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il mondo attraverso gli occhi dell’altro…

Nikos Economopoulos. Un nome che, come il luccichio della luce su un mare tranquillo, evoca l’immensità del Mediterraneo, la pietra lavorata dei vecchi sentieri della Grecia, le voci sussurrate nelle strade, il vento che accarezza la pelle bruciata dal sole.

Nel 1953, nelle viscere di un paese intriso di storia, nasce un occhio destinato a osservare il mondo con una lente diversa. Una lente non immediatamente riconosciuta, né ereditata da un anziano sagace, né incastonata fin da piccolo in una macchina fotografica sempre presente. No, la lente di Economopoulos si affina nel tempo, si svela con la pazienza di chi, sorpreso da un’amore folgorante, sa che non può far altro che accoglierlo.

In questo viaggio artistico, documenta la vita non con l’occhio freddo di un esterno osservatore, ma con l’anima di un pellegrino che cerca di comprendere il senso di ogni pietra, di ogni volto, di ogni gesto. Economopoulos è un cercatore di verità, un interprete di realtà, un testimone dell’essenza umana.

Non descrive persone, descrive esistenze. Ogni scatto è un frammento di vita, un granello di sabbia nel deserto dell’umanità, che lui raccoglie con rispetto e tenerezza. Cattura l’autenticità dell’istante, il palpito del presente, la nuda verità che non ha bisogno di ornamenti per essere apprezzata.

Nel Mediterraneo trova il suo palcoscenico. Su quelle coste bagnate dal sole, tra le strade vibranti di storie, nei volti delle persone, si muove come un danzatore silenzioso, invisibile eppure onnipresente. Ogni immagine è un racconto che lega il passato al presente, l’universale all’individuale, il transitorio all’eterno. La sua macchina fotografica è un ponte tra mondi, un invito alla comprensione, una sfida alla superficialità.

Non è solo questione di tecnica o di inquadratura, ma di emozioni, di intuizioni, di connessioni. Ogni foto è un nodo in una rete di significati che si dispiegano tra l’individuo e la collettività, tra il familiare e l’estraneo, tra l’ordinario e lo straordinario. Economopoulos non ci mostra solo il mondo, ci mostra il mondo attraverso gli occhi dell’altro, ci invita a interrogare le nostre certezze, a oltrepassare i nostri pregiudizi.

L’arte di Economopoulos è un canto all’umanità. È un’ode alla diversità e alla connessione, un appello alla consapevolezza e alla comprensione, un invito a cercare la bellezza e il senso nelle pieghe del quotidiano. Non è un canto alto e clamoroso, ma un sussurro che arriva dritto all’anima, che ci sfida a vedere il miracolo dell’ordinario, a scoprire il divino nel profano, a riconoscere l’eccezionale nella regola.

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…un intimo confidente di vite aliene

Ian Berry, annidato nell’abbraccio delle luci e delle ombre, trasfigura il mondo reale attraverso il vetro della sua macchina fotografica. Cresciuto sulla scacchiera dell’Inghilterra del dopoguerra, una terra di profonde cicatrici e speranze fiorite tra le rovine, ha ereditato la luce dell’arte dalle mani di suo padre. Un padre che, nel tempo libero, inseguiva le immagini e insegnava al figlio come la vita potesse trasformarsi in un mosaico di momenti fermi, cristallizzati nel tempo.

Ha fatto del mondo il suo laboratorio, un luogo dove ogni viso è un racconto, ogni espressione è un sentimento. Ian non è semplicemente un fotografo, è un intimo confidente di vite aliene, un misterioso intruso che penetra dolcemente nelle profondità dell’esistenza. E così, da ogni angolo del mondo, ha catturato frammenti di realtà – guerre e paci, gioie e sofferenze, rituali della vita quotidiana.

Sui suoi scatti si stagliano luci e ombre, intrecciandosi in un gioco senza tempo, quasi a celebrare il perpetuo divenire della vita. Ogni suo scatto racchiude l’essenza della vita – la bellezza, l’ingiustizia, l’amore, il dolore – e le offre al mondo, quasi come un dono di se stesso.

Ian Berry danza sul filo della realtà, ma non si accontenta mai di una semplice testimonianza. Si immerge nelle storie, vive al loro fianco, sente le loro vibrazioni. Trasforma le sue immagini in mosaici di umanità, ciascuno risplendente di un unico, inconfondibile bagliore.

