Gli italiani e la loro innata capacità di passare dalla parte del torto anche quando hanno ragione. [*]
— Borìs Pasternàk, da Amleto
Besprizorney, i bambini orfani e randagi nell’Unione Sovietica tra il 1917 e il 1922, uno dei luoghi inferi del secolo crudele: la Russia dopo l’apocalisse della rivoluzione comunista. Una storia raccontata cucendo in sequenza documenti ufficiali, cronache e testimonianze dell’epoca.
Un dato, il primo, terribile: nel 1922 erano stimati in sei milioni. Una moltitudine. Bambini affamati e malati e organizzati in bande, pronti a tutto pur di non morire di fame, di freddo. Una catastrofe e una tragedia, senza remissione. Sono gli orfani di contadini morti di stenti, che scappano verso sud e le città per sfuggire alla carestia, alla fame, alla morte. Sono i figli dei nemici del popolo spediti ai campi di lavoro o fucilati. Sono russi, tatari, polacchi, ucraini, bielorussi, ciuvasci. Si spostano aggrappandosi ai treni e vivono nelle stazioni, nei cui bui sotterranei dormono, attaccati come disperati ai tubi del riscaldamento. Rubano, mendicano, saccheggiano ‑ quando non uccidono. Si prostituiscono.
Disprezzati e temuti, dal 1935 saranno trattati alla stregua di criminali, quali si atteggiano. Mecacci, in Besprizorney, per i tipi di Adelphi, dosa con sapienza i terribili documenti, le opere letterarie su questi piccoli disperati, che diverranno con sinistra ironia il modello del romanzo di formazione del realismo di regime. Tutto per un libro che è un tassello, prim’ancora che un pugno ben assestato nello stomaco, per una riflessione accantonata: quella sulla orfanilità (Lenin e Stalin erano entrambi orfani precoci), la società (e le famiglie) senza padri.
…e comunque, nel monologo originale Rutger Hauer [*] diceva di aver visto Toninelli a capo di un ministero.
C’è un piccolo cimitero di campagna in uno degli angoli lontani della Russia. Come quasi tutti i nostri cimiteri, ha un aspetto triste: i fossi che lo circondano sono da tempo pieni d’erbacce; le grigie croci di lego si sono piegate e marciscono sotto i loro tetti che una volta erano dipinti; le lastre di pietra sono tutte smosse, come se qualcuno le avesse spinte dal basso: due o tre alberelli magri fanno a malapena una misera ombra; delle pecore vagano indisturbate tra le tombe… Ma tra di esse ce n’è una che l’uomo non tocca e l’animale non calpesta: solo gli uccelli si posano su di essa e cantano, all’alba. Una cancellata di ferro la circonda; due giovani abeti sono piantati alle sue estremità; Evgenij Bazarov è sepolto in questa tomba. Qui, da un piccolo villaggio poco lontano, vengono spesso due vecchi ormai decrepiti, marito e moglie. Sorreggendosi l’un l’atra camminano col loro passo pesante; si avvicinano alla cancellata, si mettono e rimangono in ginocchio, e piangono a lungo, e amaramente, e a lungo e attentamente guardano la muta pietra sotto la quale giace il loro figlio; si scambiano qualche parola, tolgono la polvere dalla pietra, aggiustano il ramo di un abete e si mettono ancora a pregare, e non possono abbandonare questo luogo dove è come se fossero più vicini al figlio, al ricordo di lui… Forse le loro preghiere, le loro lacrime sono infruttuose? Forse che l’amore, il sacro amore fedele non è onnipotente? Oh, no. Per quanto appassionato, peccatore, turbolento sia il cuore nascosto in una tomba, i fiori che crescono su di lei ci guardano serenamente con i loro occhi incolpevoli: non ci parlano solo di una pace eterna, di una grande pace “indifferente” della natura; ci parlano anche di un’eterna riconciliazione, e di una vita infinita…
– Ivan S. Turgenev, Padri e figli (tr. Paolo Nori)
Zoilo, perché sporchi la vasca da bagno lavandoti il culo?
Se vuoi sporcarla di più, Zoilo, mettici dentro la tesa.
– Marziale, da Epigrammi.
…nessuno dei due sembrava pensare al proprio vicino, ma in segreto si rallegrava della sua vicinanza.
— Ivan S. Turgenev, da Padri e figli