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Il Peso dell’Attesa…

C’è un peso che l’anima porta, non diverso dalla gravità che agisce sul corpo. È silenzioso ma insistente, e quando raccoglie una delusione, sembra moltiplicare il proprio fardello. Non ho bisogno di sapere i dettagli, il “nero su bianco” che ha marcato la tua disperazione. Basta sapere che è lì, come un inquilino sgradito che ha deciso di stabilirsi nei tuoi pensieri.
Le parole, a volte, sono come coltellate. Leggere una verità scomoda è come rimanere trafitti, là dove il cuore era già fragile. E sì, potresti averlo previsto, potresti aver preparato un riparo mentale, ma un colpo atteso non è meno doloroso di uno inatteso. Semplicemente, si ha il tempo di chiudere gli occhi prima dell’impatto. La sensibilità alle delusioni non è un difetto. È una pelle sottile che avverte più intensamente i tocchi, quelli dolci e quelli aspri. E proprio in un periodo amaro, quella pelle sembra perdere la sua difesa, rendendo ogni contatto una possibile ferita.
Ma il tempo ha la sua grazia, anche se non sempre ci appare evidente. Un giorno, quella stessa pelle sottile potrebbe diventare il nostro canale per assaporare la bellezza, per cogliere le sfumature che un cuore indurito non riuscirebbe a percepire. Fino ad allora, affrontiamo il peso, lo sguardo rivolto verso il suolo ma con la consapevolezza che il suolo è solo una parte del tutto. E in quel tutto, c’è spazio anche per l’alleggerimento, per il respiro che arriva quando meno te lo aspetti, rivelando che il peso non è tutto ciò che c’è.
E tu, sì, tu spererai che passi presto, e un giorno passerà, lasciando dietro di sé non l’oblio, ma una forma di saggezza che solo il dolore sa scolpire.

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Tra le vie di Nuoro, nelle ombre delle case e nei volti scavati dai venti sardi, si annida una domanda, antica quanto l’umanità, ma particolarmente penetrante in quel lembo di terra racchiuso tra mare e montagna: “Che significato ha la nostra esistenza?” Salvatore Satta, con la sua opera “Il giorno del giudizio,” ci conduce in un viaggio nei meandri dell’anima sarda, un luogo dove la vita e la morte coesistono in un equilibrio precario, sospeso tra il sacro e il profano.
Il cimitero di Sa ‘e Manca è più di un luogo di riposo per i defunti; è un santuario della memoria, un palcoscenico dove si recita l’epilogo di vite ordinarie. “Pulvis es et in pulverem reverteris” – sei polvere e in polvere ritornerai. In questa frase, Satta sembra trovare un epitaffio universale, non solo per i morti ma per tutti i viventi. Il pessimismo non è tanto una scelta quanto un riconoscimento della dura realtà che avvolge Nuoro, la Sardegna, l’umanità intera. Ma se la dissoluzione è il destino di tutti, che ruolo ha la memoria? Per Satta, la scrittura diventa un atto di resistenza, quasi una rivendicazione del diritto alla memoria – sia come “sforzo del ricordare” che come desiderio “dell’essere ricordati”. In questo, il Manoscritto è un affresco vivente di una comunità, dei suoi sventurati abitanti e delle vicende che li legano in una catena invisibile di vita e di morte. E nella precisione dell’ironia e nella nostalgia di un passato ormai irrecuperabile, c’è un accenno di trascendenza. “La fantasia del gratuito”, come la definisce Satta, è ciò che resta quando tutto il resto svanisce, un lumicino di speranza o forse di senso in un mondo altrimenti arido. Come i fiammiferi spenti che Donna Vincenza custodisce per il suo piccolo Sebastiano, sono i piccoli atti di amore e di memoria che sottraggono al giudizio finale la sua ultima parola.
Non è una risposta definitiva, ma un’apertura, un invito a interrogarsi. E in questo, il libro di Satta non è solo un ritratto di un tempo e di un luogo, ma uno specchio in cui ognuno di noi può vedere riflessa la propria lotta per dare un significato, per quanto effimero, alla nostra fuggevole esistenza.

