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Introduction to the Klein Bottle

The world of topology brings with it the fascination of non-orientable surfaces, one of which is the Klein bottle. Unlike the Möbius strip, which is a surface with a single boundary, the Klein bottle has no boundary. Intriguingly, in a three-dimensional space, the Klein bottle cannot exist without intersecting itself. However, in a four-dimensional space, it does not intersect itself. A crucial feature of the Klein bottle is its non-orientability, meaning it has only one side.

Screenshot 2023-10-21 alle 17.02.39.png

Parametrization of the Klein Bottle

To visualize the Klein bottle in a three-dimensional space, one can employ a parametric representation. A possible parametric formula for the Klein bottle in terms of parameters (u) and (v) is:

x=(42cos(u))cos(v)+6(sin(u)+1)cos(u)

y=16sin(u)

z=(42cos(u))sin(v)

Using these equations, one can plot points in a 3D space corresponding to various values of

and v, thus obtaining a representation of the Klein bottle.

Power of Plotly for Interactive 3D Visualization

Plotly, a Python graphing library, makes it effortless to create interactive visual representations. One of its strengths is the ability to craft 3D plots that users can rotate, zoom, and pan, offering an immersive experience when understanding complex shapes like the Klein bottle.

Here’s a code snippet that uses Plotly to visualize the Klein bottle:

import numpy as np
import plotly.graph_objects as go

def klein_bottle_parametrization(u, v):
    x = -(4 - 2*np.cos(u)) * np.cos(v) + 6 * (np.sin(u) + 1) * np.cos(u)
    y = 16 * np.sin(u)
    z = (4 - 2*np.cos(u)) * np.sin(v)
    return x, y, z

# Generating parameters u and v
u = np.linspace(0, 2 * np.pi, 100)
v = np.linspace(0, 2 * np.pi, 50)
U, V = np.meshgrid(u, v)

# Calculating x, y, z coordinates
X, Y, Z = klein_bottle_parametrization(U, V)

# Creating a 3D Plot with Plotly
fig = go.Figure(data=[go.Surface(z=Z, x=X, y=Y, colorscale='Viridis', cmin=-30, cmax=30)])

# Displaying the plot
fig.show()

Upon execution, this script provides an interactive 3D representation of the Klein bottle. With Plotly’s interactive capabilities, users can explore the intricacies of the Klein bottle from different angles and perspectives, aiding in the comprehension of its unique topology.

The Klein bottle, in conclusion, with its singular properties, is a captivating subject in topology. While its true non-intersecting form exists in four-dimensional space, visualizing it in three dimensions offers valuable insights. Using tools like Plotly enhances this visualization experience by allowing interactive engagement, making it easier to grasp and appreciate the complexities of such mathematical objects.

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Giovanni Chiaramonte…

Nel silente scorrere del tempo, le immagini catturate dalla lente di Giovanni Chiaramonte raccontano di luoghi e destini intrecciati. Ogni scatto, un dialogo tra il visibile e l’invisibile, una poesia di luci e ombre. Nel dolce abbraccio della fotografia, Chiaramonte ha tracciato il sentiero di un’esplorazione senza tempo, dove il reale si fonde con l’etereo. Ogni fotografia, un frammento di eternità, una finestra aperta sul profondo respiro dell’esistenza.
Le sue immagini, sospese tra cielo e terra, raccontano di un viaggio che va oltre il mero vedere, invitando a una meditazione profonda sul nostro posto nel disegno più ampio. L’arte di Chiaramonte non era mera rappresentazione, ma un invito a penetrare il velo della superficie, a cercare il divino nel quotidiano. Un filosofo della lente, un poeta del silenzio che, con grazia e umiltà, ha indagato i misteri del visibile e dell’invisibile.
Con la sua scomparsa, noi tutti perdiamo un maestro che ha saputo esprimere, attraverso il diaframma della sua macchina fotografica, la profonda relazione tra l’essere e lo spazio, il sacro e il profano. Ma il suo lascito continua a vivere, nelle immagini che hanno catturato l’infinito in un battito di ciglia, nel silente dialogo tra luce e ombra che continua a narrare la bellezza della vita, nella semplicità profonda che ha guidato ogni suo scatto. Giovanni Chiaramonte, con la sua arte, ha tracciato un sentiero di luce nel cuore dell’oscurità, un invito a vedere oltre, a cercare il bello anche nell’effimero, a riconoscere l’eterno nel transitorio.

