A riguardare il discorsetto di sette secondi con il quale Berlusconi ha distrutto gli ultimi sette mesi di lavoro del centrodestra, ci si intravede, con efficacia esemplare e dunque emozionante, tutta la parabola berlusconiana: l’assottigliarsi inesorabile della quantità, delle dimensioni, della circonferenza del potere e dell’avere (e dunque dell’essere) di un ex mattatore che spariglia le carte e la butta in caciara pur di non arrendersi, pur di non dover ammettere la sconfitta: incapace di darsi per vinto, incapace di fare i conti con la realtà delle cose.
Al visto e rivisto tocca affiancare poi l’immaginazione. E il Salvini che in pubblico finge disinvoltura, lo si immagina qui, dietro le quinte, nero di rabbia contro il destino assurdo e beffardo che lo ha voluto legare, nel punto più alto della sua parabola politica, al viale del tramonto del vecchio satrapo. Si immagina, anche, l’imbarazzo del codazzo a libro paga ancora disponibile a testimoniare solidarietà e comprensione all’ex cavaliere; in cuor loro a masticar veleno, “ma tu guarda ‘sto rintronato che ha detto”, ma tutti intorno a dirgli, affettuosi, sornioni: “presidente che stile, che trovata”. Poveri cristi! Che brutto mestiere dev’essere il loro. Perché da un po’ di tempo, converrete, la fatica di essere Berlusconi è niente in confronto all’imbarazzo di doversi dire berlusconiani.
A leggere tra le righe, pare che anche il Fatto quotidiano, ora, abbia scoperto le virtù del garantismo. Del che, ovviamente, non si può che esserne felici. Certo, è un garantismo, come dire, a senso unico, riservato per quelli del M5s, ma è pur sempre un inizio. Accontentiamoci.
I fatti: Andrea Greco, il candidato governatore grillino alle regionali del Molise del 22 aprile prossimo, è finito al centro della polemica per via di un suo zio – parente acquisito, peraltro – affiliato alla Camorra, ospitato a inizio anni 80, quando era latitante, proprio in casa del padre di Greco, Tommaso, il quale rimarrà poi ferito a causa di un colpo esploso dalla polizia nel corso di un controllo nel 1982. Il Greco – sia detto per inciso – all’epoca dei fatti non era ancora nato, ché, documenti alla mano, è nato nel 1985. Cosa che il Fatto mette giustamente in luce: “Cosa c’entra” Greco, si chiede Vincenzo Iurillo, “con le malefatte di uno zio che non ha nemmeno fatto in tempo a conoscere?”. Oh, bene! Anzi, benissimo! Giusto un appunto: 15 febbraio scorso, a proposito dell’economista Pietro Navarra – inserito da Renzi nelle liste del Pd in Sicilia in vista delle politiche del 4 marzo e nato dieci anni dopo la morte di suo zio Michele, storico boss dei Corleonesi – Travaglio così scriveva: “Quelli che fanno battaglie antimafia in Sicilia rischiando la pelle e si ritrovano in lista il rettore dell’università di Messina Pietro Navarra, nipote del patriarca del clan dei Corleonesi Michele Navarra”. Come dite? Due pesi e due misure? Chissà, forse – e sottolineo forse – Travaglio e i suoi scagnozzi hanno a cuore gli elettori del Pd più di quelli del M5s.
Che meraviglia sei diventato senatoree mo’ te senti il più gran signorelasci interviste e fai il politico sapienteper me sei poco più de gnente.
– Paola Taverna, Vicepresidente del Senato
Io questa Paola Taverna la conosco. E la conoscete anche voi. L’abbiamo vista dietro il bancone di una pescheria. In fila all’ufficio postale. Alla cassa di un supermercato. La segretaria del poliambulatorio sotto casa. Paola Taverna, l’Anna Magnani der Parlamento, è una di noi. La parola casta è perlomeno fuorviante. Lascia intendere che esista un ceto parassitario (mo’ te senti il più gran signore) alieno alla brava gente che lavora, quasi un corpuscolo di invasori. Isolati, facilmente identificabili. Purtroppo non è così. Tra casta e popolo c’è osmosi, e un continuo, costante, incessante passaggio di consegne. Taverna, con l’umiltà che le viene dall’ignoranza, s’è messa a studiare la Costituzione e adesso è vicepresidente del Senato. Taverna è un prodotto della democrazia. Molti italiani che oggi sbraitano contro la casta, ove ne facessero parte, sarebbero identici alla Taverna, per il semplice fatto che sono identici a Paola Taverna anche adesso. Non si cambia un Paese se non cambia il suo popolo, non migliora un Paese se non migliorano le persone, la loro cultura, le loro ambizioni.
