≡ Menu

un ponte tra l’essere e l’apparire…

Sebastião Salgado, pescatore di storie, intagliatore di vite nel bianco e nero della pellicola, esplora le fessure del mondo, cattura i respiri di anime celate. Si muove tra i contorni della terra, scolpisce con luci e ombre le trame di esistenze in bilico, fra sofferenza e speranza, fra la fatica del lavoro e la resistenza dello spirito.

Le sue mani, artigiane di immagini, tessono racconti di vite che lottano e sognano tra le rovine e i rinnovamenti, tra le disuguaglianze e le resilienze. In lui risiede l’urgenza di raccontare, la necessità di donare voce a coloro che nel ronzio del mondo sono rimasti in silenzio.

Le sue immagini, incise sulle pagine dell’umanità, sono la melodia del mondo, un’eco di volti e luoghi che risuona dalle favelas alle foreste, dai deserti alle metropoli. Non sono solo sagome impresse su carta, ma storie sussurrate, testimonianze che solcano l’aria, brezze di consapevolezza che accarezzano chi si lascia toccare.

Salgado non è solo l’artista che tramuta la realtà in arte, è l’umile narratore che si fa tramite, un ponte tra l’essere e l’apparire. Come un pittore, modella con luci e ombre, svelando il non detto, il celato, l’ineffabile. Con la precisione di un orologiaio e la sensibilità di un poeta, incide storie nella pellicola, donando forma all’impalpabile.

Ecco, quindi, le implicazioni sociali e culturali di un lavoro che non si limita a raffigurare il reale, ma che lo rielabora, lo sfida, lo ridefinisce. Salgado non si limita a ritrarre il mondo, ma lo disvela, lo interroga, lo reinventa. Le sue immagini sono domande che volano nel vento, semini di dubbi che fioriscono in chi guarda, spunti di riflessione che vibrano nell’anima.

Non è solo un artista, Salgado. È un testimone che narra storie inascoltate, un’eco che propaga l’urlo dell’umanità. In un mondo troppo spesso indifferente e disumanizzato, il suo lavoro risplende come un faro di speranza, un inno all’umanità, un grido che risveglia la coscienza. Così, tra luci e ombre, Salgado tesse la sua melodia, la sinfonia della vita che risuona nel silenzio, un inno alla bellezza celata nel quotidiano.

{ 0 comments }

La politica che custodisco nella memoria ha sempre danzato sulle note dello stesso brano: il vincitore si prende tutto, l’altro, se fortunato, ottiene le briciole inavvertitamente dimenticate. Un dono gratuito? No, piuttosto un gesto di presunta benevolenza, un mero espediente per abbellire l’immagine del dominante, per far sembrare di concedere qualcosa all’opposizione o alla minoranza interna. Ecco la simulazione di un ecumenismo, utile a lasciare una porta aperta per quando le sorti si invertiranno, perché si sa, la ruota della fortuna non smette mai di girare.

La mia voce non si unirà a quelle di coloro che si indignano per le grinfie sulla città. E’ il solco tracciato dalla storia. Mi ritorna in mente l’eco bellica di Cesare Previti negli anni Novanta, «se vinciamo questa volta non faremo prigionieri», parole forti, immagini di morte scolpite dalle parole. Ma chi emerge vittorioso dal campo di battaglia politico ha sempre saputo scegliere: ha colto ciò che desiderava, trascurato ciò che non contava.

Tuttavia, il ventre insaziabile dell’onnivoro potere politico richiede un conclave, un consesso di eguali, nodi di una stessa rete che appoggiano le decisioni, si sentono coautori di esse. L’arroganza e le decisioni unilaterali generano un vuoto intorno, un isolamento che diventa più amaro se sono gli alleati minoritari a sentirsi esclusi. Questo tipo di autoritarismo è una scelta rischiosa: da un avversario sai come difenderti, ma un alleato è un ospite nel tuo salotto, conosce i tuoi segreti.

Giorgia Meloni sembra camminare su questo sentiero: tutte le strade sono sue, come dichiarava la Regina ad Alice. Ma conosciamo la fine della storia. La strada intrapresa dal leader politico, che si muove con la testa alta, lo sguardo fisso verso l’obiettivo, conduce a un isolamento progressivo. Il potere richiede alleati fidati, e l’adesione dell’elettorato non è sufficiente.

