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Henri Cartier-Bresson…

Henri Cartier-Bresson, dunque. Il suo sguardo penetrava nel tessuto complesso del mondo, sfiorando la vita che vi pulsava. Come un acrobata sulla scena di un teatro, si muoveva agilmente tra le emozioni e le narrazioni che si svelavano davanti a lui. In ogni attimo, coglieva la danza perpetua della realtà, con una delicatezza che solo un pittore sapeva offrire.

Come un maestro artigiano che plasma l’argilla, Cartier-Bresson manipolava la luce e l’ombra con la sua macchina fotografica. Conferiva alla sua opera un senso di profondità e un’intensità che andava oltre il semplice scatto. Era un pittore dei momenti, un’anima in costante ricerca di quella “istantanea decisiva” in cui l’universo si rivelava nella sua purezza.

Egli credeva fermamente nella verità autentica che la fotografia poteva trasmettere. La sua lente era una finestra aperta sul mondo, un oblò verso la vita che trascorreva inarrestabile. Attraverso il suo obiettivo, le storie si svelavano come frammenti di un mosaico, dipinti con pennellate di luce e composizioni armoniose.

Cartier-Bresson si immerse nell’esistenza umana con uno sguardo comprensivo. La sua fotografia era un riflesso fedele dell’animo umano, con tutte le sue gioie e dolori, con tutte le sue contraddizioni e ironie. In ogni scatto, catturava l’essenza di un momento, sospeso nell’eternità di un’immagine. E in ogni sorriso, in ogni sguardo, il suo occhio attento coglieva la poesia nascosta di una realtà inaspettata.

Come il pittore che traccia le linee sul telaio bianco, Cartier-Bresson definiva i confini del suo quadro con un’abilità innata. Le sue composizioni erano equilibrate e suggestive, come una sinfonia silenziosa che si dispiegava nell’immaginazione dello spettatore. Nelle sue fotografie, ogni dettaglio aveva un ruolo ben preciso, ogni elemento faceva parte di un disegno più ampio, una rappresentazione che univa realtà e poesia in un unico sguardo.

E così, Cartier-Bresson abbandonò i pennelli per abbracciare l’arte della fotografia. La sua scelta non fu casuale, ma dettata dalla profonda connessione che egli sentiva con il momento fugace, con l’energia vitale che pulsava nel cuore del mondo. La sua fotografia era il frutto di una passione travolgente, un amore incondizionato per la bellezza autentica che solo l’istantanea decisiva poteva rivelare.

Henri Cartier-Bresson, un maestro dell’occhio e dell’anima, ha lasciato un’eredità preziosa. Attraverso le sue immagini, possiamo ancora sentire il battito del tempo, le risate e le lacrime, la grandezza e la fragilità dell’esistenza umana. Le sue fotografie sono testimoni mutevoli di una realtà effimera, un tesoro di emozioni catturate nell’eternità di un attimo.

Cartier-Bresson non si limitava a documentare la vita, ma la interpretava con la sensibilità di un poeta. Le sue immagini trasudano un senso di rispetto per l’umanità, una profonda consapevolezza della nostra complessità e delle nostre contraddizioni. In ogni scatto, emergono le tracce della storia che si svolgeva attorno a lui, il respiro di un’epoca immortalato con maestria.

La sua ricerca dell’istantanea decisiva richiedeva una pazienza incommensurabile e una prontezza di riflessi affinata nel tempo. Era un cacciatore di emozioni, un osservatore silenzioso che si fondava nell’ambiente circostante, in attesa del momento in cui la vita si svelava in tutta la sua pienezza. E quando quel momento arrivava, Cartier-Bresson lo catturava con un gesto rapido e preciso, con una maestria che sfidava il tempo stesso.

Le sue fotografie trasmettono una profonda umanità, un senso di connessione universale che supera le barriere linguistiche e culturali. Ogni immagine è un invito a guardare oltre le apparenze, a indagare la complessità dell’esistenza umana. I suoi soggetti erano persone comuni, protagoniste di storie anonime che egli elevava alla dignità dell’arte. In ogni volto, in ogni gesto, emergeva la profondità delle emozioni umane, e noi, spettatori delle sue opere, ci troviamo a riflettere sulla nostra stessa condizione.

