– Paolo Nori, da l’Introduzione a Mosca-Petuškì. Poema ferroviario di Venedikt Erofeev. Quodlibet
Già mi raffiguro la scena. Lei esce di casa e il portiere invece di dirle: “Buongiorno, dottoressa”, le dice: “Buongiorno, dottoressa in Scienze politiche”.
«Ho letto la Morte di Ivan Il’ič. Sono più che mai convinto che il più grande scrittore di tutti i tempi è Lev Nikolaevič Tolstoj». (Pëtr Il’ič Čajkovskij)
Sono come cani e gatti, si dice. Ma da un mio vicino, qui in campagna, ci sono quattro cani e un gatto che non la fanno da cani e gatti; e non solo pacificamente convivono, ma fanno di tutto, i cani, per non guastare al gatto l’illusione, che drammaticamente coltiva, di essere un cane. Ma è tutta una storia: e mi piacerebbe saperla scrivere come Cechov scrive quella della cagnolina Kastanka. Comunque, i dati sono questi: rimasto orfano e sopravvissuto ai fratelli, il gatto è stato allattato dalla cagna, alla quale era stato lasciato uno solo dei figli; crebbe ruzzando col suo fratello di latte, e trattato come lui dalla cagna che lo aveva allattato e dagli altri due cani. Nessuno gli contestò mai il posto a tavola, cioè intorno al vaso di coccio in cui viene loro servito il rancio, né l’osso da spolpare. Mai un ringhio, verso di lui; tanto più tolleranti anzi con lui, i cani, che tra loro. Il cane di Trilussa dice: «co tutto che sapevo ch’era un gatto / cercavo de trattarlo come un cane». Questi cani hanno invece trattato il gatto molto meglio di un cane, subendone l’infaticabile vivacità e i capricci. Ma il punto è questo: che hanno sempre saputo che è un gatto. Il gatto, invece, non sa di essere gatto. Si crede un cane. E a volte un cane menomato; a volte un cane virtuoso, di un virtuosismo agli altri cani inaccessibile. Ma che faccia il cane reprimendo i miagolii e andando dietro al padrone, mostrandosi come i cani festoso quando il padrone viene fuori col fucile, o che si abbandoni a un exploit da gatto arrampicandosi ad un albero fino alla cima, il suo è un dramma. E c’è da credere ne abbia toccato il fondo quest’anno, il giorno dell’apertura di caccia. È andato anche lui dietro al padrone, alla partenza facendo di tutto per essere allegro come i cani, saltellando, correndo. Ma poi si è stancato, si è annoiato, si è messo in disparte. E finì con lo sperdersi. Non tornò a casa, la sera. I cani, che non erano più riusciti a badargli, presi com’erano stati dal piacere della caccia, al ritorno ne avranno notata l’assenza e forse se ne saranno fatti un rimorso. È possibile siano andati a cercarlo. Fatto sta che l’indomani sera il gatto era tra loro: i cani in festa intorno a lui, e specialmente il suo fratello di latte. Ma il gatto mostrava una controvoglia, ai giuochi cui l’invitava il fratello, una indifferenza, una malinconia. Forse aveva capito di non essere un cane, e che gli altri pietosamente lo ingannavano trattandolo da cane. E continua a vivere come prima, ma con una certa stracchezza e noncuranza, come improvvisamente invecchiato. «Se non sono un cane, in nome di Dio, che cosa sono?» sembra domandarsi, standosene in disparte, adagiato su una sedia: da gatto.
Tra Il giorno della civetta e Una storia semplice passano ventotto anni; gran parte degli anni creativi della vita di Sciascia. Vita troppo breve, soprattutto per chi, avendolo amato, a meno di trent’anni dalla sua scomparsa, non si rassegna alla sua assenza. Una storia semplice è l’ultimo testo narrativo di Sciascia: esce in libreria il giorno stesso della sua morte. Un racconto brevissimo, di quella brevità sempre più da Sciascia perseguita in termini di asciuttezza, di densità di significati e della parola che si dilatano nel cervello e nella coscienza del lettore e ne moltiplicano gli echi.
