Le chiacchiere di questi giorni a proposito del governo che verrà, mi ricordano uno dei tipici giochetti dell’infanzia: «Preferiresti morire bruciato, impiccato, squartato, annegato o decapitato?». Si rabbrividiva, si rideva e poi si sceglieva a turno, tra i possibili supplizi, quello che almeno allora pareva il meno atroce.
Ecco, il chiacchiericcio sulle possibili opzioni di governo bene esprime questo auspicio da morituri: tra le agonie a disposizione, preferiamo l’una piuttosto che l’altra, sperando in quella meno truculente. «Pensa che bello», dicono con un ghigno emozionato, «non c’è più “er moviola” a Palazzo Chigi, né l’appoggio responsabile al governo del pluri-indagato Berlusconi… Tutti a casa. Bene». Bene. E ci si offre, sollevati e quasi contenti, al carrozzone degli onesti pentastellati magari in accordo col carroccio nazional-padano di Salvini o con altre alchimie numeriche più o meno verosimili, più o meno risibili. Del resto, chi si accontenta gode. E guai a sprecare, di questi tempi, anche la minima occasione di godimento.
A buttar un occhio ai dati definitivi sui voti in Campania rastrellati dalla Lega (più di duecentocinquantamila voti nei tre collegi), non si può non pensare quanto sia corta la memoria degli italiani.
Il fatto che da quella compagine, per più di vent’anni, siano stati lanciati insulti e maledizioni contro quei “terroni” parassiti che vivono succhiando il sangue agli operosi padani è stato già dimenticato.
È bastato che indicasse un nuovo “nemico” su cui scaricare odio e frustrazioni e giù tutti a spellarsi le mani per applaudire le farneticazioni di Salvini.
Qualcuno, un po’ di tempo fa, ha detto che chi non ricorda il passato non avrà futuro. Qui siamo al non ricordare neanche quello che è successo ieri, del futuro meglio non parlarne.
Il grafico è lì, semplice da decifrare: indica l’andamento della voce reddito di cittadinanza dal 26 febbraio fino a ieri in Google Trends. Per farla semplice, nella notte fra domenica e ieri una turba inferocita di italiani s’è riversata sul famoso motore di ricerca a cercare «reddito di cittadinanza».
I più maliziosi diranno che non siamo un popolo né di santi né di poeti né di artisti né di navigatori: siamo un popolo di pesci in barile. Il nostro modello non è il Machiavelli del “fine che giustifica i mezzi” ma il Guicciardini del “proprio particulare”. Oppure, malizia a parte, si può concedere che è perfettamente legittimo, anzi sacrosanto, andarsi a informare su una promessa dei cinquestelle, primo partito alle elezioni.
A far la ricerca, però, viene fuori anche che il “reddito di cittadinanza” è una erogazione monetaria “distribuita — cito da Wikipedia — a tutte le persone dotate di cittadinanza e di residenza, cumulabile con altri redditi (da lavoro, da impresa, da rendita), indipendentemente dall’attività lavorativa effettuata o non effettuata (dunque viene erogata sia ai lavoratori sia ai disoccupati), dal sesso, dal credo religioso e dalla posizione sociale, ed erogato durante tutta la vita del soggetto”. Quello dei cinquestelle, invece, è un reddito di inclusione: “la misura – si legge sul blog delle Stelle – usa l’indice di povertà monetaria individuato dall’Unione Europea nel 2014, corrispondente al 60 per cento del reddito mediano netto (in Italia 780 euro mensili, 9.360 all’anno, per un adulto single), ponderato per la composizione del nucleo familiare. In sostanza, si individuano redditi minimi per tutte le diverse composizioni familiari. Se un particolare nucleo familiare non arrivasse a quella soglia, lo stato verserebbe un contributo pari alla differenza tra i due valori (il cosiddetto poverty gap)“.
Definizioni a parte, qui si voleva solo appuntare che il grafico mostra le aspettative. Il rancore sociale e la paura del futuro hanno trovato un efficace anestetico nel reddito di cittadinanza, una proposta che ha avuto effetti deflagranti sugli equilibri elettorali proprio perché incrocia quell’ansia di presente, che affanna il respiro (soprattutto) del Mezzogiorno. Aspettative, appunto. E le aspettative deluse, specie se abbaglianti, creano frustrazione e rabbia: le stesse che hanno consentito a Di Maio di fare il botto a questo giro elettorale.