Cartier-Bresson era un maestro della composizione, sapendo come disporre gli elementi all’interno del suo quadro per creare armonia e equilibrio. Le sue immagini erano un balletto visivo, in cui ogni elemento contribuiva alla narrazione complessiva. La luce, l’ombra, le linee e le forme si fondono in un linguaggio visivo potente, che trascende le parole e raggiunge direttamente il cuore dello spettatore.

La sua eredità è un invito a guardare oltre la superficie delle cose, a cogliere la bellezza e la poesia che risiedono nel mondo che ci circonda. Cartier-Bresson ci ricorda che ogni momento è prezioso, che ogni istante fugace può raccontare una storia unica. Attraverso la sua fotografia, possiamo scoprire la magia celata nella banalità quotidiana e riscoprire l’essenza stessa dell’umanità.

Henri Cartier-Bresson, un artista che ha saputo cogliere la vita in tutta la sua autenticità, continua a ispirare e a insegnarci l’importanza di abbracciare il presente, di essere testimoni attenti del flusso ininterrotto di emozioni e momenti che costituiscono la nostra esistenza.

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Sul crinale dell’Appennino emiliano, tra le brume invernali e le nevi che ricoprono la terra come un lenzuolo immacolato, s’innalza la voce di una storia che profuma di umanità e di dolore, una storia che racconta la vita di Martina e della sua gente nel cuore della seconda guerra mondiale. “L’uomo che verrà” è un canto d’amore alla terra, un inno alla vita che resiste e che si rinnova nonostante il turbine della guerra che avvolge il paese come un fiume in piena.

Le immagini del film, come tratti di matita su carta, disegnano con delicatezza e precisione i contorni di un mondo rurale che vive al ritmo delle stagioni e delle fatiche quotidiane: le mani che lavano i panni, le dita che intrecciano le ceste, la lama che squarcia la carne del maiale. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni sospiro è parte di un mosaico che racconta la vita contadina e il suo fragile equilibrio, sospeso tra la tenerezza e la brutalità degli eventi storici.

La regia di Diritti, come un sarto che cuce con cura il tessuto della narrazione, si adagia sulle spalle dei suoi personaggi, molti dei quali interpretati da volti autentici e non professionisti, e li accompagna nei loro percorsi di dolore e di speranza. Le voci, i silenzi e i sussurri di Martina e dei suoi compagni di viaggio creano una sinfonia di umanità che risuona nelle valli e nelle colline dell’Appennino, un canto di resistenza e di rinascita che si leva contro l’oscurità della guerra.

Nella colonna sonora, le note di Marco Biscarini e Daniele Furlati si fondono con le immagini e le emozioni del film come gocce d’acqua che si uniscono a formare un fiume impetuoso e indomabile. La musica accompagna il racconto e si insinua nel cuore dello spettatore, come un respiro profondo e ininterrotto che lega il passato al presente e l’uno all’altro.

L’ombra della strage di Marzabotto si stende sul paesaggio come un sipario di piombo, eppure la luce della vita e della resistenza non si spegne mai del tutto, neppure nei momenti più bui. La figura eroica e coraggiosa di don Fornasini, il parroco che protegge e soccorre i suoi fedeli nel cuore della tempesta, è un faro che guida Martina e gli altri sopravvissuti attraverso il buio, una stella che brilla nel firmamento della memoria e che illumina ancora oggi le pagine di questa storia.

“L’uomo che verrà” è un film che sa parlare all’anima, che sa toccare le corde più profonde dell’umanità e che sa raccontare con passione e sensibilità la storia di un popolo che lotta e si rialza, come un albero che sfida il vento e si radica ancor più saldamente nel terreno. Nelle pieghe di questo racconto, si ritrovano le tracce di un passato che ancora ci interpella, di una memoria che non può essere dimenticata e che continua a risuonare come un eco nelle nostre vite.

La vicenda di Martina, della sua famiglia e dei suoi vicini diventa così il simbolo di un’intera comunità, di un popolo che, nonostante la violenza e la ferocia della guerra, non smette di cercare il calore dell’amore e della solidarietà. La rinascita di Martina, la sua lenta riconquista della parola, è il segno di un’umanità che non si arrende e che trova, nelle sue radici e nelle sue tradizioni, la forza per guardare avanti e per tessere un nuovo inizio.