È il futuro che avrà l’ultima parola, che ci dirà se il cerchio ristretto di parenti e collaboratori di Meloni sarà abbastanza forte da garantirne la sicurezza politica.

Tuttavia, emergono alcuni interrogativi, ombre che meritano luce. Il concetto di violenza, per esempio, ha bisogno di essere riscritto: non è la stessa cosa protestare a parole o usare la forza fisica. Ascoltare Giorgia Meloni promettere di “liberare la cultura dal potere intollerante della sinistra” solleva interrogativi, se i riferimenti culturali alternativi sono legati a razza, etnia, o radici italiche.

Ecco la questione di fondo: il governo di un paese non è un gioco di scacchi o una partita a carte. Sarebbe ideale che le figure chiave nella cultura, nella supervisione, nelle aziende municipali fossero guidate da persone competenti, persone dotate di un curriculum adatto, abituate a sfogliare i libri, a passare esami con buoni risultati. Più che una questione di destra o sinistra, si tratta di un problema di competenza. Il mantra di non fare prigionieri presuppone che si abbia a disposizione una classe dirigente capace di prendere il posto di quella eliminata senza compromettere il funzionamento del sistema. Una classe dirigente. Una sola Regina non basta. Specialmente se non può contare nemmeno sui suoi ministri (benché meno sui suoi alleati).

{ 0 comments }

La fotografia di strada, di quella schietta e sincera, nasce dalla necessità di imprigionare la vita nel suo vero volto: senza maschere, senza ornamenti, solo la sua reale essenza. È il riflesso di un istante, catturato nel tempo, riassunto in uno scatto: una testimonianza di emozioni, contrasti, bellezza e spesso, anche di bruttezza.

Il suo germe si annida nel cuore del XIX secolo, quasi a segnare il battito stesso dell’arrivo della fotografia. I primi balbettii di questo linguaggio artistico si ritrovano nei tracciati di luce lasciati da pionieri come Eugène Atget, che fissava sulla pellicola i visi e le voci mute della Parigi di strada. E poi, nel fragore del Novecento, l’arte si fece strada, si fece vita, si fece testimone del suo tempo. Nomi come Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, e Brassai divennero le nuove chiavi di lettura della realtà, scavando solchi profondi nel terreno della fotografia documentaria e del fotogiornalismo.

L’incidenza sociale di questo stile artistico non è mai stata trascurabile. Ha sempre rappresentato una lente d’ingrandimento sul tessuto sociale e culturale di un luogo, di un’epoca. Capace di far emergere le disuguaglianze, le ingiustizie, ma altrettanto di celebrare le piccole gioie quotidiane, l’umanità in tutte le sue sfumature.

Il suo tratto distintivo, la sua unicità, risiedono nel qui e ora, nell’attimo che fugge, nel caso che diventa disegno. Nessun set preconfezionato, nessuna luce artefatta, nessun soggetto in posa. Tutto è spontaneo, reale, e l’abilità del fotografo è tutta nel saper cogliere quel frammento di eternità che Henri Cartier-Bresson avrebbe definito “decisive moment”, il momento decisivo.

Grandi interpreti di questa arte, come Vivian Maier e Garry Winogrand, hanno poi innalzato il genere a nuove vette, rendendo le loro fotografie vere e proprie narrazioni, specchi della società, finestre sull’umanità.

Ma la fotografia di strada, come un fiume in piena, non si lascia facilmente incanalare in definizioni troppo rigide. È un’arte in divenire, in continuo mutamento, che si adegua al fluire della società e della tecnologia. Un racconto della realtà scritto in un linguaggio universale, quello del chiaroscuro.

Nel raccontare di fotografia, si potrebbe quasi parlare di montagne senza mai citarne il nome. Non si descrivono soltanto le cime e i crinali, ma se ne svela l’anima, il respiro, la voce. Così è per la fotografia di strada: non sono solo immagini, ma storie, emozioni, frammenti di vita intrappolati in un attimo e destinati a perdurare nel tempo.

{ 0 comments }

SwiftUi e le notifiche a tempo…

SwiftUI, il framework di sviluppo dell’interfaccia utente di Apple, ha semplificato la creazione di app iOS. In questo articolo, esploreremo un’applicazione SwiftUI che calcola un orario futuro in base ai valori di ore, minuti e secondi inseriti dall’utente, e invia una notifica al raggiungimento di quel tempo.