Dopo le elezioni, nei partiti che non hanno guadagnato i voti sperati, sarà — come sempre accade, del resto — la solita corsa a confessar gli errori collettivi. “Abbiamo sbagliato”, diranno impudichi. Hanno ancora sbagliato. Continuano ancora a sbagliare. E poiché si tratta poi di sbagli che — per dirla alla Manzoni — potevan esser veduti da quelli stessi che li commettevano, giocoforza vanno ricondotti — almeno per darsi una spiegazione di quanto è accaduto — o alla passione o all’imbecillità. La ragione sbaglia quando non è capace di valutare correttamente le ricadute di certe azioni. La passione o l’imbecillità, invece, sbagliano sull’evidenza o quando covano rancori.
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Visti i precedenti, il ministro dell’istruzione in pectore per il M5S, Salvatore Giuliano, sarà presto bandito.
Mettiamola così. Sono stato messo con le spalle al muro dalla mia smisurata onestà intellettuale (che è inferiore solo alla mia modestia). La parte in me integerrima ha puntato l’indice sotto il naso a quella faziosa, e le ha intimato: “Ammetti subito il tuo errore di valutazione, riconoscilo. Intanto che t’affannavi a guardare il dito, quelli ti fottevano la luna sotto al naso e tu, fesso, non te ne accorgevi. Ammettilo!”. La parte faziosa ha fatto per ribattere: “Ma il protocollo, le gaffe, la costituzione… tutto faceva pensar…”. Stigmatizzata – ohi, ohi! – stigmatizzata a sangue.
“È ché – continua la parte integerrima – non hai guardato il fenomeno con la necessaria freddezza che richiede l’analisi politica in tempo di elezioni. Eggià, cara mia, perché siamo nel pieno della campagna elettorale: è questo il nocciolo del problema, è questo il punto su cui dovevi focalizzarti.” E poi, ancora: “Quando, faccio per dire, Di Maio afferma: «Si tratta di mantenere una promessa con gli italiani. Gli avevo assicurato che il Movimento avrebbe presentato la squadra di governo prima delle elezioni, oggi presenterò l’intera lista dei ministri. È un modo per proporre una squadra, candidato premier e governo, mentre negli altri schieramenti ancora non ho capito chi saranno i candidati a Palazzo Chigi, cambiano ogni giorno», ecco, vedi, ti ha indicato una strategia. Puoi essere d’accordo o meno sui contenuti, puoi apprezzare o meno la tattica, ma non dovevi cadere nella trappola di smontargli il giocattolo, ché quello, appunto, è solo un giocattolo. Berlusconi, ecco Berlusconi, ad esempio, quando (ri)firma il contratto con gli italiani da Vespa usa un escamotage di comunicazione politica per prendere un impegno. Meno efficace rispetto alla prima volta – una replica, diciamolo, difficilmente spiazza come la prima visione – ma comunque è un modo per prendere un impegno. Esattamente come ha fatto Di Maio. Sarà pure un giochetto il suo governo farlocco ma nell’immaginario collettivo il messaggio che arriva è quello di un impegno mantenuto. Reale e immaginario qui si fondano e, mettitelo in testa, la produzione di immaginario in campagna elettorale conta tantissimo. E ancora: il giochetto (la lista dei fantamistri, la salita al Colle, la presentazione cadenzata degli stessi ministri…) ha prodotto, di fatto, l’effetto di spostare il dibattito politico. Non si parla più del dopo-voto, delle scoppiettanti promesse di inizio campagna, di Renzi e Berlusconi, ma del governo che (non) verrà dei grillini. Il focus della discussione, il rumore di fondo della campagna elettorale nella fase più delicata (quella che mira a catturare l’attenzione degli indecisi, appunto) è tutto concentrato sulle proposte dei grillini e gli altri partiti, invece, restano appesi al commento sugli avversari. A inseguirli, appunto: non più produttori di contenuti, ma semplici followers. Metti poi che gli avversari si presentano agli occhi dei loro stessi elettori divisi, in contrapposizione tra loro, indecisi nelle scelte… ecco, di fronte a tutto questo, l’elettore dice: «voi intanto mettetevi d’accordo, ché io voto altro». Vedi?! Ammettilo: quello del Movimento 5 Stelle è stato un capolavoro di comunicazione politica. E, per giunta, riuscito. Tocca dirlo: chapeau!”.