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Camminare tra le vie del cimitero è un rituale solitario, quasi sacro, di raccoglimento e di silenzi interiori che ci colgono nel più profondo. Le pietre marmoree appaiono come un alfabeto indecifrabile, scritto da mani che non ci sono più, ma che ancora cercano di comunicare con noi attraverso l’eternità dell’assenza.
Lì, tra quei sentieri che si snodano come i corridoi di una biblioteca silenziosa, si sente il peso delle generazioni che ci hanno preceduto. Le vite, interrotte o compiute, viaggiano come sussurri nel vento. Il cimitero, lungi dall’essere un luogo di desolazione, è una cattedrale di storie, un’eco di umanità che ci invita a fermarci, a riflettere.
Il cuore fatica, è vero. Fatica perché in quel luogo, in quella solitudine in mezzo a un pubblico di pietre, ci si confronta con i propri limiti, con il velo sottile che separa la vita dalla morte. Ma fatica anche perché il cimitero è il luogo dove, paradossalmente, la vita trova il suo significato più puro, privo di artifici e orpelli. Camminare per le stradine di quel luogo è come immergersi in un mare di silenzi. Uguali, simmetrici. Eppure, in quella simmetria, c’è qualcosa di unico e irripetibile. Ogni pietra, ogni nome inciso, è un mondo a sé, un universo di emozioni, di amori, di delusioni e di vittorie che soltanto in quel momento di quiete riusciamo a percepire nella sua interezza. E sì, è un richiamo. Un richiamo che a volte pesa come un macigno, altre volte ci accarezza come una brezza leggera. Ma è sempre lì, ad attendere. È come se quelle vie, quei sentieri, ci invitassero a una sorta di dialogo silente con noi stessi, con il nostro passato e con il nostro futuro. Forse è per questo che, nonostante il peso nel cuore e la solitudine che ci avvolge, continuiamo a camminare per le stradine silenziose del cimitero. Perché lì troviamo una specie di redenzione, una comprensione che sfugge alle parole, ma che si insinua, delicata, nei meandri dell’anima. E in quel silenzio, in quell’assenza, ritroviamo frammenti di eternità.

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Maxime Guyon dispiega le ali della sua macchina fotografica sopra l’industria aeronautica e ci regala uno sguardo, libero da retorica, sulle forme e i dettagli che avvolgono il cielo. Sembra come se l’artista abbia voluto scoperchiare il coperchio di una scatola nascosta per anni, lì dove la tecnologia e l’estetica convivono in un matrimonio obbligato ma affascinante. “Aircraft: The New Anatomy” non è un mero catalogo di immagini, ma una messa in scena. Tra i pannelli e i fili di acciaio, si nasconde un pensiero: quello che la forma segue inesorabilmente la funzione, un principio cardine del design, ma qui applicato a un settore dove la forma spesso è confinata alle simulazioni aerodinamiche e ai calcoli ingegneristici. Eppure Guyon ci fa vedere che anche qui, la forma può essere non solo utile, ma bella. Può essere arte. L’opera dialoga con il passato, con quella ‘Nuova Visione’ proclamata da Le Corbusier nel 1935. Allora, l’architetto svizzero visse la macchina volante come il culmine dell’ingegno umano, quasi un’estensione della sua architettura. Oggi, Guyon non vuole che ci fermiamo a quei fasti. Il suo è un invito ad aprire gli occhi sul presente, su una tecnologia che evolve con velocità esponenziale e che, nel suo mutare, pone domande etiche e estetiche sempre nuove.


Il libro è anche un ritratto dell’industria europea, un continente dove l’aeronautica è stata per anni il fiore all’occhiello della tecnologia e dell’ingegneria. Un’elegia discreta per un’industria che rischia di essere sopraffatta da una competizione globale sempre più spietata.


“Aircraft: The New Anatomy” è una riflessione visiva e concettuale, un atto d’amore verso il dettaglio e verso l’ingegno umano, verso quelle piccole parti che, sommate insieme, ci permettono di solcare i cieli. E forse, in questo volo fotografico, c’è anche un monito: che la bellezza e la funzione possono coesistere, ma solo se le guardiamo con occhi nuovi, se ci permettiamo di vedere oltre la mera utilità delle cose. E che, in questo vedere, possiamo ritrovare un senso, una direzione, una rotta.

