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l’essenza della vita moderna…


Il colore… è la prima cosa che ti colpisce. La saturazione, l’abbagliante vivacità che sembra quasi una satira della realtà. La lente di Martin Parr non risparmia dettagli, come un flusso di coscienza visiva che si riversa nelle sue fotografie. E poi ci sono le persone, le vere protagoniste dei suoi lavori: figure di un mondo spesso ignorato, la classe media britannica, i turisti, i consumatori.

Nato nel 1952 a Epsom, Surrey, in Inghilterra, la vita di Parr si sviluppa come un acquerello che lentamente prende forma, tinta dopo tinta. Fin dall’inizio, il suo stile sembra non appartenergli. La fotografia tradizionale, i toni spenti, l’attenzione per il bello e l’estetico… sembra quasi una prigione per lui. Il suo sguardo si rivolge altrove, oltre.

E così, la fotografia diventa un ritratto del quotidiano, del banale, del reale. Parr cerca il grottesco, il kitsch, ma anche la malinconia, la tristezza, l’amore. Sì, l’amore… perché, nonostante la critica, nonostante la satira, c’è amore nei suoi lavori. Amore per le persone, per la loro autenticità, per le loro storie. Questo è l’approccio riflessivo e introspettivo di Parr, un viaggio dentro le vite degli altri, un tentativo di comprenderle, di sentire ciò che loro sentono.

Ma le immagini non basta scattarle una volta sola. Ci vuole ripetizione, perseveranza. Parr torna spesso sugli stessi soggetti, ritrae le stesse persone, le stesse situazioni, come un ritornello che si ripete. È la ripetizione a dare forza al suo messaggio, a fare entrare nel profondo il significato delle sue fotografie.

E poi, tutto si unisce. Le immagini si combinano, si mescolano, si fondono in una danza di colori e forme. La vivacità del quotidiano, la ripetizione dei temi, l’approccio riflessivo… tutto si armonizza per creare il testo definitivo, l’opera d’arte totale. Questo è Martin Parr, un fotografo che con la sua lente ha saputo catturare l’essenza della vita moderna.

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In un mondo sempre più guidato da sistemi digitali e tecnologia informatica, il termine “algoritmo” è entrato a far parte del vocabolario quotidiano. Algoritmi di ogni tipo sono al lavoro dietro le quinte di molte delle nostre attività quotidiane: dalla ricerca su Internet, al riconoscimento facciale, alla previsione del tempo, e molto altro ancora. Ma cosa sono esattamente gli algoritmi e quale ruolo giocano nei moderni sistemi di calcolo?

Un algoritmo è una sequenza specifica di istruzioni o regole che vengono seguite per completare un’attività o risolvere un problema. La pratica di creare algoritmi è fondamentale nella programmazione informatica – o “coding” – poiché gli algoritmi guidano il funzionamento dei programmi che creiamo. Tuttavia, nonostante la loro prominente presenza nel mondo digitale di oggi, gli algoritmi non sono un’invenzione moderna. Essi sono stati utilizzati per migliaia di anni in matematica e in altre scienze, e un esempio affascinante ci proviene dalla civiltà dell’antico Egitto.

La moltiplicazione egiziana, documentata nel Papiro di Ahmes (o Papiro Rhind) del 1650 a.C., offre un esempio primitivo, ma potentemente illustrativo, di un algoritmo. Questo metodo di moltiplicazione utilizzava raddoppi, dimezzamenti e addizioni, anziché la moltiplicazione diretta come siamo abituati a vedere oggi.

L’algoritmo inizia con due numeri, A e B. A viene raddoppiato ripetutamente e B viene dimezzato nello stesso modo, con entrambi i numeri elencati in colonne parallele. Questo processo continua fino a quando il valore di B non diventa 1. Infine, i valori in A che corrispondono alle righe in cui B è dispari vengono sommati, producendo il prodotto di A e B.