Integerrima vs. Faziosa 1-0. Su calcio piazzato. Imprendibile.
Nell’astensionismo c’è un po’ di tutto: menefreghismo, rabbia, vendetta, delusione. Ma soprattutto c’è narcisismo, il “nessuno merita il mio voto”; ed è, tra tutte, la componente la meno scusabile. L’astensionista narciso odia doversi specchiare nell’immagine imperfetta e corrotta della politica, non ne accetta i limiti, la parzialità, la fallibilità. È, di fondo, un totalitario, uno che sogna il “voto perfetto” per il ”partito perfetto”. Grida il suo “non mi avrete” ed è fiero di mostrare la sua delusione per tutto e per tutti. È deluso, sì, ma non di se stesso. Anzi, valuta il proprio voto come una moneta troppo preziosa da mettere sul piatto per una posta assai modesta qual è, in fondo, la politica odierna. Così come coloro che sperano di incontrare “la donna ideale” o “l’uomo ideale” difficilmente riescono a star bene con le donne e gli uomini “normali” (e vanno, inevitabilmente, in bianco), l’astensionista narciso spinge a che arrivi sulla scena pubblica un impossibile, quanto improbabile, Partito Ideale, oppure – peggio ancora – rimpiange, idealizzandolo, “il mio partito di una volta”, proprio come si fa con l’età giovane. Intanto che sogna, spera e si dispera, altri elettori, magari ugualmente scontenti o delusi, però (un po’) meno narcisi, decidono di abbassarsi, umilmente, al livello della realtà e sporcarsi, come usa dire, le mani. Un poco invidiano la sdegnosa altezzosità dell’astensionista. Ma alla fine trovano conforto nella comune dignitosa mediocrità di una passeggiata ai seggi elettorali.
Dapprima i fatti: lunedì scorso, in una giornata gelida e persino nevosa e a qualche ora dall’atteso posticipo di campionato tra il Napoli a caccia dell’agognato terzo scudetto della sua storia e il Cagliari, un misterioso virus ha colpito quindici conducenti-operatori di stazione, tre caposervizio e tre manutentori della funicolare di Mergellina costringendo, di fatto, l’Anm a sospendere il servizio che collega la zona collinare con la parte bassa della città ‘e Pulecenella.
È possibile anticipare, con trascurabile margine di errore potenziale, come evolverà la vicenda di questi lavoratori assai cagionevoli di salute. La prima fase (quella in corso) è quella dell’indignazione: titoli di giornale a gridare lo scandalo, opinionisti che dicono che la misura oramai è colma, invocazione di drastiche sanzioni, l’immancabile sfuriata del Sindaco, raffica di post di utenti indignati per il disservizio, una valanga di tweet dei responsabili che promettono tempesta e fulmini sui furbi, fine dei privilegi e pretesa del rispetto delle regole contrattuali. Seconda fase (anche detta delle intenzioni virtuose): passata la sfuriata e dopo ragionate e ponderate valutazioni si annunciano sanzioni meno drastiche di quelle paventate nella prima fase, ma comunque di una certa severità, nuovi tweet dei dirigenti; sit-in (con tanto di inviato della D’Urso) di lavoratori che protestano per l’ingiustificata campagna di discredito, spiegano quanto è duro il loro lavoro, denunciano le situazioni precarie in cui operano ogni giorno, invitano, alla fine, a non fare di tutta l’erba un fascio. Terza fase (detta anche della Realpolitik): preso atto delle istanze sindacali, sottolineata la delicata situazione economica, viste le precarie condizioni opertive, considerata la nuova disponibilità manifestata dalla categoria, rientrano quasi tutte le misure annunciate; scompaiono i tweet apocalittici dei dirigenti, così come scompaiono le lamentele degli utenti (ormai incazzati per altre e più cogenti problematiche insorte); da Vespa, in una sorridente carrellata sulle usanze partenopee, si evoca quanto sia popolare, a Napoli, la cazzimma.