Le colline emiliane, con i loro colori e i loro profumi, diventano il palcoscenico di una storia che è, al tempo stesso, universale e intimamente personale. La natura si fa specchio delle emozioni e delle vicende dei personaggi, riflettendo le loro paure e le loro speranze, i loro desideri e le loro rinunce.

“L’uomo che verrà” è un film che, in uno stile evocativo e lirico, riesce a toccare le corde dell’anima e a far riflettere sulle conseguenze della guerra, sulla tenacia della vita e sulla responsabilità di non dimenticare il passato. È un’opera che si fa custode di una memoria collettiva e che, con la sua voce, si unisce al coro delle storie che ancora oggi risuonano nelle valli e nelle montagne dell’Appennino, come un canto di speranza e di resistenza, di dolore e di rinascita.

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Creare un segnale acustico con frequenza variabile può essere utile in molte situazioni, come ad esempio la calibrazione dell’audio o la creazione di effetti sonori. In questo articolo, esploreremo come generare un segnale acustico che varia linearmente tra 20 Hz e 20.000 Hz utilizzando Python e la libreria sounddevice. Spiegheremo anche il funzionamento del codice, che può essere facilmente modificato per adattarsi alle esigenze specifiche del progetto.

Per iniziare, è necessario installare le librerie sounddevice e numpy. Queste librerie possono essere installate utilizzando pip:

pip install sounddevice numpy

Di seguito è riportato il codice completo in Python per generare un segnale acustico con frequenza variabile tra 20 Hz e 20.000 Hz:

import numpy as np
import sounddevice as sd
import time

sample_rate = 44100  # Campioni al secondo
duration = 0.1  # Durata di ogni suono in secondi
freq_start = 20  # Frequenza iniziale in Hz
freq_end = 20000  # Frequenza finale in Hz
num_steps = 100  # Numero di passi tra la frequenza iniziale e finale

def generate_tone(freq, duration, sample_rate):
    num_samples = int(sample_rate * duration)
    t = np.linspace(0, duration, num_samples, False)
    signal = 0.5 * np.sin(2 * np.pi * freq * t)
    return signal.astype(np.float32)

def play_signal(signal, sample_rate):
    sd.play(signal, sample_rate)
    sd.wait()

for i in range(num_steps):
    freq = freq_start + i * (freq_end - freq_start) / num_steps
    print(f"Frequenza: {freq:.2f} Hz")
    signal = generate_tone(freq, duration, sample_rate)
    play_signal(signal, sample_rate)
    time.sleep(0.05)

Spiegazione del codice:

  1. Importazione delle librerie: Importiamo le librerie numpy per le operazioni matematiche, sounddevice per l’output audio e time per gestire le pause tra i suoni.
  2. Definizione dei parametri: Definiamo alcuni parametri come il sample rate (campioni al secondo), la durata di ogni suono, le frequenze iniziale e finale, e il numero di passi tra le frequenze.
  3. Funzione per generare il segnale sinusoidale: Questa funzione genera un segnale sinusoidale con la frequenza, la durata e il sample rate specificati come input. Calcoliamo il numero di campioni necessari per la durata specificata, generiamo un array di valori di tempo e, infine, calcoliamo il segnale sinusoidale con la frequenza specificata. Il segnale viene convertito nel formato float32 e restituito.
  4. Funzione per riprodurre un segnale: Questa funzione utilizza la libreria sounddevice per riprodurre il segnale audio fornito con il sample rate specificato. La funzione sd.wait() attende la fine della riproduzione del suono.
  5. Riproduzione del segnale acustico e visualizzazione della frequenza: In un ciclo for, calcoliamo la frequenza corrente linearmente interpolando tra freq_start e freq_end. Visualizziamo la frequenza corrente, generiamo il segnale sinusoidale con la funzione generate_tone e lo riproduciamo con la funzione play_signal. Infine, mettiamo in pausa il programma per 0,05 secondi (time.sleep(0.05)) prima di passare al passo successivo.
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Spatium…

Tra i pittori che ammiro, Marc Chagall, nato Moishe, occupa sicuramente un posto di rilievo. Fin da bambino desiderava dipingere, ma era povero ed ebreo, in una cittadina ostile dell’Impero Russo. Nei suoi diari, si possono leggere i suoi sforzi per imparare, caratterizzati da uno spirito critico e da un forte desiderio di indipendenza.