La nostra applicazione avrà un’interfaccia utente semplice ma funzionale, che consiste in tre campi di testo per l’input dell’utente (ore, minuti e secondi), un pulsante per avviare il calcolo dell’orario futuro e un campo di testo per visualizzare l’orario calcolato.

Inoltre, una volta raggiunto l’orario futuro calcolato, l’app invierà una notifica al dispositivo, riproducendo il suono di notifica predefinito del sistema.

ContentView

ContentView è la view principale dell’app. Contiene l’interfaccia utente e la logica per calcolare l’orario futuro.

I campi di testo TextField per le ore, i minuti e i secondi sono associati a variabili di stato (hours, minutes, seconds). Grazie al binding in SwiftUI, ogni modifica ai TextField viene automaticamente riflessa nelle rispettive variabili.

Il pulsante “Calcola Orario”, al click, avvia la funzione addTime(), che gestisce il calcolo dell’orario futuro e la programmazione della notifica.

Infine, l’orario futuro calcolato viene visualizzato in un elemento Text.

addTime()

La funzione addTime() gestisce il calcolo dell’orario futuro. Prima di tutto, estrae i valori dalle variabili di stato e li converte in interi. Se nessun valore viene inserito, imposta un valore di default di 0 per le ore e i minuti, e 1 per i secondi.

Successivamente, utilizza questi valori per calcolare l’orario futuro, aggiungendoli all’orario corrente. Infine, formatta l’orario futuro in una stringa e lo assegna a futureTime.

La funzione addTime() chiama anche scheduleNotification(), passando l’orario futuro, per programmare la notifica.

requestNotificationPermission()

All’avvio dell’app, viene richiesta l’autorizzazione per inviare notifiche. Questo viene gestito da requestNotificationPermission().

scheduleNotification()

La funzione scheduleNotification() gestisce la creazione e la programmazione della notifica.

Crea un UNMutableNotificationContent, che rappresenta il contenuto della notifica, e imposta il titolo e il suono della notifica.

Crea un UNTimeIntervalNotificationTrigger che farà scattare la notifica all’orario futuro, e infine aggiunge la richiesta di notifica al UNUserNotificationCenter.

Di seguito si riporta il codice completo per la App

import SwiftUI
import UserNotifications
struct ContentView: View {
    @State private var hours: String = ""
    @State private var minutes: String = ""
    @State private var seconds: String = ""
    @State private var futureTime: String = ""
    var body: some View {
        VStack {
            Text("Inserisci ore, minuti e secondi:")
            TextField("Ore", text: $hours)
                .keyboardType(.numberPad)
                .padding()
            TextField("Minuti", text: $minutes)
                .keyboardType(.numberPad)
                .padding()
            TextField("Secondi", text: $seconds)
                .keyboardType(.numberPad)
                .padding()
            Button(action: {
                addTime()
            }) {
                Text("Calcola Orario Futuro")
                    .padding()
                    .background(Color.blue)
                    .foregroundColor(.white)
                    .cornerRadius(10)
            }
            Text("Orario futuro: \(futureTime)")
                .font(.system(size: 12))
                .fontWeight(.bold)
                .padding()
        }
        .padding()
        .onAppear(perform: {
            requestNotificationPermission()
        })
    }
    func addTime() {
        let h = Int(self.hours) ?? 0
        let m = Int(self.minutes) ?? 0
        var s = Int(self.seconds) ?? 0
        if h == 0 && m == 0 && s == 0 {
            s = 1
        }
        let currentTime = Date()
        let future = Calendar.current.date(byAdding: .hour, value: h, to: currentTime)
        let future1 = Calendar.current.date(byAdding: .minute, value: m, to: future ?? currentTime)
        let futureDate = Calendar.current.date(byAdding: .second, value: s, to: future1 ?? currentTime) ?? Date()
        let formatter = DateFormatter()
        formatter.dateStyle = .none
        formatter.timeStyle = .medium
        futureTime = formatter.string(from: futureDate)
        scheduleNotification(futureDate)
    }
    func requestNotificationPermission() {
        UNUserNotificationCenter.current().requestAuthorization(options: [.alert, .sound, .badge]) { success, error in
            if success {
                print("All set!")
            } else if let error = error {
                print(error.localizedDescription)
            }
        }
    }
    func scheduleNotification(_ date: Date) {
        let content = UNMutableNotificationContent()
        content.title = "Alert Time!"
        content.sound = UNNotificationSound.default
        let interval = date.timeIntervalSince(Date())
        let trigger = UNTimeIntervalNotificationTrigger(timeInterval: interval, repeats: false)
        let request = UNNotificationRequest(identifier: UUID().uuidString, content: content, trigger: trigger)
        UNUserNotificationCenter.current().add(request)
    }
}
struct ContentView_Previews: PreviewProvider {
    static var previews: some View {
        ContentView()
    }
}

