Nun t’arraggià quando juoche, numquam ruere in ludendo – avrebbero tradotto gli antichi. Questo lo sentivo dire al circolo in piazza, da piccolo, quando spettatore di una mano di tressette o scopone, guardavo le prodezze di gioco di un amico del nonno, incallito giocatore di carte – l’amico, non il nonno.
Ho visto giocare alla perfezione dei vecchi così pieni di acciacchi da non poter stare in piedi. Ma da seduti erano meravigliosi, non sbagliavano una carta e sapevano perdere e pagare un giro di caffè senza caricare una ruga. Sapevano stare al gioco.
Accetta il consiglio di quel vecchio giocatore e se perdi, nun t’arraggià. Da arrabbiati si gioca peggio. E poi non è colpa della sfortuna. È più sicuro che tu abbia giocato male o, se preferisci, gli altri meglio. Se accetti questo, sei già un passo avanti a certe personalità politiche e non, che nel momento della sconfitta se la prendono con i complotti e le manovre. Non ammettono di essere stati dei brocchi.
Molta buona educazione e contegno nei rovesci sta nell’aver imparato in tempo a perdere al gioco, a incassare la sconfitta. A molta infanzia d’oggi, istruita dagli schermi luminosi, sarebbe utile un po’ di dimestichezza con la varietà delle combinazioni di carte, dove tra il vincere e il perdere la differenza è un soffio.
La scoperta dell’inferiorità serve a decidere di sé.
Si chiamava Vivian Maier, e se il nome non vi dice niente, beh, tranquilli, la cosa è abbastanza normale. Pare che nella vita, quella di tutti i giorni, faceva la tata, lo stesso mestiere di sua madre e di sua nonna: lo faceva per le famiglie upper class di Chicago, e, dicono le cronache, lo faceva bene, con limitato entusiasmo, pare, ma con inflessibile diligenza.
Lo fece per decenni, a partire dai primi anni Cinquanta: i suoi bambini di allora, adesso adulti, sono ora piuttosto increduli, ché si vedono arrivare giornalisti o ricercatori che vogliono sapere tutto di lei. Un po’ spaesati, annotano che non è il caso di immaginarsi Mary Poppins: era un tipo estremamente riservato, un po’ misterioso, piuttosto segreto. Faceva il suo dovere, e nei giorni di vacanza, riservatamente spariva.
Non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse amici, era solitaria e indipendente. Non scriveva diari e che io sappia non ha lasciato dietro di sé una sola frase degna di memoria. Le piaceva viaggiare, naturalmente in solitario: una volta si fece il giro del mondo, così, perché le andava di farlo: è anche difficile capire con che soldi. Una cosa che tutti ricordano di lei è che accatastava oggetti, fogli, giornali, e la sua stanza era una specie di granaio della memoria, uno scrigno inaccessibile, se non a lei, immaginato per chissà quali inverni dell’oblio o, più probabilmente, per il disgusto di dimenticare. Collezionava mondo, si direbbe. Collezionava la bellezza del quotidiano. L’altra cosa che tutti ammettono è che sì, in effetti, girava sempre con una macchina fotografica, le piaceva scattare foto, era quasi una mania – talmente sfacciata doveva essere la sua passione da essere stata più volte scambiata per una spia – : ma certo, da lì a immaginare quel che sarebbe successo…
Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier si è ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si è fatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava molto – l’abbiamo detto prima – affittò un box, in uno di quei posti in cui si depositano i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che non sai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finiti i soldi, non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire.
Quelli dei box, se non paghi, dopo un po’ mettono tutto all’asta. Non stanno nemmeno a guardare cosa c’è dentro: aprono la porta, gli acquirenti arrivano, danno un’occhiata leggera e distratta da fuori e, se qualcosa li ispira, si portano via tutto, scatoloni e puzzo di muffa, per un misero pugno di dollari: immagino sia una forma sofisticata di gioco d’azzardo. L’uomo che si portò via il prezioso contenuto del box di tata Maier si chiamava John Maloof, agente immobiliare e appassionato di collezionismo. Era il 2007, dieci anni fa. Più che altro si portò via scatoloni, ma quando iniziò a guardarci dentro scoprì qualcosa che poi avrebbe cambiato la sua vita, e, provo ad azzardare, ingrassato il suo conto in banca: un misurato numero di foto stampate in piccolo formato, una marea di negativi e uno sterminato numero di rullini ancora da sviluppare. Sommando si arrivava a più di centomila fotografie: tata Maier, in tutta la sua vita, ne aveva visto forse un dieci per cento (pare non avesse i soldi per lo sviluppo, o forse non le importava neanche tanto di svilupparli), e non ne pubblicò nemmeno una. Ma Maloof invece si mise a guardarle per bene, a svilupparle, a stamparle e a pubblicarle sul suo profilo Flickr: e un giorno si disse che o era pazzo o quella era una dei più grandi fotografi del Novecento. Optò – a ragione – per la seconda ipotesi. Volendo credergli, si mise anche a cercarla, questa misteriosa Vivian Maier, di cui non sapeva nulla: la trovò, un giorno del 2009, otto anni fa, negli annunci mortuari di un giornale di Chicago. Tata Maier se n’era andata in silenzio, probabilmente in solitudine, senza stupore, all’età di 83 anni, in seguito a un incidente, cadendo sul ghiaccio e battendo la testa: senza sapere di essere, in effetti, com’è ormai chiaro, uno dei più grandi fotografi del Novecento.