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Settembre è un mese di contraddizioni. Le foglie iniziano a cambiare colore, suggerendo la fine di un ciclo, mentre gli zaini pesanti sulle spalle degli studenti annunciano un nuovo inizio. Esiste una dissonanza in questo mese, una sorta di ambiguità. È come se il mondo fosse in bilico, in attesa di decidere se cambiare davvero o rimanere fedele alla sua indole statica.
Settembre è una pausa, un respiro profondo prima di un tuffo. Si sente la quiete, quella pausa nell’aria come la battuta d’arresto prima di una sinfonia. Un silenzio che cattura l’essenza dell’incertezza, della speranza, del possibile. Tuttavia, non è solo il mondo esterno che sembra sospendere il respiro; siamo anche noi, gli attori in questo palcoscenico chiamato vita, a fare una pausa, a riflettere. Il ritorno alla routine, quella monotonia confortante e limitante, è reso tollerabile solo dalla speranza di qualcosa di diverso, di nuovo. Settembre ci dà il permesso di sognare, ma al tempo stesso ci incatena alle nostre responsabilità. È come se fossimo costretti a ballare su una fune sospesa tra il passato e il futuro, mai completamente liberi di abbracciare l’uno o l’altro. Si potrebbe dire che Settembre è un mese che ci costringe a confrontarci con le nostre dualità: l’aspirazione e la realtà, l’immobilità e il movimento, la fine e l’inizio. È un mese che evoca la speranza, ma è una speranza prudente, temperata dall’esperienza e dalla saggezza di chi ha già visto troppi settembri passare senza grandi cambiamenti.
Tocca accogliere Settembre con le sue promesse eteree, ma occorre farlo con una cautela misurata, consapevoli che le speranze possono rimanere solo foglie al vento, destinate a cadere, ma anche capaci di nutrire il terreno per un futuro ancora non scritto.

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L’estate è spesso un palcoscenico dove si rappresenta una commedia di leggerezza e spensieratezza. Ma dietro le quinte, nella penombra dove il sole non arriva, c’è un angolo che culla le sfumature più profonde del nostro essere. Una calura che pesa sul cuore tanto quanto sulla pelle, un’aria satura che sembra trattenere le parole prima che diventino suono.
Viaggiare d’estate può essere un atto di autoesilio, un tentativo di mettere distanza tra sé e la familiarità ossessiva della routine. Non è tanto l’altrove geografico a catturare l’attenzione, quanto l’altrove di noi stessi. Lo straniero che vediamo riflesso nelle acque di un mare lontano non è un altro, ma una versione di noi che abbiamo perso o che forse non abbiamo mai conosciuto. Sperimentare l’estraneità da se stessi è un modo per misurare il peso della nostalgia, quella malinconia dolce-amara che è nutrimento per l’anima. E la malinconia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è nemica della vita. È un vino forte che bisogna saper degustare. In essa troviamo l’eco di un desiderio che non si placa mai del tutto, un anelito che non si riduce alla banalità di un bisogno. È il sale che conserva i momenti preziosi e li rende eterni nel loro passaggio effimero.
Quindi sì, la felicità potrebbe essere sopravvalutata, una moneta lucente ma leggera. La malinconia, invece, è una moneta più pesante, temprata nel fuoco delle esperienze e nella forgia dei sogni infranti. È una ricchezza silenziosa che si accumula nell’anima, una sorta di paradiso introspettivo che permette di toccare il divino nella sua forma più umana.
L’estate, con le sue ambivalenze, è forse il periodo più adatto per fare i conti con questi aspetti contrastanti del nostro io. Un tempo sospeso, un’isola nell’arcipelago dell’anno, dove la ricerca di una felicità effimera e la contemplazione della malinconia possono convivere, dialogare, e forse, per un attimo fugace, fondersi.

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“Two Rivers” non è solo un catalogo visuale, è un taccuino di viaggio attraverso il tempo e lo spazio. Immagini, con la forza delle loro mute espressioni, ci trasportano lungo i tortuosi percorsi dell’Amu Darya e del Syr Darya, dove il paesaggio è un palcoscenico di cambiamenti incessanti. Qui, i fiumi non sono semplici corsi d’acqua; sono veicoli di storie, testimonianze di imperi caduti e nazioni nate dal loro crollo.

L’ambizione sovietica di domare questi giganti per alimentare i campi di cotone è un’eco delle antiche conquiste di Alessandro Magno, la cui ombra aleggia ancora su queste terre. Questo desiderio di piegare la natura a fini umani ha un prezzo: l’Aral Sea, un tempo fiorente, è ora un deserto di sale, simbolo inquietante del potere umano di distruggere quanto di più grande esista.

Nella caduta dell’Unione Sovietica, cinque nuovi Stati hanno ereditato un ambiente sfiancato e sistemi economici sull’orlo del collasso. Le frontiere, tracciate con righe dritte su una mappa, ignorano le complicazioni etniche e storiche, lasciando un retaggio di tensioni irrisolte. Queste nazioni giovani ma stanche sono le prossime protagoniste in una storia millenaria, e le loro decisioni forgeranno il prossimo capitolo di questa epopea fluviale.

“Two Rivers” ci mostra un ecosistema in bilico, dove le forze della natura, della storia e dell’economia si intrecciano in una danza precaria. Le fotografie ci invitano a guardare, ma anche a riflettere: su ciò che è stato perduto, su ciò che rimane e su ciò che potrebbe ancora essere salvato. È un viaggio non solo attraverso la geografia, ma anche attraverso la complessità di identità in continuo mutamento.

