti ha sempre preteso la doppia stampella argomentativa: a fronte delle grandi cose fatte, i nemici guardano solo ai piccoli errori; e, a mo’ di corollario alla prima argomentazione, gli sbagli sono stati sempre fatti dalle famigerate “mele marce”, casi isolati e facilmente identificabili in un cesto pieno di mele sane. Il sistema è dunque sempre sano, e la colpa è sempre di un doppio standard del potere, usato in maniera aggressiva contro la rivoluzione. Operazione, ça va sans dire, quasi sempre portata avanti dalla stampa, accusata di essere “serva del potere” di qualunque colore sia il potere regnante in quel momento.
Ora, per tornare dalle grandi storie alle misere piccolezze dei giorni nostri, ci sono pochi dubbi che l’eco di questo storico dibattito permea (a sua insaputa) le affermazioni del Giggino pentastellato e di tutti i suoi compagni di partito (e di camper) che da anni denunciano di essere vittime di un complotto di potere strabico, che finge di non vedere i grandi errori del sistema, mentre colpevolizza e gonfia a dismisura ogni piccolo errore del M5S. Eppure, dovrebbe essere chiaro che, per chi ha fatto della bandiera dell’etica in politica il suo fiero vessillo di diversità rispetto agli altri partiti, anche un solo errore – uno solo, dico – su questo scivoloso campo di battaglia non può essere tollerato. Le piccole furbate indignano e danno una misura degli uomini, ma se non si è capaci di uscire dagli stereotipi dell’indignazione e del discredito (ché a far a gara con i puri — lo diceva Nenni — uno più puro lo si trova sempre), se non si è capaci di mostrare altro che una presunta diversità fondata sul pilastro dell’onestà (inteso come unico valore: condizione necessaria e sufficiente per poter esser degni di governare il paese) una classe politica seria e all’altezza dei compiti non la si riuscirà mai a formare.
Per finire, è inutile che ricordi – l’attento lettore che ha avuto la pazienza di seguire il mio ragionamento fin qui ben lo saprà – che Robespierre finì ucciso dallo stesso meccanismo del Terrore che gli si ribaltò contro. La stessa sorte toccò anche ai suoi seguaci. Ma questa chiosa, mi par chiaro, è solo una metafora.
Mettere in scena la vita di un poeta della musica, renderla fiction, raccontarla. Dev’essere stato sicuramente il rigore filologico a ispirarne l’idea. Forse ché la poesia ha un quid di arcigno e di respingente, e che il pubblico di massa ha necessità di conoscere anche il famoso “lato umano” dei poeti per sentirsi più in confidenza con loro? Sarà. Ma a me continua sfuggire perché si debba essere così in confidenza coi cantautori (ma il discorso vale paro paro anche con gli scrittori). Non mi sembra neanche una facilitazione, semmai un impiccio alla fruizione delle loro opere: come se un attore, nel bel mezzo dell’Otello, ti dicesse che cosa ne pensa lui dell’amore e della gelosia. Un poeta, un cantautore (ma anche uno scrittore, appunto) per uno che ne apprezza la produzione artistica, per uno che ne riconosce il valore letterario, dovrebbe essere quasi una non persona, puro testo, eterèo come la musica. Poi filologia e critica si occuperanno, giustamente, di capire meglio il contesto, anche privato, nel quale i poeti scrivono. Su apposite riviste, però, noiose e appartate. E per fortuna, aggiungo.
Che c’è di male a intascare lo stipendio da deputati? Che c’è di male a non darlo in beneficenza agli imprenditori? Niente, assolutamente niente. Il problema di fondo è voler far credere che esista un abisso morale tra quelli che ne versano una parte e gli altri che (con o senza scontrini) lo intascano interamente. Non esiste questo abisso. E il “feticismo dell’onestà” non aiuta la politica. Si badi: non sto teorizzando che l’onestà non sia una virtù. Dico semplicemente che l’onestà non basta. Nella vita di tutti i giorni e nella politica. Insomma: non si dovrebbe costruire una classe dirigente nuova e capace dietro presentazione di scontrini e ricevute di bonifici. Servono idee politiche, programmi, scelte. Sono doti anche quelle, e i 5 Stelle le hanno sempre sottovalutate. E soprattutto non serve a niente gridare dalla mattina alla sera contro la presunta, e spesso inesistente, disonestà degli altri (…onestà, onestà, onestà!1!!1). Le piccole furbate indignano e danno una misura degli uomini, ma se non si è capaci di uscire dagli stereotipi dell’indignazione e del discredito (ché a far a gara con i puri — lo diceva Nenni — uno più puro lo si trova sempre) , una classe politica all’altezza dei compiti non si formerà mai.