{ 0 comments }

Come una piuma che danza nell’aria, così la macchina fotografica di Tony Ray-Jones tracciava il ritmo di una danza silenziosa. Questo artista del quotidiano si muoveva con la leggerezza di un sussurro, la sua era una sorta di religiosità laica, un rispetto sacro per l’umanità e il suo teatro ordinario. Non cercava la perfezione, ma l’autenticità, la verità nascosta dietro l’apparenza.

Le sue fotografie non sono mere immagini, ma piccole storie che narrano la vita nella sua essenza più pura. Non ci sono parole, ma solo immagini, eppure sembrano parlare più di mille discorsi. C’è la commedia, c’è il dramma, c’è l’ironia, c’è la malinconia. Come frammenti di un mosaico più grande, ognuna di queste opere compone un quadro immenso e variegato che rivela la bellezza dell’ordinario: finestre aperte su un mondo fatto di gesti semplici, di momenti ordinari che, attraverso la sua lente, assumono una dimensione più ampia, quasi epica.

Da questa sinfonia visuale emerge una delicatezza inaspettata, una tenerezza che riscalda ogni scatto. Ray-Jones non giudica, non impone una visione, ma semplicemente osserva e registra, offrendo a noi lo spazio per scoprire e interpretare. È un poeta del silenzio, un cantastorie che si esprime attraverso il linguaggio universale delle immagini.

È come se Ray-Jones ci invitasse a fare una pausa, a rallentare il passo, a guardare il mondo con occhi nuovi. A scoprire la poesia nascosta nell’ordinario, la bellezza celata dietro l’apparenza. Come un maestro zen, ci indica la via per una diversa percezione del reale, per una consapevolezza più profonda dell’esistenza.

Ma questa guida non avviene attraverso parole o insegnamenti, bensì con il linguaggio silenzioso delle immagini: un invito sottile, quasi impercettibile, che ci raggiunge attraverso le sue fotografie. E forse è proprio in questa delicatezza, in questa discrezione, che risiede il vero potere della sua arte.

C’è un seme che germoglia e diventa pianta, la visione di Ray-Jones si diffonde, si radica, cresce in noi. Ci invita a danzare con la vita, a seguire il suo ritmo, a celebrare la sua varietà e la sua ricchezza. Non è un grido, non è un urlo, è un sussurro. Un sussurro che ci ricorda l’importanza dell’istante, la grandezza dell’ordinario, la poesia del quotidiano. Ed è forse questo il regalo più prezioso che questo artista unico può offrire.

{ 0 comments }

Edward Lorenz e il butterfly effect.

Il modello di Lorenz è un sistema di equazioni differenziali ordinarie (EDO) che descrive il movimento di fluidi in riscaldamento. Fu sviluppato da Edward Lorenz nel 1963 come semplificazione di modelli più complessi del tempo atmosferico. Il modello è noto per il suo comportamento caotico, che era un fenomeno poco compreso all’epoca.

Il sistema di Lorenz è definito dalle seguenti tre equazioni differenziali non-lineari per le variabili x, y e z, che rappresentano lo stato del sistema in funzione del tempo t:

dx/dt = σ(y – x)
dy/dt = x(ρ – z) – y
dz/dt = xy – βz

Le costanti σ, ρ e β sono parametri positivi. Nella scoperta originale di Lorenz, σ (sigma) rappresentava il numero di Prandtl, che è un parametro senza dimensioni utilizzato in fluidodinamica, ρ (rho) rappresentava la differenza di temperatura tra l’alto e il basso della colonna d’aria e β (beta) era proporzionale al rapporto tra l’altezza e la larghezza della colonna d’aria.