Il mito della democrazia diretta non mi cattura perché non tiene conto di un fondamentale dettaglio: se a decidere direttamente chi dovrà rappresentarli sono le tante Paola Taverna, eleggeranno in eterno Paola Taverna.
Ieri mattina una fila di volti noti e non, immensa, ordinata, lenta, silenziosa ha invaso l’ingresso della Rai di viale Mazzini per rendere l’ultimo saluto a Fabrizio Frizzi.
Lunedì la morte del conduttore qui l’abbiamo trascurata un po’ – per dire, manco una freddura gli abbiamo dedicato sulla nostra bacheca Facebook: dispiace certo, ma in fondo era uno della televisione, cosa volete che sia? E dire che con certe sue trasmissioni ci siamo cresciuti: a Tandem, ad esempio, qui ci si divertiva a risolvere gli indovinelli di Ottiero 2000. Eppure, le moltitudini di italiani, di normali telespettatori che in questi giorni hanno voluto salutare e ringraziare quest’uomo morto troppo in fretta insegnano invece qualcosa, parlano di qualcosa che, per superficialità o per supponenza, a torto, avevamo finto di non capire. Che in questa nostra Italia, in questo mondo che ci sembra a volte infarcito soltanto da trogloditi urlanti e beceri, un uomo semplice ed educato è riuscito ad attirare affetto e tanta tanta attenzione, anche trasversale, anche quella di giovani più avvezzi a star chinati sui cellulari che a guardare la tivù. Gente che è riuscita a cogliere non tanto (o soltanto) la buona televisione, ma attraverso Frizzi la positività bella della vita. Per quel suo modo di essere semplice, un po’ ingenuo, mai sopra le righe, quella sua risata (troppo) larga.
Cantava Guccini: “Quanti anni giorno per giorno dobbiamo vivere con uno / per capire cosa gli nasca in testa o cosa voglia o chi è / Turisti del vuoto, esploratori di nessuno / che non sia io, o me”. Ecco. La fila di ieri ce l’ha insegnato. E grazie, Fabrizio. Anche se in ritardo.
Per dialogare c’è bisogno di un linguaggio comune, di un minimo di rispetto reciproco e di onestà intellettuale nel trattare le argomentazioni altrui. Difficile, eh? Difficilissimo. Metti poi che c’è quel tanto di malevolenza e diffidenza che contraddistinguono noi italiani tutti e ti ritrovi sbeffeggiato a destra e manca sui social – moderna gogna mediatica a portata di mano – senza manco riuscire a dar prova della tua buonafede.
C’è il neo presidente della Camere, un francescano moderno, che rinuncia all’indennità di funzione e a parte dello stipendio da parlamentare e gli italiani, invece di ringraziare la Casaleggio&Associati per averglielo concesso in dono, che fanno?! lo perculano sui social perché, rinunciando (almeno così lui la va raccontando) all’auto blu, se n’è andato a lavorare in autobus. Ora, a me ‘sto gesto pare “bello, bello, bellissimo” (cit) ché, tanto per iniziare, significa che Fico sia riuscito a salirci sul bus (insieme a scorta e fotografo, per giunta). E soprattutto sia riuscito ad arrivare a destinazione riuscendo a scansare la ragnatela di lamiere che attanaglia Montecitorio. Ma – lo dicevo prima – i suoi critici non sono mai contenti, s’ostinano a non capirlo e si spingono su su, tra i meandri dei codici e dei codicilli, fino a sostenere che la terza carica dello Stato, in quanto Statista, va protetta perché consegna se stesso allo Stato e in quanto Uomo di Stato attende alle necessità dello Stato: non sono un privilegio dunque auto blu e scorta, ma il modo in cui lo Stato protegge se stesso cioè il suo Popolo.
Etica e codici a parte, Fico, invece, andrebbe lodato. E non solo perché chiunque altro di noi mortali farebbe carte false per sottrarsi all’ordalia dei mezzi pubblici, ma soprattutto per la rapidità con cui ha intrapreso la conversione: secondo il sito degli ermeneuti dello scontrino e dei bonifici (revocati), tirendiconto.it, nell’ultimo anno di autobus, il Fico, ne aveva presi in tutto 15, per un totale di 22,50 euro rendicontati come spese di trasporto bus/metro. Molto più alta era stata la cifra spesa dal nuovo presidente della Camera per i taxi: 2.486,24 euro in dodici mesi [*].