La sua arte è come una melodia silenziosa che risuona in tutte le sue immagini. Invita l’osservatore a fermarsi, a guardare, a sentire. Ogni foto è una poesia, un viaggio alla scoperta della verità dell’umanità, un richiamo alla contemplazione.

Ian Berry, l’artista, il narratore, l’osservatore. Un sussurro nel vento della storia umana, un testimone che ricorda che in ogni vita, in ogni volto, in ogni occhio, c’è una storia che merita di essere raccontata. Attraverso il suo obiettivo, ci mostra un mondo di silenzi eloquenti e sussurri urlanti, un mondo in cui la bellezza e la dignità possono essere ritrovate anche nei luoghi più inaspettati.

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Si ritorna a Pompei…

Si ritorna a Pompei, città eterna, un incrocio tra la vita e la morte, fra il passato e il presente. Ogni passo sulle sue strade è un passo indietro nel tempo. Qui, l’aria è densa di echi di una vita passata, come se le voci dei suoi antichi abitanti fossero ancora impresse tra le rovine, sussurri silenziosi di storie raccontate e rimaste in sospeso. Il profumo di un tempo andato pervade ogni strada, ogni angolo, ogni pietra, catturato e conservato dalla città stessa…

Ogni muro, ogni strada, ogni casa racconta una storia. Le pietre portano le cicatrici del passato, ma anche la promessa del futuro. Sono testimonianze di storie di vita e morte, di gioia e dolore, di speranza e paura…

Ma oltre a raccontare la sua storia, Pompei offre un senso di connessione unico. Toccando una pietra, si può quasi sentire il respiro di coloro che un tempo camminavano per queste stesse strade, coloro che vivevano e amavano qui. In questi momenti, si instaura un legame silenzioso con il passato, una connessione che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo…

Pompei è più di una città, è un simbolo, un ponte tra il passato e il presente. Ogni visita è un viaggio nel tempo, un’esperienza che ci riavvicina alla nostra umanità, un dialogo che ci ricorda che, nonostante il passare del tempo, le pietre di Pompei continuano a parlare, continuano a sussurrare i segreti di un tempo passato che si mostra ancora vivo nel presente.

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La montagna, custode secolare e silenziosa, non è solo un ammasso di roccia che sfida il cielo. È un’anima, un respiro, una voce che ci chiama e ci interpella. Questo, in sintesi, il cuore di “Le otto montagne”, storia di due destini intrecciati, quello di Pietro e di Bruno, germogli di terre diverse, radicati però nella stessa madre montagna.

La montagna non è un semplice sfondo, è una presenza viva, un’entità che si evolve, si trasforma, muta forma e colore a seconda del tempo, della luce, del vento. Nell’opera cinematografica, sebbene costellata da incertezze, da momenti di inerzia, il cuore del racconto pulsa forte. L’amicizia tra Pietro e Bruno, i sentieri della vita che decidono di percorrere, i loro conflitti interiori, le relazioni con i padri, si mescolano come i colori di un quadro.

Gli interpreti, Marinelli e Borghi, calzano i panni dei loro personaggi con un’autenticità disarmante. Vestono le loro vite, animano i loro respiri, rivelano i loro cuori. Essi mettono in scena il dramma umano con le sue luci e ombre, le sue contraddizioni, le sue sfumature.

“Le otto montagne” è una sinfonia di immagini e suoni, un inno alla grandiosità e alla saggezza delle montagne, ma anche alla loro intima bellezza, alla loro voce silenziosa che ci parla di radici, di appartenenza, di identità.

La parte del racconto che narra la perdita di Bruno è come una lama che taglia il fiato. La baita, sommersa dalla neve, diventa un sepolcro aperto, un luogo sospeso tra la vita e la morte. Pietro, l’amico, il fratello di montagna, continua il suo cammino, portando nel cuore il ricordo di Bruno. “Nella vita ci sono montagne sulle quali non si può tornare.” Eppure, sulla montagna più alta, lì dove il cielo e la terra si toccano, Pietro ha lasciato un pezzo di sé, un pezzo di Bruno.

“Le otto montagne” è un viaggio attraverso le pieghe dell’esistenza, un pellegrinaggio tra le luci e le ombre della vita. Una storia di perdita e ritrovamento, di amicizia e lutto, di amore e morte. E come in ogni viaggio, ciò che resta è un’impronta indelebile, un segno che ci segna, un ricordo che sopravvive anche quando sembra che tutto sia perduto.