Per risolvere numericamente il sistema di Lorenz, si utilizzano metodi numerici per le equazioni differenziali, come il metodo di Euler, il metodo di Runge-Kutta o altri metodi più avanzati. Questi metodi approssimano la soluzione del sistema di equazioni avanzando passo dopo passo nel tempo. A ogni passo, le derivate vengono stimate dalle equazioni del sistema e utilizzate per calcolare i valori delle variabili al passo successivo.

Per esempio, nel metodo di Euler (il più semplice), i passaggi sarebbero i seguenti:

  1. Iniziare con valori iniziali per x, y, z e t.
  2. Calcolare le derivate dx/dt, dy/dt e dz/dt utilizzando le equazioni del sistema.
  3. Aggiornare i valori di x, y e z utilizzando le derivate e un piccolo passo di tempo Δt: x = x + dx/dt * Δt, y = y + dy/dt * Δt, z = z + dz/dt * Δt.
  4. Aggiornare il tempo t = t + Δt.
  5. Ripetere i passaggi 2-4 per il numero desiderato di passi.

Questo metodo produce un’approssimazione della traiettoria del sistema nel tempo. Tuttavia, a causa del comportamento caotico del sistema di Lorenz, piccole differenze nelle condizioni iniziali o negli errori di arrotondamento possono portare a grandi differenze nei risultati, un fenomeno noto come “effetto farfalla“. Pertanto, è necessario scegliere attentamente il passo di tempo Δt e gestire accuratamente gli errori di arrotondamento quando si risolve numericamente il sistema di Lorenz.

Di seguito, si propone un semplice script in Python per integrare numericamente il sistema di equazioni di Lorenz:

import numpy as np
from scipy.integrate import odeint
import matplotlib.pyplot as plt
from mpl_toolkits.mplot3d import Axes3D

# Definizione del sistema di Lorenz
def lorenz_system(current_state, t, sigma, beta, rho):
    x, y, z = current_state
    dx_dt = sigma * (y - x)
    dy_dt = x * (rho - z) - y
    dz_dt = x * y - beta * z
    return [dx_dt, dy_dt, dz_dt]

# Parametri del sistema di Lorenz
sigma = 10.0
beta = 8.0 / 3.0
rho = 28.0

# Condizioni iniziali
initial_state = [1.0, 1.0, 1.0]

# Creazione di un array di punti temporali per l'integrazione
t = np.arange(0.0, 50.0, 0.01)

# Risoluzione del sistema di Lorenz con odeint
solution = odeint(lorenz_system, initial_state, t, args=(sigma, beta, rho))

# Estrazione delle soluzioni x, y, z
x = solution[:, 0]
y = solution[:, 1]
z = solution[:, 2]

# Creazione di un plot 3D dei risultati
fig = plt.figure()
ax = fig.add_subplot(111, projection='3d')
ax.plot(x, y, z)
ax.set_xlabel('X')
ax.set_ylabel('Y')
ax.set_zlabel('Z')
ax.set_title('Lorenz Attractor')

plt.show()

Questo script risolve il sistema di Lorenz per un intervallo di tempo da 0 a 50 con un passo di 0.01, partendo dalle condizioni iniziali (1,1,1). Viene quindi generato un plot 3D che mostra l’attrattore di Lorenz, ovvero la traiettoria del sistema nel tempo. Le forme a spirale complesse che vedi nel grafico sono tipiche dei sistemi caotici come il sistema di Lorenz.

{ 0 comments }

un laboratorio di pensiero…

C’è nell’essenza della vita un’eco duratura, un segno che sfugge allo sguardo ma che scolpisce l’anima del tempo. Tra queste impronte perdura quella di Don Lorenzo Milani, un solco tracciato nella terra della pedagogia. Un secolo ci separa dalla sua nascita, eppure la sua voce riecheggia ancora, invitandoci a leggere la sua storia.

Nasce la storia di Don Lorenzo come nascono i ruscelli di montagna. L’acqua, simbolo di conoscenza, si filtra attraverso la roccia dell’esperienza e dell’audacia, dissetando coloro che si affacciano alla fonte per bere. A Barbiana, piccolo borgo toscano, Milani tracciò un cammino, una salita dove la conquista della vetta richiedeva tenacia.

