Piccolo codice LaTeX che fa uso del package standalone per generare un’immagine. Utile per creare piccoli contenuti matematici per i social [*].
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\begin{document}
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\begin{nothing}
A \emph{group representation} is a group homomorphism
\[
\rho \colon G \longrightarrow GL(V)
\]
from the group $G$ to the general linear group $GL(V)$.
\end{nothing}\end{document}
Il coraggio, il coraggio di fare a pezzi la paura, pezzi piccoli piccoli, e calpestarli, strapazzarli finché gli abiti non cambiano colore per il sudore; il coraggio di ignorare la paura, di prenderla a schiaffi, a calci, a pugni sopra gli zigomi, con le nocche delle mani allineate, pugni forti, decisi a sentire il rumore sordo delle ossa spaccarsi.
Bisogna avere il coraggio di capirla la paura, assecondarla affinché si sveli, provocarla, convincerla a mostrarsi, e solo allora, solo allora, guardarla negli occhi per dirle che lì, oramai, per lei non c’è più posto. Anche quando c’è questa sensazione che pesa sul cuore, questo dolore sordo che s’attacca alla viscere, questa impossibilità di trovare un rifugio, un appiglio, una mezza soluzione. Anche quando tutti gli accorgimenti del mondo non sono affatto sufficienti – ché la malattia, bastarda!, striscia sotto la superficie e si prende il corpo da dentro, come un peso interiore che trascina a fondo, inesorabilmente. E l’acqua scura e pesante avvolge il corpo, le mani e la testa in un vortice profondo. Ecco, sì, anche in queste situazioni, la paura bisogna rimandarla al mittente, rifiutarla, spaventarla, spaccarla, pugnalarla, mortificarla, stringerla forte fino a toglierle il fiato.
Masticala e sputala, deridila, scacciala, umiliala! Sempre. Se ci si vuole salvare, alla paura bisogna avere il coraggio di farle tutto, tranne che scriverne come se esistesse davvero o , peggio ancora, fingere di non averne.
«Ho voluto riportare ancora una volta alla ribalta un certo campionario umano, al quale anche in precedenza mi ero rivolto con interesse e attenzione. È il mondo di tutti i diseredati, dei perseguitati, di coloro che la società calpesta condannandoli a una sorta di morte morale, privandoli anche della loro primitiva innocenza. Sono costoro, appunto, i protagonisti di questa cantata: i drogati, le fanciulle traviate, le vittime della guerra, i condannati a morte, quanti sono caduti nelle panie del male perché non rimaneva loro altra scelta, dopo avere invano atteso dal consorzio umano l’ausilio di un briciolo d’amore. Nelle parole che io metto loro in bocca, essi concludono il loro calvario con una supplica rivolta ai potenti, ai ricchi, a coloro che sulle loro sventure hanno edificato la propria fortuna: abbiate pietà di noi, vostre vittime, affinché “all’ultimo minuto / non vi assalga il rimorso ormai tardivo / per non aver pietà giammai avuto”.»
“Io non mi chiamo Miriam”, dice di colpo un’elegante signora svedese il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia. È da questa rivelazione surreale, da questa verità sfuggita e tenuta segreta per settant’anni, che Majgull Axelsson costruisce un racconto incredibile, il racconto di una ragazzina rom di nome Malika che, sopravvissuta ai campi di concentramento, si finge ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta, durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbruck. Così Malika diventò Miriam, e per paura di essere esclusa, abbandonata a se stessa, o per un disperato desiderio di appartenenza, continuò sempre a mentire, anche quando fu accolta calorosamente nella Svezia del dopoguerra, dove i rom, malgrado tutto, erano ancora perseguitati. Dando voce e corpo a una donna non ebrea, la Axelsson affronta, con rara delicatezza e profonda empatia, uno dei capitoli più dolorosi della storia d’Europa e il destino poco noto del fiero popolo rom, che osò ribellarsi con ogni mezzo alle SS di Auschwitz. Io non mi chiamo Miriam parla ai nostri giorni di crescente sospetto verso l’altro, verso il diverso da noi, interrogandosi sull’identità – etnica, culturale, ma soprattutto personale – e riuscendo a trasmettere la paura e la forza di una persona sola al mondo, costretta nel lager come per il resto della sua vita a tacere, fingere e stare all’erta, a soppesare ogni sguardo senza mai potersi fidare di nessuno, a soffocare i ricordi, i rimorsi, il dolore per gli affetti perduti: “Non si può dire tutto! Non se si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l’intero secolo”.
La nostra società troppo sensibile al pettegolezzo e prontissima a confondere le circostanze in cui ha fine un’esistenza con la stessa intera esistenza.
Tutti morimmo a stento parla della morte. Non della morte cicca, con le ossette; della morte psicologica, morale, mentale che un uomo normale può incontrare durante la sua vita. Direi che una persona comune, ciascuno di noi, forse, mentre vive s’imbatte diverse volte in questo genere, in questo tipo di morte, in questi vari tipi, anzi, di morte, prima di arrivare a quella vera. Così, quando tu perdi un lavoro, quando tu perdi un amico… muori un po’, tanto è vero che devi un po’ rinascere dopo.
– Fabrizio de André, da Anche le parole sono nomadi
Credo che il matrimonio sia cominciato cosí: che mischiammo i libri. Che i volumi di meccanica razionale smisero di stare ciascuno da un lato, lí dove avevano trovato spazio, guardinghi, attenti a ripartire appena non fosse piú stata cosa: e andarono a vivere assieme. (Le nostre prime cene erano tutte cosí, cercavamo di incontrarci nel passato: «Quando tu hai fatto Analisi 2 con Mittone, il suo assistente era Gallo, e tre anni dopo io ho fatto l’esame con Gallo»). Si mischiarono due edizioni diverse dello stesso testo, e si incontrarono i classici di scuola, e due fratelli nati a distanza di un’edizione de La fisica di Berkeley. E furono inventati dei settori: «storia locale», «politica», «poesia», le cui etichette esistevano solo nelle nostre teste, e adesso che lui è morto esistono solo nella mia, perché la morte ha questo di disperato: che si resta unici testimoni di qualcosa, dei patrimoni invisibili, delle giornate spettacolari.