La prima volta che ho incrociato questa storia ho naturalmente pensato che fosse troppo bella per essere vera. Tuttavia le foto erano davvero pazzesche, tutte foto di strada, quasi tutte in bianco e nero e tutte bellissime. Per lo più gente, ma anche simmetrie urbane, cortili, muri, angoli. Un cavallo morto su un marciapiede, le molle di un materasso abbandonato. Ogni volta, tutto perfetto: la luce, l’inquadratura, la profondità. E, sempre, una specie di equilibrio, di armonia, di esattezza finale. Come facesse, non si sa. Voglio dire, per azzeccare il ritratto di un passante e ottenere qualcosa di quella intensità, e forza, e impeccabile bellezza, bisognava avere un talento mostruoso oltre che una tecnica e una conoscenza della macchina fotografica impeccabili. Lei le aveva. Aveva dodici colpi, nella sua Rolleiflex, per ogni rullino. Dato che poi li teneva a marcire in un box, quei rullini, noi adesso possiamo vedere come sparava: mai due colpi sullo stesso bersaglio. Se ne concedeva uno, le era estranea l’idea che nella ripetizione si potesse migliorare. L’unico soggetto a cui abbia dedicato ripetuti ritratti, inaspettatamente, è se stessa: si fotografava riflessa nelle vetrine, negli specchi, nelle finestre. L’espressione è tragicamente identica, anche a distanza di anni: lineamenti duri, maschili, sguardo da soldato triste, una sola volta un sorriso, il resto è una piega al posto della bocca. Impenetrabile, anche a se stessa. Le piacevano le facce, i vecchi, la gente che dorme, le donne eleganti, le scale, i bambini, le ombre, i riflessi, le scarpe, le simmetrie, la gente di spalle, la rovina e gli istanti. Si capisce che adorava il mondo, a modo suo — ne adorava l’irripetibilità di ogni frammento. Probabilmente le andava di produrre quello che ogni fotografia ambisce a produrre: eternità. Ma non quella friabile delle foto dei mediocri: lei otteneva quella, incondizionata, dei classici. E tutto questo, cosa sublime, solo per il suo personale piacere e per il gusto di farlo.
Poi non so, magari mi sbaglio. Ma devo registrare il fatto che, nel caso, iniziamo a essere in molti, a sbagliarci. Quindi darei per buono che, in effetti, tra i grandi del Novecento, ce n’è uno in più.
Naturalmente adoro l’idea che non abbia detto una sola frase sul suo lavoro, né abbia guadagnato un dollaro dalle sue foto, né abbia mai cercato una qualunque forma di riconoscimento sia pubblico che privato.
Ma la storia non è ancora finita, e magari, nel tempo, qualcosa verrà fuori, a incrinare tanta irreale purezza. Ma le foto resteranno, su questo è difficile, molto difficile, avere dubbi.
Non c’è niente di cui abbiamo più bisogno. Ridare un nome alle cose. Daccapo, rinominarle come quando per un’amnesia collettiva arriva un estraneo e attacca le etichette alle cose, a battezzarle: tavolo, penna, fogli, sedia. Oh, sentite qua: se-dia. Serve a riposarvi. Cos’è questo? Un libro. Ah, sì. Ricordate? Un libro, un libro. Sapete cos’è, no? A cosa serve? Bene, passiamo alla forchetta.
E noi? Noi sappiamo di cosa parliamo quando parliamo di amore? Di dolore? E del rispetto? Il ricordo? Il tempo, il silenzio? La mancanza? Il rimorso? Avete da qualche parte appiccicata un’etichetta, un post-it, che vi ricordi cosa sono?
Cantano anche se non sentono e non parlano. Sono quelli del coro delle “mani bianche”: bambini che non possono sentire con le orecchie né cantare con la voce, ma lo fanno con le mani; mani inguantate di bianco che si muovono nell’aria a disegnare la musica, mostrandocela così com’è.
