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…poetessa delle ombre

Vivian Cherry, guardiana del quotidiano e poetessa delle ombre. L’obiettivo della sua Leica, diventa il suo occhio, il suo mezzo per intercettare le trame nascoste nel grezzo tessuto della realtà urbana.

Inizia nelle viscere di una camera oscura, lì dove la magia avviene, lì dove le immagini sussurrano storie attraverso il gioco sottile tra luce e oscurità. Il grigio sbiadito dei negativi, il bagliore intensificato del bianco e nero, emergono come parole sussurrate, narrando storie mute e potenti.

Per le strade di New York, Vivian diventa un pellegrino della luce. Con la sua Leica, incornicia i dettagli più insignificanti, le espressioni più sfuggenti, le ombre più profonde. La sua arte non chiede, ma osserva; non pretende, ma ascolta. Le strade, gli angoli nascosti, i volti sfuggenti, diventano versi di una poesia visiva.

La tecnica di Vivian è un equilibrio di rispetto e audacia. Come un mimo, coglie il movimento naturale, l’armonia innata nelle linee e nelle forme del quotidiano. Non cerca di dominare la luce, ma di danzare con essa, di intrecciarsi nelle sue sfumature, nelle sue ombre, nella sua verità.

Vivian diventa narratrice degli invisibili, di coloro la cui esistenza è soffocata dal rumore della città. Trasforma la sua lente in uno specchio, riflettendo l’umanità nelle sue molteplici sfaccettature: l’innocenza che si aggira nei vicoli oscuri, la solitudine che affonda nelle panchine dei parchi, l’energia che pulsa nelle corde dei musicisti di strada.

Il ritmo dei suoi scatti è come quello di una melodia silenziosa, un linguaggio visivo che canta la vita, la lotta, la bellezza e il dolore. Ogni fotografia diventa un monologo silenzioso, un capitolo di una storia più grande, un ritratto di un mondo in continua evoluzione.

Così, nelle sue immagini, Vivian Cherry traccia una mappa della vita, un ritratto della realtà nei suoi colori più autentici. E in questa danza silenziosa tra luce e ombra, la sua arte parla una lingua universale, narrando storie di semplicità, di empatia, di umanità.

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…la luminosità velata di Napoli.

Mimmo Jodice. Un nome che sussurra la luminosità velata di Napoli, città che ha tessuto le sue prime visioni. L’occhio di Jodice è un faro, uno scrutatore quieto del mondo, sempre in caccia dell’essenza latente nelle cose.

Figlio del 1934, Jodice ha visto l’Italia mutare pelle, registrando le sue ferite e le sue risurrezioni. Eppure, nel movimento perpetuo del cambiamento, ha sempre rintracciato una costanza nelle sue immagini, trovando bellezza nelle forme più effimere e nelle ombre più fitte.

Per Jodice, la fotografia non è mero gesto meccanico, ma un abbraccio d’amore. Amore per la sua città, per l’arte, per l’umanità. Le sue immagini sono tracce, carte geografiche di una terra in costante metamorfosi, ma ancora saldamente ancorata alle sue radici. Le sue foto non gridano, sussurrano. Sono sussurri lasciati sulla carta, in un linguaggio universale di chiaroscuri.

L’espressività di Jodice sta nel plasmare l’ordinario, nel dar voce a vibrazioni di significati inaspettati. Ogni scatto è un racconto, una poesia d’immagine che trascende l’atto del vedere, persistendo impressa nel cuore e nella mente.

Jodice esplora luoghi dimenticati, edifici antichi in rovina, strade desolate. Non cerca la perfezione, ma l’autenticità. Nel suo lavoro, ogni crepa è una cicatrice che racconta una storia, ogni macchia è un’orma di vita.

L’opera di Jodice è un invito a guardare oltre, a non fermarsi alla superficie. Ci insegna che ogni luogo, ogni persona ha una storia da raccontare, se solo abbiamo il coraggio di ascoltare. Le sue foto sono come versi di una canzone mai scritta, melodie silenziose che parlano di noi e del mondo intorno.