Avrà modo di usare nel corso del suo mandato le auto e gli altri mezzi di trasporto blu che lo Stato gli mette a disposizione, ne siamo certi – ché per gli incontri internazionali potrà mica affidarsi a Uber?! Ad ogni modo, varrà la pena rassicurare gli autisti della Camera che avrebbero dovuto occuparsi di lui. Stiano tranquilli: venissero licenziati (Dio non voglia!) riceveranno, comunque, il reddito di cittadinanza.
Una condizione disperata, che li emargina dalla società, li tiene lontani dalla televisione, li rende poco appetibili dalla politica e dalla pubblicità. No, non mi riferisco agli analfabeti funzionali (oltre un italiano su quattro) recentemente censiti dall’Ocse. Sto parlando dei milioni di alfabetizzati cronici che ancora si ostinano a leggere i quotidiani e i libri, vanno ai concerti, frequentano le mostre, amano viaggiare, affollano i dibattiti e le letture pubbliche, puntano a un dottorato di ricerca (i casi più disperati), ai master (quelli veri, da frequentare), a uno stage di specializzazione, a una carriera in campo culturale, magari – udite, udite! – a lavori dequalificati come l’insegnamento. Ecco: cosa fare di questa irriducibile minoranza di esclusi, di ostinati, che vagano per i palinsesti senza mai trovare porto, che vengono scartati dalle agenzie perché troppo qualificati, ai quali nessun politico nessuno si rivolge per rinfrancarli? Che fare di questo folto gruppetto di italiani acculturati che disprezzano i reality show e non sopportano i dibattiti televisivi fatti di urla e slogan, e insomma rifiutano ostentatamente di integrarsi? Ricerche sociologiche più o meno accreditate sostengono che esiste ancora, in questo Paese, chi non ha idea di che cazzo abbiano mai fatto nella vita Fedez e Ferragni da essere così famosi e sa invece apprezzare gli scritti di Hawking, non ha mai visto L’isola ma ha visitato Ponza. Le autorità sono preoccupate. È in quella sentina di ostinati, di socialmente diversi che può annidarsi la prossima sommossa.
Intanto che Giggino Di Maio, già più banale, intesse alleanze e s’accorda sulle presidenze e, al bordo campo, dalle colonne del suo nuovo blog, il fondatore Grillo vaneggia di reddito per diritto di nascita e di lavoro, il figlio del compianto Gianroberto, Davide Casaleggio, vola altissimo dalle colonne del Washington Post: “The Five Star Movement – attacca così il Casaleggio –, which launched in 2009, has now achieved a landmark success among Western democracies by using the Internet to play a crucial role in the electoral process”. Lo scopo dell’articolo? Presto detto: ragguagliare gli americani sul programma del Movimento scritto, a suo dire, dagli stessi cittadini – non è vero, in buona parte quel programma è stato scopiazzato da economisti, parlamentari (anche del Pd, anche del Pd!) e da Wikipedia–; gli stessi cittadini che – almeno è così che lui va raccontandosela – hanno selezionato i candidati (“Our parliamentarians who stood for election were chosen through online voting on the Rousseau platform”) – non è vero neanche questo: i candidati dell’uninominale sono stati scelti de facto da lui e dal capo politico. È tutto? No, chiaramente. Ché, con un tratto avveniristico, sospinto da “an unstoppable wind that will continue to grow because it is aligned to the future”, il Casaleggio jr si lancia in un pippone filosofico su Jean-Jacques Rousseau nell’amministrazione del mondo tramite la “volontà generale”. Sentite qua: “The platform that enabled the success of the Five Star Movement is called Rousseau, named after the 18th century philosopher who argued politics should reflect the general will of the people. And that is exactly what our platform does: it allows citizens to be part of politics. Direct democracy, made possible by the Internet, has given a new centrality to citizens and will ultimately lead to the deconstruction of the current political and social organizations. Representative democracy — politics by proxy — is gradually losing meaning”.
Come dite? Pensate che Rousseau sia stato leggermente frainteso? Sì, lo pensiamo anche noi, ché quella di cui parlano i Casaleggio (lo diceva il padre prima, lo ripete paro paro il figlio adesso) è la volontà di tutti cosa assai diversa, invece, dalla volontà generale.