Pare – a sentir uno dei loro maestri – pare, dicevo, che avvertano la vibrazione della musica nel diaframma, un po’ più su della pancia: un movimento segreto e remoto, qualcosa come ali di farfalla che si colorano di colori diversi a seconda dell’intensità e della natura del suono.
I colori della musica tutti potremmo ascoltarli, ma siccome noi usiamo le orecchie, ché è più semplice, non abbiamo mai imparato a sentire con il resto del corpo. Nessun ce l’ha insegnato, non serviva. A loro, invece, a quei ragazzi, l’hanno insegnato, e guarda che meraviglia!
Basta guardarli, ecco, per sapere perché non hanno qualcosa di meno, ma certamente qualcosa di più. Ché quel che gli manca è diventata la loro ricchezza. Che l’assenza è davvero una più acuta presenza. Vale per la voce, vale per l’udito. Vale per le persone che c’erano e non ci sono più. Vale per noi che non smettiamo un minuto di cercare ciò che non c’è. Di desiderare quello che manca.
La lotta ai privilegi da una pista da sci ha la stessa credibilità della lotta all’obesità durante il cenone di Capodanno…
In un’intervista, Borges sintetizzò con poche semplici parole la sua cecità. Non c’è nessuno allo specchio…
A furia di ripetere l’ovvio si è finiti per considerarlo scontato e banale; le carte poi so’ state tutte rimescolate, e alcune anche truccate, dalla pervasiva, insistente, annosa campagna di revisionismo storico che ha accompagnato gli anni di Berlusconi giù giù fino ai nostri giorni. L’espediente retorico di rendere omaggio alla voce dei vinti ha finito per trasformare, pian piano, i lupi in agnelli, e la minoranza di ragazzi generosi e coraggiosi che, sebbene cresciuti dentro un regime ottuso e razzista, presero la via dei monti, nel distorto racconto revisionista viene spacciata per un potere soverchiante e opportunista; e quella generosità e quel coraggio finiscono per essere ancora più sminuiti (se non strumentalizzati) da goliardate che somigliano molto alla sopraffazione gratuita, alla irrisione vigliacca se non alla vendetta oltre la vendetta.
Ecco, anche per tutto questo diventa ogni anno sempre più importante, sempre più giusto, sempre più emozionante, festeggiare il 25 Aprile e il suo significato storico.
“Caro Luigi, ti scrivo per aggiornarti sullo svolgimento dell’incarico che mi hai conferito”. Attacca così il lavoro del professore Giacinto della Cananea sulla compatibilità fra il programma del Movimento e quelli di Pd e Lega. A spulciarselo per bene da cima a fondo, manca – ohibò, ohibò… – il reddito di cittadinanza ché, secondo l’interpretazione corrente, quello proposto in campagna elettorale non era un reddito di cittadinanza, ma un normale sussidio temporaneo ai disoccupati, sebbene rafforzato rispetto a quello esistente.
Perché – uno malizioso come me si chiede – l’hanno chiamato allora reddito di cittadinanza pur sapendo che non era un reddito di cittadinanza? Sarà forse che da quelle parti coltivano il gusto della contraddizione? Sentite questa. Il costituzionalista – ohibò, ohibò… – Danilo Toninelli proprio ieri ha detto «sì alla flat tax purché sia progressiva». Ecco, la flat tax per definizione non è progressiva: se è progressiva non è una flat tax. Un politico – e che politico! – che dice sì alla flat tax purché progressiva è come l’avventore di un bar che chiede al barista un bicchiere di acqua liscia con le bollicine… giusto per inquadrare meglio la cazzata. Metti poi che il Toninelli di cui sopra si occuperà di legge elettorale, non sarà affatto impossibile sentirgli proporre un proporzionale purché maggioritario, o un doppio turno purché unico. Cose di questo genere, insomma.
Da quelle parti, comunque, il gusto della contraddizione si è spinto ben oltre anche in passato, se si pensa che hanno detto sì ai vaccini purché non siano obbligatori, o sì alla Russia purché si continui a restare con la Nato, no a un Governo con Berlusconi e sì a un appoggio esterno di Berlusconi a un loro Governo e anche sì all’uscita dall’euro purché si resti nell’euro. Come dite? Sarà il caso di non prenderli sul serio? Beh, occorre andarci piano però, ché altrimenti si rischia di venir bollati per quelli che non capiscono il popolo, per amici degli amici del PDmenoElle, etc etc. Tocca sforzarsi di capirne la logica. Però – ohibò, ohibò… –, cazzo, che fatica capire Toninelli!