Il mondo di Jodice è un mondo di silenzi parlanti, di bellezza nascosta, di memorie scavate nella pietra e nella luce. Un mondo in cui il tempo si sospende per un attimo, e in quell’attimo si condensa un’eternità.

Mimmo Jodice, l’artista che con la sua lente ci ha insegnato a vedere e a ricordare. Ci ha donato un linguaggio visivo in cui bellezza e umanità sono sempre al centro, nonostante le ombre che possono celarle. Un silenzioso maestro che continua a parlare attraverso le sue immagini, che non sono solo foto, ma finestre aperte su un mondo da scoprire e amare.

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il mondo attraverso gli occhi dell’altro…

Nikos Economopoulos. Un nome che, come il luccichio della luce su un mare tranquillo, evoca l’immensità del Mediterraneo, la pietra lavorata dei vecchi sentieri della Grecia, le voci sussurrate nelle strade, il vento che accarezza la pelle bruciata dal sole.

Nel 1953, nelle viscere di un paese intriso di storia, nasce un occhio destinato a osservare il mondo con una lente diversa. Una lente non immediatamente riconosciuta, né ereditata da un anziano sagace, né incastonata fin da piccolo in una macchina fotografica sempre presente. No, la lente di Economopoulos si affina nel tempo, si svela con la pazienza di chi, sorpreso da un’amore folgorante, sa che non può far altro che accoglierlo.

In questo viaggio artistico, documenta la vita non con l’occhio freddo di un esterno osservatore, ma con l’anima di un pellegrino che cerca di comprendere il senso di ogni pietra, di ogni volto, di ogni gesto. Economopoulos è un cercatore di verità, un interprete di realtà, un testimone dell’essenza umana.

Non descrive persone, descrive esistenze. Ogni scatto è un frammento di vita, un granello di sabbia nel deserto dell’umanità, che lui raccoglie con rispetto e tenerezza. Cattura l’autenticità dell’istante, il palpito del presente, la nuda verità che non ha bisogno di ornamenti per essere apprezzata.

Nel Mediterraneo trova il suo palcoscenico. Su quelle coste bagnate dal sole, tra le strade vibranti di storie, nei volti delle persone, si muove come un danzatore silenzioso, invisibile eppure onnipresente. Ogni immagine è un racconto che lega il passato al presente, l’universale all’individuale, il transitorio all’eterno. La sua macchina fotografica è un ponte tra mondi, un invito alla comprensione, una sfida alla superficialità.

Non è solo questione di tecnica o di inquadratura, ma di emozioni, di intuizioni, di connessioni. Ogni foto è un nodo in una rete di significati che si dispiegano tra l’individuo e la collettività, tra il familiare e l’estraneo, tra l’ordinario e lo straordinario. Economopoulos non ci mostra solo il mondo, ci mostra il mondo attraverso gli occhi dell’altro, ci invita a interrogare le nostre certezze, a oltrepassare i nostri pregiudizi.

L’arte di Economopoulos è un canto all’umanità. È un’ode alla diversità e alla connessione, un appello alla consapevolezza e alla comprensione, un invito a cercare la bellezza e il senso nelle pieghe del quotidiano. Non è un canto alto e clamoroso, ma un sussurro che arriva dritto all’anima, che ci sfida a vedere il miracolo dell’ordinario, a scoprire il divino nel profano, a riconoscere l’eccezionale nella regola.

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…un intimo confidente di vite aliene

Ian Berry, annidato nell’abbraccio delle luci e delle ombre, trasfigura il mondo reale attraverso il vetro della sua macchina fotografica. Cresciuto sulla scacchiera dell’Inghilterra del dopoguerra, una terra di profonde cicatrici e speranze fiorite tra le rovine, ha ereditato la luce dell’arte dalle mani di suo padre. Un padre che, nel tempo libero, inseguiva le immagini e insegnava al figlio come la vita potesse trasformarsi in un mosaico di momenti fermi, cristallizzati nel tempo.