I suoi primi incarichi retribuiti furono immagini pubblicitarie per negozi, quali insegne colorate appese al mercato, davanti a macellerie o fruttivendoli. Per Chagall, questa fu la sua prima esposizione, all’aperto e anonima. Il suo apprendistato continuò a San Pietroburgo, Parigi e poi negli Stati Uniti come profugo di guerra. Fu un percorso lungo e laborioso.

Credo fermamente nella necessità di un graduale avvicinamento dell’artista alla sua arte. Non credo nel talento come scorciatoia allettante, poiché può ostacolare e arrestare lo sviluppo con l’illusione di possedere un dono. Quello che si possiede è una vocazione che può coincidere con una totale dedizione all’opera, come accadde per Cézanne.

Il cinema italiano del dopoguerra raggiunse livelli eccellenti grazie alla vasta esperienza teatrale dei suoi protagonisti. Oggi, l’accesso immediato alla visibilità attraverso gli schermi illuminati annulla la progressione graduale verso l’espressione artistica, dando un falso senso di gratificazione e autoinganno.

Un proverbio delle mie parti dice che ci vuole tempo e pazienza per far maturare le nespole. È necessario anche prendere il largo. In latino, “spatium” significa sia la misura di uno spazio che la durata del tempo. Chagall riempì la sua arte con questa doppia dimensione spaziale e temporale.

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Il dubbio…

“Il dubbio” è un film che affronta con grande delicatezza e intelligenza il tema degli abusi sessuali all’interno della Chiesa cattolica. Il regista, John Patrick Shanley, presenta una narrazione che solleva interrogativi non solo sulla presunta colpevolezza del Padre Flynn (interpretato da Philip Seymour Hoffman), ma anche sulla natura della verità e sulla tensione tra potere, tradizione e modernità all’interno dell’istituzione religiosa.

Al centro del film c’è una potente dinamica di contrasto tra Suor Aloysius (Meryl Streep) e Padre Flynn, che va ben oltre una semplice disputa ideologica: il regista, infatti, si concentra molto sui loro comportamenti quotidiani – i loro pranzi, le loro interazioni in classe, il modo in cui parlano – per evidenziare i loro diversi modi di vedere e vivere la vita.

Il film si svolge all’ombra del Concilio Vaticano II, un momento di profondi cambiamenti nella Chiesa cattolica, e Shanley sembra interessato a esplorare il modo in cui queste spinte verso la modernità (la penna a biro, ad esempio, o, ancora, la radiolina a transistor) si scontrano con le rigide tradizioni e regole dell’istituzione. L’istituto è un luogo chiuso e severo, ma è anche un luogo dove le pressioni della modernità libertaria iniziano a farsi sentire.

Tuttavia, il vero cuore del film è il tema del dubbio. Il regista, sapientemente, presenta una serie di indizi ambigui che potrebbero suggerire che Padre Flynn sia colpevole, ma non offre mai una risposta definitiva. Suor Aloysius è presentata come una figura di autorità moralmente sicura, ma anche lei è sconvolta dal dubbio, in particolare nel finale potente e sconvolgente del film.

Shanley, a ogni buon conto, potrebbe non aver bilanciato perfettamente queste due verità contrastanti. Mentre l’ambiguità del Padre Flynn è ben delineata, Suor Aloysius sembra restare una figura di ferma convinzione fino al suo crollo finale. Questa discrepanza potrebbe aver impedito al film di realizzare pienamente il suo potenziale nel sondare le profondità del dubbio e dell’incertezza.

Ciò nonostante, “Il dubbio” rimane un film profondamente coinvolgente e provocatorio. Le interpretazioni di Streep e Hoffman sono eccellenti, e la regia di Shanley, sebbene non perfetta, riesce comunque a creare un’atmosfera tesa e suggestiva. Il film invita alla riflessione su temi delicati e importanti come gli abusi sessuali perpetrati dal clero e il potere corrotto all’interno delle istituzioni religiose, facendolo con un approccio maturo e ponderato che evita il sensazionalismo.

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Perché qui, il dolore, è una costante.

“Il Colibrì”, l’emozionante opera di Sandro Veronesi, offre un’immersione profonda nel tumulto dell’esistenza umana. Questo intricato affresco letterario dipinge la vita di Marco Carrera, figlio dell’alta borghesia fiorentina, un uomo che, nonostante le sue personali sfide fisiche, incarna l’essenza della resilienza e del coraggio.