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La trama di “The Orphanage” si disvela come il filo di Arianna che guida verso il labirinto delle emozioni umane, i suoi spettri e le sue ombre. Si narra di un ritorno, di una madre, Laura, che torna nel luogo dove l’infanzia l’aveva accolta con braccia invisibili, un orfanotrofio, portando con sé il seme della speranza e del dolore: il piccolo Simon, un bimbo segnato da un destino infausto, il virus dell’HIV. Con il marito Carlos, Laura vuole infondere nuova vita in quel luogo, farlo rifiorire come un giardino accogliente per bambini bisognosi di cure e affetto.
La narrazione si muove sull’asse sottile tra la realtà palpabile e quella invisibile, sfiorando il soprannaturale con la delicatezza di una foglia che cade in autunno. Simon, il piccolo, vede ciò che agli occhi degli adulti è negato, amici immaginari che lasciano tracce tangibili sul terreno. La tensione cresce come un fiume in piena, fino al giorno in cui l’anziana assistente sociale giunge con un dossier sul piccolo, e la stessa donna è poi sorpresa nelle tenebre notturne a vagare vicino al magazzino degli attrezzi. Un mistero che si infittisce, una madre che si fa cacciatrice di verità, di tracce, di risposte.
La tragedia si consuma in una festa, Simon scompare, inghiottito da un vortice di domande senza risposta. L’abisso dell’angoscia si spalanca sotto i piedi di Laura. E’ il dolore straziante di una madre che cerca, che chiama, che spera. E’ un viaggio nel buio, un tuffo nel passato che risorge con i suoi fantasmi.
Juan Antonio Bayona, sotto l’ala protettiva di Guillermo del Toro, scolpisce questo racconto con una maestria che risiede nel non detto, nel suggerito, nel velato. Il pubblico è diviso, tra chi vede echi di storie già viste e chi si lascia invece catturare dalla raffinatezza del racconto, dalla profondità delle emozioni in esso incise. La magistrale interpretazione di Belén Rueda eleva il film oltre i confini del genere horror, rendendolo un’indagine psicologica che esplora il dolore, la perdita, la speranza.
Il film si snoda tra le stanze silenziose dell’ex orfanotrofio, tra echi di voci infantili e il freddo marmo della realtà. E’ un canto di dolore e di amore, un’ode alla resilienza umana, un viaggio attraverso i meandri dell’anima dove ogni angolo può nascondere un sorriso o un terrore inimmaginabile. Il brivido sottile dell’ignoto si mescola alla dolce melodia della speranza in una danza che lascia il segno, che interpella l’animo umano nelle sue profondità più oscure e nei suoi slanci più luminosi.

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…attraverso un vetro rotto

La prospettiva attraverso un vetro rotto sospende il presente e risveglia il passato. Mostra la vita come un insieme di istanti che il tempo dissolve..

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Il ricamo delicato di un’emozione che si srotola sullo schermo, cela sotto i fili di trama e ordito una narrazione che ricorda il battito profondo dell’umanità. “Miracle in Cell No. 7”, una rielaborazione turca di una commedia coreana, tesse con maestria la tela di un dramma intriso di lacrime e sorrisi, dove la cella fredda e grigia si colora delle sfumature calde dell’amore paterno e filiale.
La pellicola, pur in una veste drammatica, si apre come una finestra sul cuore pulsante dei personaggi. In questo intricato gioco di specchi, il riflesso più nitido è quello dell’amore incondizionato, un legame puro e indissolubile tra padre e figlia, interpretati con una sensibilità rara da Aras Bulut Iynemli e Nisa Sofiya Aksongur. L’uomo, con il suo sguardo limpido e l’anima incontaminata da pregiudizi del mondo, ci mostra la bellezza della semplicità, l’essenza di un affetto che va oltre la comprensione comune. La piccola, con la sua maturità precoce, ci consegna la speranza che in ogni cuore possa germogliare la comprensione e l’accettazione dell’altro.
Ogni scena è un piccolo universo, dove gli attori si muovono con una grazia che tocca le corde più profonde dell’animo. La loro arte non è solo un esercizio di recitazione, ma un dono di emozioni genuine che trapassano lo schermo e raggiungono lo spettatore in un abbraccio silenzioso.
La narrativa non è una strada retta, ma un sentiero tortuoso che si snoda tra colpi di scena capaci di far trattenere il respiro. La drammaticità, compagna costante del viaggio, non è mai sopra le righe, ma è tessuta con un filo sottile di delicatezza che accompagna lo spettatore in un percorso di riflessione sull’amore, la perdita e la redenzione. E poi c’è il finale, un sospiro che libera la tensione accumulata, ma che non dissolve la tragicità dell’esistenza, anzi, la riconferma nella sua inevitabile e crudele bellezza.
“Miracle in Cell No. 7” non è solo una pellicola da vedere, ma un’esperienza da vivere, un viaggio da compiere insieme ai personaggi, accettando la sfida di guardare oltre le apparenze, di trovare in ogni piccolo gesto un barlume di eternità. L’amore non è un sacrificio estremo, ma la capacità di vivere nonostante tutto, di trovare in ogni giorno la forza di andare avanti, di imparare dalla vita e dalle lezioni sommesse che essa ci offre.