Ha fatto del mondo il suo laboratorio, un luogo dove ogni viso è un racconto, ogni espressione è un sentimento. Ian non è semplicemente un fotografo, è un intimo confidente di vite aliene, un misterioso intruso che penetra dolcemente nelle profondità dell’esistenza. E così, da ogni angolo del mondo, ha catturato frammenti di realtà – guerre e paci, gioie e sofferenze, rituali della vita quotidiana.

Sui suoi scatti si stagliano luci e ombre, intrecciandosi in un gioco senza tempo, quasi a celebrare il perpetuo divenire della vita. Ogni suo scatto racchiude l’essenza della vita – la bellezza, l’ingiustizia, l’amore, il dolore – e le offre al mondo, quasi come un dono di se stesso.

Ian Berry danza sul filo della realtà, ma non si accontenta mai di una semplice testimonianza. Si immerge nelle storie, vive al loro fianco, sente le loro vibrazioni. Trasforma le sue immagini in mosaici di umanità, ciascuno risplendente di un unico, inconfondibile bagliore.

La sua arte è come una melodia silenziosa che risuona in tutte le sue immagini. Invita l’osservatore a fermarsi, a guardare, a sentire. Ogni foto è una poesia, un viaggio alla scoperta della verità dell’umanità, un richiamo alla contemplazione.

Ian Berry, l’artista, il narratore, l’osservatore. Un sussurro nel vento della storia umana, un testimone che ricorda che in ogni vita, in ogni volto, in ogni occhio, c’è una storia che merita di essere raccontata. Attraverso il suo obiettivo, ci mostra un mondo di silenzi eloquenti e sussurri urlanti, un mondo in cui la bellezza e la dignità possono essere ritrovate anche nei luoghi più inaspettati.

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Si ritorna a Pompei…

Si ritorna a Pompei, città eterna, un incrocio tra la vita e la morte, fra il passato e il presente. Ogni passo sulle sue strade è un passo indietro nel tempo. Qui, l’aria è densa di echi di una vita passata, come se le voci dei suoi antichi abitanti fossero ancora impresse tra le rovine, sussurri silenziosi di storie raccontate e rimaste in sospeso. Il profumo di un tempo andato pervade ogni strada, ogni angolo, ogni pietra, catturato e conservato dalla città stessa…

Ogni muro, ogni strada, ogni casa racconta una storia. Le pietre portano le cicatrici del passato, ma anche la promessa del futuro. Sono testimonianze di storie di vita e morte, di gioia e dolore, di speranza e paura…

Ma oltre a raccontare la sua storia, Pompei offre un senso di connessione unico. Toccando una pietra, si può quasi sentire il respiro di coloro che un tempo camminavano per queste stesse strade, coloro che vivevano e amavano qui. In questi momenti, si instaura un legame silenzioso con il passato, una connessione che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo…

Pompei è più di una città, è un simbolo, un ponte tra il passato e il presente. Ogni visita è un viaggio nel tempo, un’esperienza che ci riavvicina alla nostra umanità, un dialogo che ci ricorda che, nonostante il passare del tempo, le pietre di Pompei continuano a parlare, continuano a sussurrare i segreti di un tempo passato che si mostra ancora vivo nel presente.

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La montagna, custode secolare e silenziosa, non è solo un ammasso di roccia che sfida il cielo. È un’anima, un respiro, una voce che ci chiama e ci interpella. Questo, in sintesi, il cuore di “Le otto montagne”, storia di due destini intrecciati, quello di Pietro e di Bruno, germogli di terre diverse, radicati però nella stessa madre montagna.

La montagna non è un semplice sfondo, è una presenza viva, un’entità che si evolve, si trasforma, muta forma e colore a seconda del tempo, della luce, del vento. Nell’opera cinematografica, sebbene costellata da incertezze, da momenti di inerzia, il cuore del racconto pulsa forte. L’amicizia tra Pietro e Bruno, i sentieri della vita che decidono di percorrere, i loro conflitti interiori, le relazioni con i padri, si mescolano come i colori di un quadro.

Gli interpreti, Marinelli e Borghi, calzano i panni dei loro personaggi con un’autenticità disarmante. Vestono le loro vite, animano i loro respiri, rivelano i loro cuori. Essi mettono in scena il dramma umano con le sue luci e ombre, le sue contraddizioni, le sue sfumature.