Vestiva i panni di prete e maestro, ma la sua scuola differiva dalle altre. Non era un luogo di mera digestione di sapere, di assorbimento passivo di lezioni. Piuttosto, era un laboratorio di pensiero, un’officina dove si imparava a mettere in discussione, a diventare cittadini consapevoli. Per Milani, l’istruzione non era un privilegio, bensì uno strumento di libertà, di resistenza e di emancipazione.

Milani non era un ideologo, non si perdeva in dottrine astratte o in ideali irrealizzabili. La sua predica era la realtà, la vita, l’urgenza di vedere oltre l’apparenza, di sconfiggere l’ignoranza e il conformismo. Erede di un’insegnamento concreto, radicato nella terra, Milani forgiò il suo metodo dal lavoro dell’attenzione, dall’ascolto rispettoso, dallo sguardo attento al pensiero altrui.

La politica, per Milani, era vita, dignità, giustizia. Non si riduceva a partiti o a bandiere, a slogan vuoti di contenuto. L’istruzione era la sua arma politica, il suo strumento per amplificare le voci soffocate, per dare forza a chi era costretto al silenzio.

A un secolo dalla sua nascita, l’impronta di Milani è tutt’altro che sbiadita. Non è un sentiero dritto, non è un percorso senza ostacoli. Ma è una traccia che ci sprona a seguirne le orme, che ci sfida a confrontarci con i nostri limiti e le nostre paure. Ci invita ad essere coraggiosi, audaci, a non accontentarci del comodo, del facile.

Il vero omaggio a Don Lorenzo non risiede nel semplice ricordo, ma nel mantenere vivo il suo messaggio, nell’alimentare la fiamma dell’istruzione, nel continuare a tracciare il solco che lui ha iniziato. Significa continuare a interrogarsi, a dubitare, a imparare. Significa perseguire un’istruzione che sia un dovere, oltre che un diritto, un impegno, una missione.

A cent’anni dalla sua nascita, Don Lorenzo Milani non è solo una memoria, è un’esortazione. Un invito a tenere alta la torcia dell’istruzione, a portarla avanti, a non permettere che si spenga. Perché l’istruzione è un faro, una guida, una speranza. E nei momenti di buio, di incertezza, non c’è nulla di più prezioso di una luce che illumina il cammino.

{ 0 comments }

Nel linguaggio delle ombre e delle luci di Oriol Maspons, l’occhio non s’imbatte ma s’immerge in un’onda che trasporta storie incise in uno scatto di eternità. Il suo non è un atto meccanico di cattura, ma una danza di interazione con il reale, un dialogo con la profondità nascosta di ogni soggetto ritratto.

C’è un’essenzialità nuda e pulita che pervade il lavoro di Maspons, una narrativa visiva spogliata di orpelli superflui. Eppure, non è mai un vuoto di significato, bensì un invito a esplorare l’inaspettato. I suoi scatti, come poesie mute, ci inducono a riguardare, a riconsiderare le nostre prospettive, a indagare più a fondo.

La fotografia di Maspons non è un mero documento del reale, ma un delicato atto interpretativo, un’intima rilettura del quotidiano. Egli sembra trovare nel familiare l’insolito, nell’ordinario l’eccezionale, restituendo alle sue immagini ciò che l’occhio comune spesso omette.

In ogni suo lavoro, la dignità del soggetto emerge con forza, sia esso un volto umano, un paesaggio o un oggetto quotidiano. C’è un rispetto palpabile per la vulnerabilità e l’unicità intrinseche in ciascuno, come se ciascuno avesse un’essenza, un battito proprio che l’artista riesce a trattenere con la sua lente.

E qui, nel mare delle considerazioni personali, si disegna un pensiero universale: Maspons ci insegna che la bellezza non è un concetto statico e assoluto, bensì una relazione, un dialogo tra l’occhio e il mondo. La sua arte diviene così strumento di espansione, di rivelazione, un monito a cercare la bellezza ovunque, perché è sempre presente, se solo siamo disposti a scorgere.