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L’amore dimenticato, un titolo che sembra un sottovoce, una confessione. Eppure, sin dalle prime inquadrature, la pellicola grida una melodia intensa di un paesaggio dell’anima, come l’eco delle montagne care ad un antico scrittore del Sud. Là, dove il film trova la sua radice, c’è la Polonia, con le sue gerarchie sociali, il suo cielo carico di piombo e il riverbero di un passato che pesa come un macigno. E dentro quest’opera, c’è Rafal, neurochirurgo al culmine della sua carriera, uomo dal cuore ferito, che con un destino beffardo si trasforma in Antoni, chirurgo contadino, medicando ferite con la semplicità di chi intuisce la malattia attraverso lo sguardo.

Il regista Michal Gazda traccia un ritratto intenso di un uomo che, perdendo la memoria, non perde l’essenza. La pellicola diventa un viaggio interiore, una ricerca di se stessi attraverso gli altri, un approdo a riva dopo una tempesta. Si sente la Polonia di inizio Novecento, si avverte il peso della distanza tra classi, la brezza di un cambiamento che vuole farsi strada, e il ritmo lento di una canzone popolare che narra storie d’amore e di perdita.

C’è una bellezza cruda nella maniera in cui il film si dipana, come il camminare piedi nudi su un terreno aspro. Eppure, nonostante l’attenzione ai dettagli e la profondità dell’indagine dell’anima, il film stanco si lascia andare, si adagia in un racconto che avrebbe meritato più audacia, più coraggio, come le mani di un alpinista che, a un passo dalla vetta, si arrende. La narrazione, pur evocativa nei primi attimi, si perde in un eccesso di descrizioni, come un fiume che, dimenticando la sua sorgente, si perde nel mare senza lasciare traccia. Si desidererebbe più audacia, una voce più forte, un segno distintivo che marchi questa storia e la renda unica.

Tuttavia, rimane l’eco di un’opera che, pur nei suoi difetti, tocca le corde dell’anima e fa riflettere sulla fragilità dell’esistenza, sulle cicatrici invisibili che ognuno porta con sé e sulla capacità di rinascere, sempre, nonostante tutto.

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In a domain where the phrase “a picture is worth a thousand words” rings particularly true, the journey of data visualization has witnessed a metamorphosis from simplistic graphs to today’s highly interactive and dynamic plots. Amidst this evolution, the quaint charm and professional allure of old-school styling inherent in figures from erstwhile technical papers have garnered a unique reverence. It’s this vintage aesthetic that smplotlib, a Python library, strives to emulate, providing a bridge to the venerable SuperMongo (SM) aesthetics in the modern realm of Python-based data plotting.

Installation:

pip install smplotlib

Let’s delve into the utilization of smplotlib with a hands-on example. Though it’s important to note that smplotlib appears to be a personalized or auxiliary library, the following example demonstrates how one might structure a complex plot using matplotlib, and it’s here where smplotlib could potentially be integrated to imbue the plot with a vintage aesthetic, assuming smplotlib provides such styling functionalities.

import matplotlib.pyplot as plt
import numpy as np
import smplotlib  # Assuming smplotlib provides styling functionalities

# Generate some data
x = np.linspace(0, 10, 100)
y1 = np.sin(x)
y2 = np.cos(x)
y3 = np.tan(x)

# Create the plot
fig, ax = plt.subplots()

# Plot the functions
ax.plot(x, y1, label='sin(x)')
ax.plot(x, y2, label='cos(x)')
ax.plot(x, y3, label='tan(x)')

# Add labels and legend
ax.set_xlabel('X-axis Label')
ax.set_ylabel('Y-axis Label')
ax.set_title('Trigonometric Functions')
ax.legend()