Con calma, provate anche voi: 23’100’000÷7’000=3’300. Bene, ora mettete da parte la calcolatrice e iniziate pure a ridere…
A cadavere caldo, anche se il cadavere è quello di un balordo [*], bisognerebbe portare rispetto, parlare a bassa voce e non lasciarsi andare in frasi di giubilo o, peggio ancora, cavalcare lo sdegno per squallidi fini elettorali, come invece capita a qualche politico (sì, il solito, sempre lui) da saloon. Ammazzare un ladro per eccesso di legittima difesa non è un atto di giustizia, è un’atroce disgrazia. Su questo punto si dovrebbe essere tutti d’accordo, a meno che non si voglia privatizzare la pena di morte. Gli ammazzaladri, insomma, non si ergano a giustizieri, abbassino lo sguardo e stiano per una volta in silenzio. Quanto alla tifoseria opposta, meno rumorosa ma altrettanto tenace nei suoi pregiudizi, urge una seria riflessione. Un rapinatore in casa propria (sia essa l’attività commerciale o la dimora privata, poco importa) non attenta solo alla roba. Attenta alla persona, alla sua sicurezza, alla sua integrità fisica e psicologica. Chi reagisce fuori misura non può essere trattato come un assassino o come un esaltato. Deve essere trattato come una persona che per rimediare a un reato ne ha commesso un altro. Punto. Possibile che non si riesca a trattare questi casi con pietà e misura? Possibile che ci si debba dividere, con ridicola foga, in “amici del ladro” e “amici del giustiziere? Ci sono storie, ci sono spaventi, ci sono dolori che non sono riassumibili in un’alzata di spalle o in uno sciocco anatema. Un morto non lo si sventola come una bandiera, né per farne una vittima innocente né per farne un lurido parassita da eliminare. Tra il bianco e il nero esiste una infinita scala di grigi. Abbiamo il dovere di testimoniare anche il grigio.
La ridicola vicenda capitata al sindaco di Modena, raccontata da Mattia Feltri su la Stampa di oggi (*), mostra, se ve ne fosse ancora bisogno, quanto ridicola sia l’applicazione del decreto sulla par condicio. Viene da ridere a pensare allo spreco di energia dei solerti funzionari pronti a misurare e a sanzionare ogni abuso, ogni possibile squilibrio di poveri giornalisti trasformati in clessidre a disposizione dei politici. Ma, come tutte le foglie di fico, il decreto sulla par condicio almeno un pregio lo possiede: evidenzia, come una toppa bianca su un cappotto nero, la vergogna sulla quale è apposta, e cioè la scandalosa mancanza di una legge antitrust sulla proprietà delle televisioni e dei giornali. Nessuno, neanche il più fiscale degli svizzeri, si sarebbe mai sognato di invocare una legge a tutela dei diritti politici (perché, in soldoni, di questo si tratta) se i politici stessi non fossero strutturalmente minacciati dal grottesco strapotere di un politico-imprenditore che ha contrapposto alla televisione pubblica, lottizzata da tutti, un equivalente monopolio personale, lottizzato da lui solo e infarcito di suoi suffragetti travestiti da giornalisti, suoi spot di partito camuffati da telegiornale, suoi guitti, vallette, conduttrici, prestigiatori, animatori, cortigiani e ballerine scosciate comprati all’ingrosso un tanto al kilo che per fame o per potere sventolano la bandierina di Forza Italia. Questo schifo andrebbe ricordato ogni mattina da ogni italiano (di qualunque schieramento esso sia). Se – e sottolineo se – fossimo un Paese civile.
Un veloce giro tra le bacheche ed è inevitabile sorridere dei selfie-reportage dei nostri impegnatissimi social-politici. Non tanto per la mediocrità dei contenuti, quanto per il surreale accumulo di apparizioni multiformi a qualunque ora del giorno, seduti in televisione e in piedi a stringere le mani, in primo piano, a figura intera, di profilo, in macchina, a piedi, in giro per l’Italia per le elezioni, tra gli studi televisivi per le interviste e nella nowhere land dei social. Ovunque. Sempre. E costantemente. Oggi come ieri. Solo che oggi l’impietosa ribalta dei social, per giunta auto-prodotta, avvicina subdolamente a noi quelle persone che un tempo ci faceva comodo considerare altri, quasi una specie separata, coabitanti alieni. Facce sui manifesti, appunto. Provvisori imbrattamuri che poi vedevamo sbiadire, screpolare, strappare e infine sparire il giorno dopo il verdetto delle urne. Subitissimamente.
Mi chiedo, sinceramente, come facciano oggi i politici, nell’attimo della loro massima riproducibilità tecnica, a non sentirsi fagocitati, dati in pasto, divorati dal pubblico sguardo. Perché le modelle e gli attori – icone pubbliche per antonomasia – sono solo interpreti di un ruolo, truccatissimi, travestitissimi. Ma un politico è sempre e solo lui, non ha vie di fuga, la sua faccia è la stessa del suo personaggio, le sue parole le stesse della sua eterna esibizione. Silvio Berlusconi, per dire, interpreta Silvio Berlusconi. Non ci sono alternative. Anche nelle sue più fantasiose smentite, Silvio Berlusconi interpreta Silvio Berlusconi.
Poi ci vengono a dire che la politica non è un mestiere! Lo è a tale punto che non conosce tregua, neanche di notte, quando il politico dorme (o è in convalescenza forzata) ma la sua immagine circola, inesausta, parlando, parlando, parlando…