Questo libro, insieme con A ciascuno il suo e al Giorno della Civetta, è il terzo giallo siciliano di Leonardo Sciascia, di quella peculiare maniera del maestro di Racalmuto di utilizzare il genere letterario del giallo sovvertendolo: non più rassicurante itinerario alla fine del quale il bene, infallibilmente, trionfa sul male, l’ordine sul disordine, ma rappresentazione mediante la scrittura della verità e della giustizia che i poteri, le inquisizioni, sempre occultano e sbeffeggiano.
È un gesto di scrittura che in Una storia semplice rivela il delitto: quel punto apposto dall’assassino alla frase Ho trovato, che nella sua incongruenza rivela la menzogna. Perché l’italiano non è l’italiano: è il ragionare – dice il professore Franzò, alter-ego di Sciascia, anche lui, come il personaggio, inchiodato, mentre scriveva il racconto, alla dialisi.
Lo dice al magistrato, suo ex allievo, che subito sappiamo parte del contesto del potere secondo l’accezione della parola contesto che diventerà il titolo di un altro grande romanzo di Sciascia.
Una storia semplice è dunque un ritorno alla Sicilia, quasi a chiudere il cerchio; ma di quella Sicilia come metafora del mondo che immancabilmente torna negli scritti di Sciascia. Ritorno desolato, amarissimo, ma non rassegnato. Non a caso la citazione che apre il racconto è di un altro scrittore eretico, da Sciascia molto amato, lo svizzero Durrenmatt: Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.
Che cretino, commenta il magistrato a elogio funebre del commissario, il cui errore ha rivelato le sue complicità mafiose e lo ha portato a uccidere e a essere ucciso. Cretino perché si è fatto uccidere; intelligente, infatti, per lui (e per troppi cretini veri) è chi, nel disprezzo di tutti, attraverso la menzogna, la fa franca. Era un cretino, simmetricamente, sentenzia don Luigi alla fine di A ciascuno il suo: un epitaffio per il professore Laurana, il quale, per aver cercato la verità ed essersi illuso di trovare giustizia, giace ammazzato sotto grave mora di rosticci – con la pietra tombale di una menzogna, che come sempre (e non solo nei racconti di Sciascia) si concludono le complicatissime storie semplici del mondo in cui viviamo. Perché cretino, si capisce, è anche chi, ingenuamente, la verità e la giustizia si ostina a cercare.
Gli spettatori milanesi dell’edizione teatrale de Il giorno della civetta, come chissà quanti lettori che non hanno capito o non hanno voluto capire, hanno applaudito e applaudono, con masochistica complicità, la tirata cinica e nazista del capomafia don Mariano Arena, non rendendosi conto, in tal modo, che rumorosamente accettano di appartenere a quel popolo di cornuti sul cui mare di corna i don Mariano di sempre e di ogni dove si vantano di navigare grazie al loro cinismo criminale. Sciascia, no! Sciascia non ha applaudito; Sciascia non applaudiva. Sino alla fine ha continuato scrupolosamente a scandagliare le possibilità che forse ancora restano alla giustizia; malgrado l’amarezza, malgrado il pessimismo, malgrado la malattia. Da grande scrittore, da uomo eretico qual era. Eretico di ogni chiesa, di quella comunista come di quella cattolica, con buona pace di chi, anche da morto, continua a tentare di annetterselo.
L’uomo della Volvo – personaggio metafora del cittadino che credendo nella giustizia fa il suo dovere di testimone e si mette nei guai –, l’uomo della Volvo , alla fine di Una storia semplice, dice al prete-assassino, che in nicchio, cotta e stola si prepara a celebrare il funerale di un assassinato, che lui non è della sua parrocchia, che lui non ha parrocchia.
La sola religione di Sciascia (a parte quel peculiare cristianesimo che lui ha riconosciuto in Pirandello) è forse stata la ragione. Ma con una punta di eresia anche in quella: al brigadiere Lagandara, che dice di sommare aritmeticamente gli indizi che portano alla verità, il professor Franzò consiglia di sciogliere anche nell’aritmetica qualche grano di dubbio.