# Set axis limits for better visualization
ax.set_ylim([-10, 10])

# Assuming smplotlib provides a function called style_plot (this is a made-up function, as smplotlib's actual usage is not clear)
# smplotlib.style_plot(ax)  

# Show the plot
plt.show()

In the code snippet above:

  1. We utilize numpy to generate a series of x values and calculate y values for sine, cosine, and tangent functions.
  2. We employ plt.subplots() to create a figure and axis for plotting.
  3. The ax.plot() method is used to plot each function, specifying a label for each that will be used in the legend.
  4. Labels for the axes, a title for the plot, and a legend indicating which line corresponds to which function are added using ax.set_xlabel(), ax.set_ylabel(), ax.set_title(), and ax.legend() respectively.
  5. ax.set_ylim() is used to limit the Y-axis to a range that makes the graph readable, as the tangent function has vertical asymptotes that would otherwise “zoom out” the graph.
  6. A hypothetical smplotlib.style_plot(ax) function is invoked to style the plot, assuming such a function exists in smplotlib.

This piece of code illustrates how one can create a more complex plot and incorporate labels using Matplotlib. It’s a placeholder where smplotlib could potentially be utilized to apply vintage styling, aligning with the aesthetic of old-school technical papers.

smplotlib encapsulates more than just a stylistic add-on; it’s a homage to the timeless essence of clarity and precision that were the hallmarks of figures in bygone eras. The ability to recreate such an aesthetic in today’s fast-evolving visualization landscape not only pays homage to the past but also provides a stylistic choice that stands out amidst modernist designs.

This library is an open-source initiative, hosted on GitHub, welcoming contributions from anyone resonating with the cause of preserving the classical styling in contemporary data storytelling.

In an academic and professional world that’s continually chasing the ‘new’, smplotlib offers a quaint respite, taking one back to the roots where simplicity and elegance were the narrators of data tales.

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L’Anima dei Muri del Hotel Petra…

In ogni angolo del mondo esistono luoghi che hanno respirato storie, che hanno ospitato sogni e che, nel silenzio del loro abbandono, continuano a raccontare storie inascoltate. L’Hotel Petra di Beirut è uno di questi. Non un semplice edificio, ma un monumento che ha vissuto l’apogeo di una città, testimone dei suoi giorni dorati e poi del suo struggente declino.

Un tempo, l’Hotel Petra era il cuore pulsante di Beirut. Immaginate le sue sale brulicanti di vita, gli echi delle risate, il fruscio dei vestiti, gli sguardi furtivi e le strette di mano sigillate con affari. E vicino, il Gran Teatro, dove la musica e le voci degli artisti risuonavano nell’aria, mescolandosi al caos urbano.
Ma le città, come le persone, affrontano prove. La guerra civile libanese ha trasformato le strade di Beirut in cicatrici profonde, alterando per sempre il suo volto e il suo spirito. L’Hotel Petra divenne un fantasma, un ricordo sbiadito di ciò che era stato.

Nel 1992, la promessa di restaurazione gli diede una nuova speranza, un sospiro di attesa. Tuttavia, per quasi vent’anni, l’hotel è rimasto sospeso in un limbo, protetto e intatto, ma lontano dal tocco umano. Quando Robert Polidori ha varcato quelle porte nel 2010, ha trovato non solo un edificio, ma un’opera d’arte in evoluzione. I muri dell’Hotel Petra raccontavano storie non con parole, ma con stratificazioni, con la patina del tempo, con colori e trame che si intrecciavano in una danza silenziosa di decadenza e rinascita. Una tela viva, dipinta non da un solo artista, ma da decenni di storia e da innumerevoli mani.

In quei muri, Polidori ha visto la bellezza del tempo, la potenza della natura e l’arte dell’abbandono. Come un alchimista, ha catturato l’essenza di quel luogo, mostrando al mondo che anche nella desolazione e nell’oblio, c’è una storia da raccontare, una bellezza da celebrare.
L’Hotel Petra è un monito, un ricordo, un inno alla resilienza di una città e alla memoria dei luoghi. Una testimonianza del fatto che, anche nei momenti più bui, c’è sempre una luce che brilla, un segno di speranza, una storia da raccontare. E che, spesso, è nelle crepe e nelle imperfezioni che troviamo la vera bellezza

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