Vabbè, tocca rassegnarsi. Spalare la neve deve essere, per l’Italia, una sfida tecnologica insostenibile. Gli spazzaneve, il sale grosso, i guantoni, i cappelli e le sciarpe di lana, le catene per auto devono essere ritrovati tecnologici avveniristici (e costosissimi?) per i quali non siamo ancora pronti. Dev’essere così, fidatevi!
A fronte di tale incapacità, basterebbe però ci venisse risparmiato almeno il desolato stupore con il quale giornalisti e meteorologi più o meno esperti, ogni inverno, accolgono l’inverno. Pare difficile accettarlo, ma è così: in Italia, in febbraio, fa freddo e nevica. Da qualche decina di migliaia di anni. Tutti gli anni. Tutti. E spesso — udite udite — nevica “anche al Sud”, come strombazzano i tele-giornalisti con l’espressione sgomenta della D’Urso quando da un pettegolezzo già pregusta le ricadute in termini di audience sulle sue trasmissioni. Il Sud, infatti, è pieno di montagne molto alte. E appartiene — mi insegnò il professore di geografia — alla fascia del mondo a clima temperato: in estate, quindi, fa caldo e in inverno, indovinate un po’?, freddo. Da qualche decina di migliaia di anni. Tutti gli anni. Tutti.
“Oltre a Giada (nome di fantasia della bambina di 13 anni) ci sono state altre quattro che subivano esorcismi, alcune sui 15-16 anni”, racconta la prima delle ragazze a denunciare le violenze. «Lui sazia la sua carne con atti sessuali. Gli piaceva toccare, ma ha fatto anche qualcosa di più grave. A me». E ancora: «Nei confronti della minore venivano praticati riti medievali – scrivono i magistrati – le “benedizioni” prevedevano che il sacerdote tirasse i capelli e le orecchie alle donne, le faceva posizionare in ginocchio e con la testa a terra, calpestando la testa con i suoi piedi».
Questo, in sintesi, è quello che sta emergendo dalle dichiarazioni sul caso [*] di Don Michele Barone, il prete, che coperto da una inaudita quanto inspiegabile cortina di omertà e ignoranza, commetteva indisturbato abusi sessuali ai danni di ragazzine minorenni (le più, pare di capire, affette da gravissime patologie psichiche) nella diocesi di Aversa. Don Michele, stando alle ricostruzione degli inquirenti, avrebbe costretto le ragazzine a ingoiare olio e acqua santa mescolando l’acqua con la sua saliva e, infine, le avrebbe più volte sputato in bocca aprendo le labbra con forza quando queste si rifiutavano di ingoiare. Lo faceva perché, dicono i testimoni, le ragazze “erano governate dal demonio”.
In questo agghiacciante quanto surreale quadro che viene a delinearsi, stride la posizione del Vescovo, Angelo Spinillo, che, per ora, secondo quanto leggo dai giornali, si è detto “basito” perché citato nell’ordinanza del giudice: “Non ero informato di quanto emerso poi dalle indagini” – ha dichiarato in una video-intervista a pupia.tv.
Ora, quand’anche possa ritenersi credibile che l’attività di questo prete non fosse nota ai responsabili della diocesi in cui operava – se non è assurdo, è grave – c’è da dire che per un vescovo diocesano non può valere il “non sapevo” col quale potrebbe farsi scudo il responsabile di una qualunque istituzione laica, ché, Codice di Diritto Canonico alla mano, al Can. 391 viene detto: “Spetta al Vescovo diocesano governare la Chiesa particolare a lui affidata con potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria, a norma del diritto”. Il vescovo, insomma, è pienamente responsabile del governo della Chiesa particolare di cui è il titolare, salvo grave negligenza o palese inadeguatezza all’incarico. Può non essere in grado di evitare un abuso, ma è tenuto a saperlo.
O complice omertoso o vescovo da quattro soldi: cosa è meno peggio per chi la Chiesa definisce “un successore degli apostoli”?