C’è un paradosso per Sciascia, in quella che si suole definire la fortuna di uno scrittore: certo, continua a essere presente, a essere letto, ma a me pare che la sua opera rimanga occultata dentro un malinteso, rimossa qualche volta. Basti pensare allo spettacolare silenzio di cui nelle verbose, confuse e spesso ipocrite rievocazioni dell’assassinio di Aldo Moro è stato circondato il suo libro formidabile sul quel delitto politico. La tutt’ora bruciante attualità dei problemi mai risolti che lui ha affrontato, il suo ruolo di protagonista nelle polemiche durissime che hanno accompagnato la sua vita, lo fanno ancora leggere e considerare come se lui fosse stato un sociologo, uno storico, peggio, un politico se non un maître à penser che ognuno cerca di respingere o tirare dalla sua parte, e non il grande scrittore che è stato, che è.
Chissà oggi e a chi interessa a quali fatti e contingenti accanimenti si riferissero nei loro grandi libri scrittori del calibro di Dostroevskij, Manzoni, Joseph Roth. Quei fatti e avvenimenti, che come molti altri uomini hanno vissuto e patiti nella loro vita, sono stati anche, naturalmente, la materia del loro scrivere; ma la loro grandezza noi riconosciamo nel modo in cui li hanno usati quei fatti e trasformati dentro la forma della letteratura.
Bisognerà restituire Sciascia alla potenza della sua parola; solo allora lo si farà uscire dal malinteso paradossale che ancora ne offusca la sua grandezza letteraria.
Sono al Fico d’india, come ogni sera. Vengo qui quando il bar della piazza chiude. Mi piacciono i colori e l’odore del posto. Un misto di chiuso, di sudore, moquette, legno, gardenie e luci soffuse. D’inverno è il deserto per questo posto. Sto seduto in penombra, fuori dalla finestra c’è un buio nero come la pece che avvolge le cose. Bevo birra. Dice che quando bevo divento violento, picchio duro e invece, da sobrio, sono di animo buono, alto, massiccio e tozzo. Lupo, Colonnello, Gladiatore, datemi cento nomi, nomi di battaglia, adatti a un condottiero. La mia fama di scapestrato in paese è nata con me, gli ho semplicemente dato corpo. A vent’anni mangiavo anfetamina e lanciavo la macchina di mio padre sulla strada del mare a M*. Tempi gloriosi quelli! Capelli fin sulle spalle e piattole, ogni notte un letto nuovo. Le donne: in troppe hanno cercato di rompermi la schiena. Ma calmarmi no, ché io non mi calmo affatto. A me piace la vita, la penombra delle discoteche, la carne rosa della Milena che si dimena sulla pedana: quante ne ho avute prima di lei, sciacalli che la nebbia di questi luoghi incrina.
È vero. M’han fermato per quel fattaccio di Rogas, quel ragazzo morto ammazzato a C*. Che c’entro io? L’ho detto ai questurini. Via, lasciatemi in pace. Se finisco dentro regolare è per brutto carattere, mica per colpa. Va tutto bene, ma a un tratto una parola, un cenno, un bicchiere di troppo, e un grido mi si espande improvviso dentro al petto, in fondo al plesso monta un’ira sorda. Hai voglia a darmi addosso: non sono più io.
Quello là, per esempio, siede con la ragazza sulle ginocchia e ride. Non mi piace come ride, e quando uno non mi piace, io glielo vado a dire. La ragazza è carina però, e come gli si struscia. Guardala! Mi alzo, vado. Che gli dico? Ma che cazzo ne so! Vado, mi verrà qualcosa in mente.
La ragazza mi guarda con due occhioni molli. Ha paura. Mi basterebbe allungare una mano per averla. Il compare però c’ha la grana, scommetto che fa mozzarelle in una delle masserie qui intorno…
Lavato, sbarbato, camicia aperta sul petto nudo e villoso: le folte sopracciglia mi dichiarano maschio, come il pomo d’Adamo pronunciato e il collo da toro. Andiamo, pupa, che t’importa se l’amico protesta? Ciò che sarà fra noi l’ho già deciso e non lo cambio.