La volontà generale è cosa assai diversa d quella di tutti, ché solo quella generale e solo questa “può dirigere le forze dello Stato secondo il fine per cui questo è stato istituito, cioè il bene comune; infatti, se l’opposizione degli interessi particolari ha reso necessaria l’istituzione della società, questa a sua volta è stata resa possibile dalla concordanza di quei medesimi interessi. Proprio ciò che vi è di comune in questi diversi interessi forma il vincolo sociale, e se non vi fosse qualche punto sul quale tutti gli interessi si accordassero, nessuna società potrebbe esistere. Orbene è unicamente sulla base di questo interesse comune che la società deve essere governata […] Ma quando sorgono delle consorterie, delle associazioni parziali a spese della grande associazione, la volontà di ognuna di queste associazioni diventa generale nei confronti dei suoi membri e particolare nei confronti dello Stato. Si può dire allora che non vi sono più tanti votanti quanti sono gli uomini, ma soltanto quante sono le associazioni. Le differenze divengono meno numerose e danno un risultato meno generale. Infine, quando una di queste associazioni è così grande da superare tutte le altre, non si ha più come risultato una somma di piccole differenze, ma una differenza unica; non vi è più allora una volontà generale, e l’opinione che ha il sopravvento non è che una opinione particolare” (da Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, II, 1; II, 2; II, 3). Se c’è passione, insomma, si arriva al plebiscito e giù giù fino all’orrore (avete presente Gesù e Barabba, vero?). Ecco, da qui a sostenere che il Movimento sospinto dal vento del vaffa (e dal tutti so’ corrotti e tutti so’ ladri) sia scevro dalla passioni, ci vuole non dico fantasia ma quantomeno la faccia tosta come il culo di un vecchio cardinale della Curia! Anche se, come si sa, in Italia quella – la faccia tosta come il culo, dico – non manca affatto.
In questi tempi dalla velocità incontrollata, con le migliaia di immagini atroci che, con violenza, ci vengono sbattute in faccia dalla Siria, ho paura che (anche) questa fotografia [*] sarà presto dimenticata.
Fingere di non sapere la realtà è un trucco del cervello per non impazzire. Quando la realtà poi è quella raccontata dalla foto di un bambino non può che generare impotenza. Vorresti fare qualcosa, oltre a commuoverti, ma non sapendo che cosa, pur di non soffrire fingi di dimenticare. In modo vergognoso e inquietante.
Ancora una volta questo probabile oblio ci deve far riflettere sulla nostra relazione con la memoria e quindi con la storia. Una riflessione terribile.
C’era qualcosa fuori luogo, un dettaglio che mi sfuggiva. Insignificante, forse. Ma sapevo che c’era qualcosa che mancava: “come quando una cosa viene improvvisamente a mancare alle nostre abitudini, una cosa che per uso o consuetudine si ferma ai nostri sensi e più non arriva alla mente, ma la sua assenza genera un piccolo vuoto smarrimento, come un intermittenza di luce che ci esaspera”. No, non era il panellaro de “Il giorno della civetta” quello che mancava. In tutte le ricostruzioni lette sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e la strage della scorta, commosse, sensazioni personali, traboccanti di misteriose coincidenze. E il ruolo dei servizi segreti, di quelli deviati, e dell’Urss e degli Usa, e il Vaticano, e Giulio Andreotti ed Enrico Berlinguer, gli eterni processi. E poi, ancora, gli assassini in tv e l’imperitura lezione dell’assassinato, il depistaggio, l’infinito male eccetera eccetera eccetera. Un’unica e monotona voce e il profumo di incenso per il santino posto sull’altare della patria.
Ecco sì, c’era qualcosa fuori luogo. Poi, dal prezioso archivio di Radio Radicale, è venuta fuori una dichiarazione del maestro Sciascia su Moro. E ho capito. Non è per togliere qualcosa al maestro di Racalmuto, che come tutti è stato figlio e artefice e vittima del suo tempo; è per aggiungere qualcosa sui sentimenti profondi di questo Paese. Di una sua buona parte. Sentimenti che proprio Sciascia è riuscito a descrivere con acutezza e asciuttezza inarrivabili nei suoi preziosissimi scritti.
“Io sono dell’opinione che Moro – dice Sciascia – non è stato un grande statista. È stato un grande politicante”. E ancora: “Moro era un uomo piuttosto scettico, piuttosto pessimista: non credeva negli italiani e tantomeno credeva nella Democrazia Cristiana”. E così, nella sua vita ”non ha fatto altro che mediare, da politicante: ha sempre mediato. Ecco perché s’aspettava, anche nel suo caso, che si mediasse”.
Ecco qual era il dettaglio che nella celebrazione di ieri mancava: mancava quella forma di onestà intellettuale che è nelle cose chiare, schiette e vere. Un dettaglio insignificante, forse. Un dettaglio la cui mancanza però ci qualifica. Un po’ tutti.
[vimeo 260538984 w=640 h=425]
Che la presidenza della Camera debba andare al primo partito uscito dalle urne “non sta scritto da nessuna parte, se non nella testa di Toninelli – dove lo spazio c’è, com’è noto”.
– Massimo Bordin, 16.03.2018
[vimeo 260472573 w=640 h=391]