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Gianni Berengo Gardin, nato dove il mare fa la corte alla terra, diventa cantore di un’Italia in bianco e nero, come un vecchio film che mormora ancora storie al cuore dell’ascoltatore.

Egli srotola i suoi rulli di pellicola come se fossero tappeti volanti, capaci di portarci in alto, lontano, per mostrarci le nostre case, i nostri vicoli, i nostri volti. Ogni suo scatto è un respiro preso in prestito dalla realtà, fermato nel tempo, in attesa di essere di nuovo aspirato dagli occhi di chi guarda.

Sono immagini che parlano, sussurrano, gridano. Raccontano di treni che non fischiano più, di bambini con gli occhi grandi come lune, di vecchi che portano sulle spalle il peso del mondo. Di piazze gremite e di strade vuote, di feste popolari e di solitudini urbane.

Le sue foto non sono solo quadri incorniciati, ma finestre aperte sulla vita, sulla nostra vita. Sono occhi che ci guardano mentre noi guardiamo loro. Rivelano a noi ciò che spesso ci sfugge, ciò che non vediamo perché troppo vicino, troppo familiare.

Le sue fotografie sono come poesie senza parole, scritte con la luce. Con una sensibilità acuta e delicata, lui, l’osservatore silenzioso, ci mostra la bellezza nascosta nel quotidiano, nel banale, nel semplice. E così, tra un clic e l’altro, ci insegna che ogni vita merita di essere raccontata, perché ogni vita è un’opera d’arte unica e irripetibile.

E nel suo raccontare l’Italia, Gardin non solo la ritrae, ma la modella, la plasma, la vive. Come un pittore che non si limita a dipingere la sua tela, ma la sogna, la sussurra, la respira. E noi, osservatori dei suoi scatti, diventiamo a nostra volta sognatori, partecipi di un viaggio che è insieme suo e nostro. Un viaggio nella realtà, attraverso gli occhi di un poeta dell’obiettivo.

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Mario De Biasi, nato tra le vigne del ’23, ha preso in mano la macchina fotografica quando la guerra era solo un ricordo marcio. Come un frate laico, ha fatto voto alla realtà, con l’occhio che si fa specchio di persone e luoghi, cuore pulsante di una nazione in cammino.

Sguardo silenzioso, la sua, capace di sussurrare storie che l’orecchio non riesce a sentire. Una parabola di bambini in un vicolo di Napoli diventa un grido, e quel grido dice “Italiani si diventa”, e dice pure del futuro, di un’Italia che si stava rialzando.

Non è uno che si ferma, De Biasi. Ha traversato l’oceano, e nella foresta di cemento di New York ha visto altro che grattacieli. Ha visto uomini e donne, storie che si intrecciano, vita che sboccia anche nel cemento.

La sua macchina fotografica, De Biasi, l’ha usata come un poeta usa la penna. Ha descritto il mondo in immagini, non in parole. Ha colto l’istante, lo ha reso eterno, ne ha fatto un dono a tutti noi. Ha messo la sua anima in ogni scatto.

Ecco, Mario De Biasi. Un uomo che ha guardato la vita negli occhi, e l’ha ritratta con il cuore.

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Anders Petersen, il pescatore di emozioni, nel silenzio dei suoi scatti, cattura l’essenza del sentire umano. Ogni foto è una quiete immobile, un’eco di sensazioni cristallizzate nel tempo, un ricordo che prende vita. Il bianco e nero non è un dettaglio casuale, ma un simbolo potente, il colore stesso del ricordo, l’essenza del passato intrappolato nella presente realtà.

“Amo la fotografia per il fermo immagine del sentire,” ha detto Petersen, “il fascino del bianco e nero perché è il colore del ricordo, realtà che esce dal tempo per fissarsi in una malinconia.” Ogni sua foto, quindi, è un frammento di vita sottratto all’inarrestabile fluire del tempo, un’isola di malinconia nell’oceano del presente.

Il bianco e nero, nelle sue opere, non è semplicemente l’assenza di colore. È un richiamo, una risonanza di memorie che vive nel cuore di chi guarda. Petersen non dipinge con i colori brillanti e vivaci del quotidiano, ma usa le sfumature del grigio, un grigio che è un connubio tra la luce e l’ombra della vita, un dialogo tra il passato e il presente.