Enrico però mi affronta. Non gli vado a genio e manco lui a me. Vecchia ruggine fra noi. Ex pugile e padrone del locale. Ci tiene a quel posto, è logico, c’ha investito tempo e quattrini. Mi urla in faccia e questo mi confonde. Vorrei starmene qui finché il Fico chiude. C’è il vuoto fuori, troppa nebbia. Milena vorrà qualcuno che l’accompagni a casa, aspetteremo in macchina che la nebbia diradi e dopo i baci guadagnerei in pace la strada. La brina ghiaccerà gli stabbi. Badilare, presto, e poi spargere sabbia, ché lo sterco duri.
No, non ce l’ho con tutti, come dicono qui in paese. Non è per la ragazza, è per me. Se non meni le mani nessuno ti dà conto. Enrico lo sa, però mi urla addosso, figlio di puttana! Chino la testa. Can che abbaia non morde, mi ripeto. Gira alla larga, bestia! Così lui mi ha detto, e mi ha sbattuto fuori. Bastardo!
Un peso immane m’ha gonfiato il petto. Mi schiaccia in terra, mi inchioda come un tuono. I miei piedi mi portano nel fosso. Vado ora qui, ora là, come un randagio inquieto, un torvo. Mi basterebbe un goccio per strapparmi dal ventre questo intoppo che mi trascina allo scarto, alla deriva. Com’è che sono finito al casolare? Voglio e non voglio. Non resisto. Devo. A mani nude, scavo nel muretto. Eccole: la 7,65 e anche la mitraglietta. Perché cazzo le tocchi, scemo!? Che le prendi a fare? Ma non è più Roberto che si esprime, non mi riconosco. Qualcun altro dentro me preme e afferra il piombo. Nelle mani scotta. Devo scaricare. Farò vedere adesso che so fare.
S’è fatta pace, intorno. Il peso ora mi lascia respirare. Sale dal basso la nebbia. Distinguo un filare nel campo, e oltre, uno a maggese. Lui è seduto accanto a me, il capo innaturalmente reclinato e la sigaretta che fumava spenta sul pavimento dell’Alfa nero sangue. Ora che tutto è finito, finito per sempre, non posso guardare. Mi fa paura la sua faccia spappolata a grumi, il naso mancante, schizzato chissà dove. Non posso essere stato io a sparargli. Eppure sono stato.
È nebbia e avanzo, alto, massiccio e instabile. Vado dove mi portano le pistole. Loro sanno. Il Fico sta chiudendo, sono rimasti in pochi, quelli giusti. Un movimento e partono tre colpi. Enrico con Ada vanno giù per primi. Poi tocca a Ennio. Le donne strillano e i camerieri si acquattano fra i tavoli. Li tiro fuori a calci e pugni, li faccio inginocchiare sopra i morti. La bifilare ha esploso dieci colpi e cinque in canna sono ancora buoni. Sto per scaricarglieli nei corpi, ma quelli cominciano a supplicarmi a mani giunte. Parole, non capisco quali, preghiere che mi addolciscono la testa, mi rinfrescano le mani. Il piombo li rinnega. Li lascio così, a cagarsi addosso come cani. Corro fuori. C’è un tizio su una Alfa col motore acceso. Apro la portiera d’istinto, sono dentro. Gli ordino di andare. Viaggiamo senza un fiato nella notte verso dappertutto e da nessuna parte. Albeggia. Dico al tizio: accosta! Chiede il permesso di fumare. Glielo dò. Si accende una Marlboro. Si accorge solo all’ultimo della bocca che gli bacia la tempia e gli sputa dentro piombo e fuoco.
Pazzo, direte. Pazzo, assassino, criminale. Mi cercherete in tanti con uniformi, elicotteri e cani. Questo mi piace. Potete giurarci: non mi troverete! Ma se anche mi troverete, non sarò io. Non mi riconoscerete. E come potreste se dal momento che è partito il primo colpo neanche ai miei occhi sono stato più lo stesso? Una cancrena, un tumore, un vortice mi ha strappato dalla realtà. Non vorrete saperne di me. Si ha pietà per i morti, giustamente. Per i morti ammazzati più a ragione. Ma chi mai avrà pietà di questo vivo?
E guardare dalla finestra è una cosa che non facevo mai.
Da ridere, se non fosse da piangere. Da indignarsi, se contro l’ignoranza bastasse l’indignazione. [*]