“Le otto montagne” è una sinfonia di immagini e suoni, un inno alla grandiosità e alla saggezza delle montagne, ma anche alla loro intima bellezza, alla loro voce silenziosa che ci parla di radici, di appartenenza, di identità.

La parte del racconto che narra la perdita di Bruno è come una lama che taglia il fiato. La baita, sommersa dalla neve, diventa un sepolcro aperto, un luogo sospeso tra la vita e la morte. Pietro, l’amico, il fratello di montagna, continua il suo cammino, portando nel cuore il ricordo di Bruno. “Nella vita ci sono montagne sulle quali non si può tornare.” Eppure, sulla montagna più alta, lì dove il cielo e la terra si toccano, Pietro ha lasciato un pezzo di sé, un pezzo di Bruno.

“Le otto montagne” è un viaggio attraverso le pieghe dell’esistenza, un pellegrinaggio tra le luci e le ombre della vita. Una storia di perdita e ritrovamento, di amicizia e lutto, di amore e morte. E come in ogni viaggio, ciò che resta è un’impronta indelebile, un segno che ci segna, un ricordo che sopravvive anche quando sembra che tutto sia perduto.

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Gianni Berengo Gardin, nato dove il mare fa la corte alla terra, diventa cantore di un’Italia in bianco e nero, come un vecchio film che mormora ancora storie al cuore dell’ascoltatore.

Egli srotola i suoi rulli di pellicola come se fossero tappeti volanti, capaci di portarci in alto, lontano, per mostrarci le nostre case, i nostri vicoli, i nostri volti. Ogni suo scatto è un respiro preso in prestito dalla realtà, fermato nel tempo, in attesa di essere di nuovo aspirato dagli occhi di chi guarda.

Sono immagini che parlano, sussurrano, gridano. Raccontano di treni che non fischiano più, di bambini con gli occhi grandi come lune, di vecchi che portano sulle spalle il peso del mondo. Di piazze gremite e di strade vuote, di feste popolari e di solitudini urbane.

Le sue foto non sono solo quadri incorniciati, ma finestre aperte sulla vita, sulla nostra vita. Sono occhi che ci guardano mentre noi guardiamo loro. Rivelano a noi ciò che spesso ci sfugge, ciò che non vediamo perché troppo vicino, troppo familiare.

Le sue fotografie sono come poesie senza parole, scritte con la luce. Con una sensibilità acuta e delicata, lui, l’osservatore silenzioso, ci mostra la bellezza nascosta nel quotidiano, nel banale, nel semplice. E così, tra un clic e l’altro, ci insegna che ogni vita merita di essere raccontata, perché ogni vita è un’opera d’arte unica e irripetibile.

E nel suo raccontare l’Italia, Gardin non solo la ritrae, ma la modella, la plasma, la vive. Come un pittore che non si limita a dipingere la sua tela, ma la sogna, la sussurra, la respira. E noi, osservatori dei suoi scatti, diventiamo a nostra volta sognatori, partecipi di un viaggio che è insieme suo e nostro. Un viaggio nella realtà, attraverso gli occhi di un poeta dell’obiettivo.

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Mario De Biasi, nato tra le vigne del ’23, ha preso in mano la macchina fotografica quando la guerra era solo un ricordo marcio. Come un frate laico, ha fatto voto alla realtà, con l’occhio che si fa specchio di persone e luoghi, cuore pulsante di una nazione in cammino.

Sguardo silenzioso, la sua, capace di sussurrare storie che l’orecchio non riesce a sentire. Una parabola di bambini in un vicolo di Napoli diventa un grido, e quel grido dice “Italiani si diventa”, e dice pure del futuro, di un’Italia che si stava rialzando.

Non è uno che si ferma, De Biasi. Ha traversato l’oceano, e nella foresta di cemento di New York ha visto altro che grattacieli. Ha visto uomini e donne, storie che si intrecciano, vita che sboccia anche nel cemento.