Nelle mani di Petersen, la fotografia diventa un atto di resistenza contro l’effimero, un modo per fermare il tempo e fissare la realtà in un istante sospeso. E così, ogni sua foto diventa un ritratto della vita, un’istantanea dell’essere umano, un frammento di realtà trasformato in arte.

Petersen ci invita a guardare, a sentire, a ricordare. Ogni suo scatto è un invito a confrontarsi con le proprie emozioni, a riscoprire i propri ricordi, a esplorare l’abisso della propria interiorità. La sua arte non è solo rappresentazione, ma interpretazione e comprensione dell’umano. È un canto di emozioni che risuona nel silenzio, un ricordo impresso nella malinconia.

E così, tra ombre e luci, tra il bianco e il nero, Petersen ci conduce in un viaggio alla scoperta di noi stessi, ci mostra la bellezza nascosta nelle pieghe della vita, ci sussurra le verità nascoste dietro l’obiettivo della sua macchina fotografica.

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…tra il reale e l’immaginario.

Ferdinando Scianna, radici in terra di Sicilia, nato nel ’43 a Bagheria, si è tessuto un nome nella trama dei fotografi italiani più stimati. Dal giornalismo, si è piegato alla fotografia, primo italiano a calcare il palco della Magnum Photos nel ’82.

Scianna, con l’obiettivo, abbraccia le facce del mondo: la guerra raccontata, il volto ritratto, la moda disegnata. Lui, l’umanista che coglie l’ombra e la luce della realtà sociale, che traccia l’essenza dei suoi soggetti in un dettaglio, in un gesto, in uno sguardo.

Le sue immagini sono poesie che parlano di noi, dell’umanità, del tragico e del comico della vita, della memoria, della storia. Scianna guarda la sua Sicilia, ne sente il profumo, ne esplora i contrasti, le sfaccettature, la mette in luce.

Leonardo Sciascia, scrittore che ha tracciato solchi profondi nella letteratura italiana del Novecento, è per Scianna una figura guida, un faro nella notte, un amico. Da lui prende e assimila, si nutre e cresce.

Scianna guarda con occhi che sanno ascoltare, che sanno fare della luce una storia, della lente una penna. Dipinge con il chiaroscuro delle sue immagini, costruisce ponti tra il visibile e l’invisibile, tra il qui e l’altrove, tra il reale e l’immaginario.

E così, nell’opera di Scianna, vediamo una danza tra generi fotografici, un impegno sociale che diventa inchiostro, uno sguardo che, affondato nella realtà, si fa sentire, si fa comprendere, si fa empatia.

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La banalità del nor-male…

Nell’epilogo di questa tragica vicenda, Alessandro Impagnatiello ha commesso un atto efferato: ha ucciso Giulia. Di fronte al suo corpo dilaniato, Alessandro non si ferma a contemplare l’orrore né a riflettere sulla gravità del suo gesto. Invece, corre immediatamente sul mondo virtuale, affannato nella ricerca spasmodica di soluzioni. Brama di cancellare le prove, far sparire il sangue e cancellare i messaggi di WhatsApp dai telefoni. Ma cosa cerca davvero? Cosa cerca in quel mondo di pixel e codici? Sembra aver dimenticato che la vita, quella vera, è fatta di carne e sangue, di emozioni e conseguenze ineluttabili.
Eppure, da una sfida goliardica come quella evocata nella canzone di Battisti e Mogol, “guidare a fari spenti nella notte”, si passa a una gincana ancora più tragica. Si tralascia l’amore, i sentimenti, persino la gravidanza, come se fossero solo degli ostacoli da superare, delle pedine sacrificabili in questa insana partita di sopravvivenza. La battaglia con il rischio diventa estrema, quasi elettrizzante, alimentata da una sorta di tossica endorfina. Ma cosa succede quando, per un crudele destino, ci si ritrova con un cadavere nella vasca da bagno? Ci si affida all’onniscienza di “Madre”, come se fosse l’androide del Nostromo di Ridley Scott, pronto a risolvere ogni problema. E persino le parole di Alessandro, che pronuncia senza pentimento alcuno, confermano la sua tragica confusione tra la realtà e un mondo parallelo, dove si può premere “esc” per azzerare tutto, per cancellare le tracce dei propri atti.
Questa concezione della vita come un gioco, in cui non esistono conseguenze morali, in cui si minaccia il suicidio per abbandonare la partita o si spegne tutto premendo un pulsante, è segno di una profonda mancanza di responsabilità. La connessione tra azioni e conseguenze, la comprensione della responsabilità morale, sembra essere scomparsa in questa dimensione virtuale. Eppure, c’è un errore ancor più grave che possiamo commettere: quello di giustificare l’omicidio di Giulia come un fatto isolato, attribuendolo a una presunta follia di Alessandro. Questo ci impedisce di affrontare la radice profonda e dilagante di questa vera e propria malattia sociale.