Il libro è un invito silenzioso ma insistente a interrogarci, a domandarci se i fiumi continueranno a scorrere verso un paradiso perduto o se, nel loro scorrere, ritroveranno un nuovo significato. E in questa indagine, non possiamo fare a meno di specchiarci, di vedere i nostri volti riflessi nelle acque in continua evoluzione.

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Attraverso i vetri sporchi e rotti, la stanza abbandonata offre una prospettiva insolita su una strada pulsante di vita. Qui dentro, ogni cosa sembra aver ceduto al tempo e al degrado. Le pareti, un tempo forse bianche, ora sono un mosaico di sfumature di grigio e marrone. Frammenti di vetro e detriti occupano il pavimento come se fossero gli ultimi residenti di questo luogo dimenticato. Là fuori, la vita non si è interrotta. Auto passano, risate fluttuano nell’aria, e i pedoni si muovono con determinazione o indifferenza, forse ignari del contrasto che si profila così vicino a loro. È un caleidoscopio di suoni e movimenti che sembra beffare la stasi e il silenzio di questo spazio confinato.
Emerge una lotta silenziosa ma pervasiva tra il caos e l’ordine, tra la morte e la vita. Non c’è un chiaro vincitore, solo una continua tensione che ricorda il delicato equilibrio su cui poggia tutto l’essere. Da una parte, la stanza in rovina, quasi un monumento all’entropia e al ciclo ineluttabile della decadimento. Dall’altra, il flusso incessante della vita che va avanti, indomita e indifferente ai confini imposti da pareti scrostate e vetri infranti. Non è un panorama di disperazione, né di speranza. È piuttosto una dimostrazione asciutta dell’ordine universale, un equilibrio che non chiede permesso e non offre spiegazioni. In questa scena di contrasti, entrambi gli elementi trovano la loro giusta collocazione, come se ogni pezzo del mosaico contribuisse al disegno complesso ma coerente dell’esistenza.
La stanza, nonostante la sua abbandonata solitudine, non è veramente separata dalla strada all’esterno. Sono due facce della stessa medaglia, due capitoli dello stesso libro, e in questo riconoscimento, entrambi ricevono una sorta di redenzione tacita. La vita, con tutti i suoi contrasti, continua a tessere la sua trama complessa, ignorando le barriere che sembrano dividerla.

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L’opera fotografica “Camp Oinawa” di Shomei Tomatsu si svela come un lungo sguardo, un arco temporale di quaranta anni che indaga le pieghe e le cicatrici dell’isola di Okinawa. Non è un viaggio in un paesaggio, ma un pellegrinaggio nell’anima di un luogo. Si tratta di 114 attimi catturati, silenziosi e clamorosi al tempo stesso, 60 dei quali resi ancor più vividi dalla cromia. L’obiettivo di Tomatsu non osserva solamente, ma interroga: chi sei Okinawa, isola di confini e di storie incrociate?

Si percorrono le strade da Naha a Kadena, e ogni immagine è un incontro. C’è il mare che confina con la terra, la lingua che si mescola, l’asfalto che si posa sulle radici. Tomatsu cattura l’essenza di una cultura nata dall’ombra della presenza militare americana. E mentre il metallo delle basi riverbera sotto il sole, le persone vivono, ridono, sospirano tra recinti e cieli aperti.

Nelle fotografie si intravede l’ibridità di Okinawa. Eppure, nella sua molteplicità, l’isola rimane sempre ‘l’Altro’, separata dal cuore pulsante del Giappone. È una specie di limbo culturale, un crocevia dove si mescolano il tradizionale e il moderno, l’Oriente e l’Occidente, in un dialogo continuo ma spesso inascoltato. Ma, oltre l’ibridità, c’è il senso di un’alterità profonda, una separazione non solo geografica ma anche spirituale da quel che è il Giappone continentale. Okinawa è come un foglio strappato dal libro della storia giapponese, una pagina su cui sono state scritte parole in un dialetto comprensibile solo a chi ha vissuto il medesimo destino di esilio interiore.

Shomei Tomatsu, con la sua macchina fotografica, fa più che documentare: apre finestre su mondi complessi, introduce domande senza fornire risposte semplici. E forse non ci sono risposte semplici da dare, ma solo altri sguardi da incrociare.

“Camp Oinawa” non è un epilogo, è un’interrogazione continua. Come le onde che lambiscono le coste di Okinawa, è un movimento perpetuo di ricerca e di scoperta, una narrazione aperta che invita a guardare, a pensare e, infine, a comprendere.

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