Nel cuore di questo romanzo, la metafora del colibrì si fa portavoce di una potente simbologia: l’uccellino che batte le ali con fervore per rimanere fermo, diventa un emblema di tenacia e resistenza, un faro di forza interiore nel tumulto delle tempeste della vita.

Ma il mondo di Marco si frantuma quando sua moglie Marina chiede il divorzio, portando in grembo il figlio di un altro uomo. Eppure, come il colibrì, Marco rimane saldo, ancorato nei suoi valori, un monolite di tenacia e coraggio nell’oceano delle avversità.

Attraverso una scrittura che oscilla tra rapidità e risolutezza, caos e delicatezza, Veronesi traccia il percorso di vita di Marco. La storia del protagonista si intreccia con la nostra, in un balletto intricato di sfortune, malattie, perdite, lutti e amore (quello per Luisa) incondizionato.

Verso la fine, “Il Colibrì” ci conduce verso un capitolo finale di amara dolcezza. Marco, avendo vissuto il tormento della morte lenta del padre a causa di un tumore, prende una decisione estrema ma di una nobiltà straziante. Scopertosi ammalato, decide di praticare l’eutanasia, non per sé, ma per proteggere le persone a lui più care dal dolore della sua possibile sofferenza. Questo gesto finale di sacrificio è un ulteriore richiamo alla forza e alla resistenza del colibrì, e un esempio straordinario della profondità dell’amore di Marco per coloro che lo circondano.

“Il Colibrì” è una sinfonia di emozioni, un viaggio attraverso il dolore e la gioia, la sconfitta e la vittoria, la morte e la vita. Non si tratta solo di un romanzo, ma di un’ode alla resistenza umana, all’amore incondizionato e alla nobiltà del sacrificio. È un’opera che lascerà un’impronta indelebile nell’anima del lettore; un libro capace di invitare alla riflessione, che scava nell’intimo e che non teme il dolore. Perché qui, il dolore, è una costante.

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Aveva un occhio straordinario per i dettagli

Levitt aveva un occhio straordinario per i dettagli, per le piccole cose che molti di noi non noterebbero mai. Questo, combinato con il suo profondo amore per le persone e la sua comprensione della vita di strada, ha reso il suo lavoro un vero capolavoro.

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… a una velocità impressionante.

Mi sono ritrovato a riflettere sulla velocità stupefacente con cui le cose possono cambiare. Solo sei mesi fa, i membri del Movimento Cinque Stelle erano ancora al governo, e meno di sei anni fa, erano riusciti a vincere le elezioni con promesse audaci di eliminare la povertà, estirpare la corruzione e instaurare un’etica popolare salda.

Pensavo a come Benedetto Croce affermava che la vera moralità, quella autentica e ponderata, non teme di interagire con la realtà e utilizza la vita per migliorarla. In contrasto, un moralismo vuoto, e ancor più un moralismo estremamente vuoto, come mi piace aggiungere, porta a una vita più povera – e lo fa con una rapidità sorprendente.

Mentre mi perdevo in queste riflessioni, nel fluido magma della rete, un video di Danilo Toninelli è apparso davanti ai miei occhi. Un breve filmato in cui rideva sarcasticamente per la nomina di Renato Brunetta alla presidenza del Cnel. Ricordavo di aver letto un articolo de Il Messaggero che parlava del suo ritorno a Brescia per lavorare come assicuratore.

Altri nomi del Movimento mi venivano in mente: Luigi Di Maio, che sembrava pronto a riprendere il suo ruolo politico come inviato nel Golfo per l’Unione Europea. Alessandro Di Battista, che aveva deciso di creare un movimento tutto suo. Alfonso Bonafede, che era ritornato a esercitare la professione legale.

E infine, Beppe Grillo, l’ultimo soggetto di pettegolezzi, per cui si diceva che Giuseppe Conte non avesse intenzione di rinnovare il suo contratto annuale da 300.000 euro per sporadiche apparizioni sul suo blog.

E così, il quadro di un’epoca era completato, una foto di squadra che mostrava dove si trovavano ora tutti i suoi membri. E tutto questo, si era svolto a una velocità impressionante.

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