Dopo l’orrore di questo tragico evento, si è scatenato l’indecente sfruttamento di alcuni influencer, che hanno cercato di trarre profitto dalla morte di Giulia, fingendo di essere suoi affezionati seguaci. Questa triste realtà ci dimostra quanto profondamente radicato e diffuso sia il male in questo mondo virtuale, in cui i profili e gli account si scambiano come monete, lontano dai corpi fisici e dalle emozioni autentiche vissute dalle persone. Ci troviamo di fronte a una banalità del male (o del nor-male) che si diffonde, in cui tutto sembra perdersi nella miseria di una ricerca su Google.
La tragica storia dell’omicidio di Giulia ci pone di fronte a una cruda realtà, in cui l’incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni, la manipolazione delle relazioni umane e la mercificazione della morte sono all’ordine del giorno. È un campanello d’allarme che richiede una profonda riflessione sul modo in cui viviamo e interagiamo in questo mondo digitale. Solo attraverso una maggiore consapevolezza e responsabilità possiamo sperare di preservare la dignità e il valore della vita umana, al di là delle luci sfavillanti di un flipper virtuale.

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Constantine Manos, nato in Carolina del Sud da genitori di origini greche, è il narratore per eccellenza delle realtà celate. Nelle sue mani, la fotografia si trasforma in un caleidoscopio di storie taciute, di silenzi eloquenti, di attimi immobili nella perpetua danza del tempo.

Non si tratta soltanto di un’esposizione di luoghi e volti, ma di un viaggio introspettivo nel profondo dell’umanità. In ogni sua fotografia, Manos non ci mostra solo ciò che vede, ma ciò che sente. Ogni inquadratura è un riflesso della sua anima, un pensiero tradotto in luce, una parola sussurrata attraverso l’obiettivo.

Le sue immagini, siano esse dei paesaggi greco-americani della sua infanzia o di comunità remote in Europa o America Latina, sono pervase da una poesia silenziosa, una sorta di melodia visiva che canta le storie delle vite ritratte. Ogni scatto è un capitolo, una pennellata su una tela invisibile che dipinge un affresco dell’umanità.

Manos è un osservatore discreto, un pescatore di istanti, un cercatore di verità. Le sue fotografie non sono semplici ritratti, ma confessioni in bianco e nero, testimonianze di un mondo in continuo mutamento. Eppure, nel mezzo di questo movimento perpetuo, Manos trova la quiete, il centro, l’essenza. Non cattura solamente il momento, ma l’eternità dentro il momento.

Nella sua opera, la luce è una compagna fedele. Come un pittore utilizza i colori, Manos gioca con le ombre e la luce, creando un contrasto che rivela più di quanto nasconde. E’ come se vedesse oltre, come se potesse penetrare nel cuore delle cose e delle persone, rivelando una bellezza che spesso rimane invisibile agli occhi distratti.

Eppure, non c’è nulla di retorico o artificiale nelle sue opere. Ogni foto è un’offerta genuina, un dono dell’artista al mondo. Manos non pretende di insegnarci come vedere, ma semplicemente di mostrarci la sua visione, invitandoci a guardare più da vicino, a riflettere, a vedere oltre la superficie.

E così, nel flusso incessante delle immagini, nella continua ricerca di nuove prospettive, Manos ci invita a un viaggio. Un viaggio non solo attraverso i paesaggi e le culture diverse, ma anche dentro noi stessi, nelle profondità delle nostre emozioni e dei nostri pensieri. E in ogni suo scatto, in ogni sua inquadratura, risuona un invito silenzioso: a guardare oltre, a cercare il senso nascosto delle cose, a scoprire la bellezza nell’ordinario. E’ un invito a vivere, a sentire, a essere. E’ un invito a guardare il mondo con gli occhi di Constantine Manos.

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