La sua macchina fotografica, De Biasi, l’ha usata come un poeta usa la penna. Ha descritto il mondo in immagini, non in parole. Ha colto l’istante, lo ha reso eterno, ne ha fatto un dono a tutti noi. Ha messo la sua anima in ogni scatto.

Ecco, Mario De Biasi. Un uomo che ha guardato la vita negli occhi, e l’ha ritratta con il cuore.

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Anders Petersen, il pescatore di emozioni, nel silenzio dei suoi scatti, cattura l’essenza del sentire umano. Ogni foto è una quiete immobile, un’eco di sensazioni cristallizzate nel tempo, un ricordo che prende vita. Il bianco e nero non è un dettaglio casuale, ma un simbolo potente, il colore stesso del ricordo, l’essenza del passato intrappolato nella presente realtà.

“Amo la fotografia per il fermo immagine del sentire,” ha detto Petersen, “il fascino del bianco e nero perché è il colore del ricordo, realtà che esce dal tempo per fissarsi in una malinconia.” Ogni sua foto, quindi, è un frammento di vita sottratto all’inarrestabile fluire del tempo, un’isola di malinconia nell’oceano del presente.

Il bianco e nero, nelle sue opere, non è semplicemente l’assenza di colore. È un richiamo, una risonanza di memorie che vive nel cuore di chi guarda. Petersen non dipinge con i colori brillanti e vivaci del quotidiano, ma usa le sfumature del grigio, un grigio che è un connubio tra la luce e l’ombra della vita, un dialogo tra il passato e il presente.

Nelle mani di Petersen, la fotografia diventa un atto di resistenza contro l’effimero, un modo per fermare il tempo e fissare la realtà in un istante sospeso. E così, ogni sua foto diventa un ritratto della vita, un’istantanea dell’essere umano, un frammento di realtà trasformato in arte.

Petersen ci invita a guardare, a sentire, a ricordare. Ogni suo scatto è un invito a confrontarsi con le proprie emozioni, a riscoprire i propri ricordi, a esplorare l’abisso della propria interiorità. La sua arte non è solo rappresentazione, ma interpretazione e comprensione dell’umano. È un canto di emozioni che risuona nel silenzio, un ricordo impresso nella malinconia.

E così, tra ombre e luci, tra il bianco e il nero, Petersen ci conduce in un viaggio alla scoperta di noi stessi, ci mostra la bellezza nascosta nelle pieghe della vita, ci sussurra le verità nascoste dietro l’obiettivo della sua macchina fotografica.

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…tra il reale e l’immaginario.

Ferdinando Scianna, radici in terra di Sicilia, nato nel ’43 a Bagheria, si è tessuto un nome nella trama dei fotografi italiani più stimati. Dal giornalismo, si è piegato alla fotografia, primo italiano a calcare il palco della Magnum Photos nel ’82.

Scianna, con l’obiettivo, abbraccia le facce del mondo: la guerra raccontata, il volto ritratto, la moda disegnata. Lui, l’umanista che coglie l’ombra e la luce della realtà sociale, che traccia l’essenza dei suoi soggetti in un dettaglio, in un gesto, in uno sguardo.

Le sue immagini sono poesie che parlano di noi, dell’umanità, del tragico e del comico della vita, della memoria, della storia. Scianna guarda la sua Sicilia, ne sente il profumo, ne esplora i contrasti, le sfaccettature, la mette in luce.

Leonardo Sciascia, scrittore che ha tracciato solchi profondi nella letteratura italiana del Novecento, è per Scianna una figura guida, un faro nella notte, un amico. Da lui prende e assimila, si nutre e cresce.

Scianna guarda con occhi che sanno ascoltare, che sanno fare della luce una storia, della lente una penna. Dipinge con il chiaroscuro delle sue immagini, costruisce ponti tra il visibile e l’invisibile, tra il qui e l’altrove, tra il reale e l’immaginario.

E così, nell’opera di Scianna, vediamo una danza tra generi fotografici, un impegno sociale che diventa inchiostro, uno sguardo che, affondato nella realtà, si fa sentire, si fa comprendere, si fa empatia.

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