Ogni scatto di Maspons è un frammento di mondo che prende vita, si rivela e parla. Parla di umanità, di semplicità, di verità nascoste. E ciò che ci sussurra, con la voce silenziosa dell’immagine, è una storia che merita di essere ascoltata.

{ 0 comments }

silenziose odi alla vita…

Fan Ho è un tessitore di luce nei vicoli di Hong Kong, un pescatore che non getta la rete in mare, ma nello scorrere della vita urbana. Le sue mani maneggiano non reti o ami, ma una macchina fotografica, e il suo raccolto è fatto di luci e ombre, volti e figure, geometrie silenziose e narrazioni mute.

Hong Kong, attraverso l’obiettivo di Ho, si rivela in un equilibrio precario tra passato e futuro, una danza perpetua tra tradizione e modernità. Non è la metropoli frenetica che ci si aspetterebbe, ma una città che vive a ritmi sconosciuti, pulsante di un’umanità viva e vibrante. Nei suoi scatti, l’effimero si concretizza, il quotidiano si eternizza, l’indicibile si fa immagine.

Eppure, tra le linee e i contorni catturati da Ho, si insinua una solitudine densa, non desolante, ma ricca di vita. Si annida nelle strade, nei volti, nelle case, ma è una solitudine che canta una canzone di umanità comune. Queste fotografie sono silenziose odi alla vita, preghiere senza parole per il sublime quotidiano. Trasformano il piombo della realtà in oro luminoso, fanno della banalità un canto.

Nel fluire di ombre e luci, l’arte di Ho è un dono di sé, un frammento della sua Hong Kong, un invito all’ascolto. Invita a vedere oltre, a cercare l’umanità celata nei dettagli, l’arte nascosta nel quotidiano. Questi scatti sono come echi silenziosi che invocano un’attenzione più profonda, un silenzio più attento, un ritrovamento della voce della nostra anima.

Così, nel silenzio delle sue immagini, in quei rari momenti di quiete tra luce e ombra, tra forma umana e geometria, ci si scopre immersi in un mondo di emozioni, di sensazioni, di vita. Un mondo invisibile all’occhio distratto, ma splendidamente rivelato a chi si lascia guidare dal silenzio e dal lume di Fan Ho.

{ 0 comments }

il momento giusto per usare la forza…

Le idee di Pasolini vengono rievocate: gli esecutori dell’ordine, polizia e carabinieri, traggono le loro radici dal medesimo humus popolare, un humus che molti, avvolgendo sé stessi nel manto del benessere, guardano da lontano. Essendo gemme dello stesso albero popolare, diventa agghiacciante constatare l’emergere continuo di filmati (gli ultimi due provenienti da Milano e Livorno) che ritraggono una veemenza contenuta che genera sconcerto, veemenza direzionata a quei cittadini che, nel gran quadro sociale, non figurano tra i più potenti.

Ci si richiama alla memoria il palcoscenico descritto da Pasolini, con i proletari (poliziotti) che fronteggiavano i rampolli (studenti). Ma oggi, a subire la violenza sono gli esclusi, il popolo comune. Non si vuol dire che sia meno grave aggredire un magnate o una dama di nobili origini; lo Stato dovrebbe adoperare lo stesso rigore con tutti, ma anche lo stesso rispetto. Questo serve a chiarire che l’interpretazione strumentale del Pasolini “pro-polizia”, cara alla destra, deve essere inquadrata nel suo contesto storico; non è opportuno invocarla quando si osservano figure in divisa, uomini e donne, che aggrediscono transessuali, commercianti ambulanti o senzatetto.

È l’inquietudine di un timore, quello che la destra al potere (non trascurando, per equità, una componente fascista) stia consentendo comportamenti rigidi. Che ragazzi dalle radici semplici, solo per il fatto di indossare un’uniforme, pensino che “ora” sia il tempo giusto per far uso della forza. Un dovere fondamentale della destra al governo dovrebbe essere illustrare che la linea tra il lecito e l’illecito, in uno Stato di diritto, non cambia in base a chi presiede il Viminale, destra, sinistra o chi per loro. Di solito, i criminali considerano il corpo altrui un territorio da violare. E lo fanno con brutalità. Ma coloro che rappresentano lo Stato non devono e non possono comportarsi allo stesso modo, a prescindere da chi sia emerso vittorioso nelle urne.

{ 0 comments }