Ecco un esempio con 13 e 24:

Guardiamo solo le righe in cui B è dispari (ultime due righe). Sommiamo i valori corrispondenti di A: 104 + 208 = 312, che è il prodotto di 13 e 24.

La dimostrazione di questo metodo si basa sulla rappresentazione binaria dei numeri e sulla proprietà distributiva della moltiplicazione.

Supponiamo, infatti, di voler moltiplicare due numeri interi (A) e (B). Possiamo rappresentare (A) in base 2 come:

$$
A = a_n 2^n + a_{n-1} 2^{n-1} + \ldots + a_1 2 + a_0
$$

dove ogni \( a_i \) è o 0 o 1, rappresentando i bit nella rappresentazione binaria di (A).

Ora, moltiplichiamo (A) per (B):

$$
A \cdot B = B \cdot (a_n 2^n + a_{n-1} 2^{n-1} + \ldots + a_1 2 + a_0)
$$

Applicando la proprietà distributiva della moltiplicazione rispetto all’addizione, otteniamo:

$$
A \cdot B = B \cdot a_n 2^n + B \cdot a_{n-1} 2^{n-1} + \ldots + B \cdot a_1 2 + B \cdot a_0
$$

Osserviamo che \( B \cdot a_i 2^i \) è esattamente il passo che eseguiamo nell’algoritmo della moltiplicazione egiziana: moltiplichiamo (B) (il moltiplicando) per \( 2^i \) (il raddoppiamento) e lo moltiplichiamo per \( a_i \) (che è 1 se il moltiplicatore corrispondente è dispari, 0 altrimenti).

Quindi, l’algoritmo della moltiplicazione egiziana esegue esattamente la stessa operazione di una moltiplicazione normale, ma in un modo diverso.

Ecco come l’algoritmo della moltiplicazione egiziana potrebbe essere implementato in un linguaggio di programmazione moderno come Python:

def moltiplicazione_egiziana(num1, num2):
    risultato = 0
    while num2 > 0:
        # Se num2 è dispari, aggiungi num1 al risultato
        if num2 % 2 == 1:
            risultato = risultato + num1
        # Raddoppia num1 e dimezza num2
        num1 = num1 * 2
        num2 = num2 // 2
    return risultato
# Esempio di utilizzo
print(moltiplicazione_egiziana(13, 24))  # Dovrebbe stampare 312

Quest’antica metodologia non è solo un esempio affascinante della capacità umana di formulare algoritmi, ma illustra anche il principio fondamentale che è il cuore di tutti gli algoritmi: la decomposizione di un problema complesso in passaggi più piccoli e gestibili.

Nel contesto dei moderni sistemi di calcolo, gli algoritmi sono fondamentali. Essi non solo permettono ai computer di eseguire compiti complessi, ma ottimizzano anche queste operazioni per migliorare l’efficienza e la velocità. Gli algoritmi aiutano a gestire la complessità dei dati, a prendere decisioni e persino ad apprendere dai dati in modo da migliorare le prestazioni nel tempo.

In particolare, l’uso di algoritmi nell’era del Big Data e dell’Intelligenza Artificiale è fondamentale. Algoritmi sofisticati sono utilizzati per analizzare enormi quantità di dati, riconoscere modelli e tendenze, e fornire intuizioni preziose in vari campi, dall’assistenza sanitaria al marketing, dalla meteorologia alla sicurezza nazionale.

La moltiplicazione egiziana ci ricorda che, nonostante la nostra rapida avanzata tecnologica, i fondamenti della logica algoritmica sono radicati nella nostra storia. Sia che si tratti di moltiplicare numeri o di guidare le più avanzate Intelligenze Artificiali, la potenza degli algoritmi risiede nella loro capacità di scomporre problemi complessi in passaggi comprensibili e gestibili. Questa semplice, ma potente idea continuerà a guidare le nostre scoperte e innovazioni nel mondo del calcolo per molti anni a venire.

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…raffinato equilibrio tra luce e ombra

Gordon Parks, artista del raffinato equilibrio tra luce e ombra, usava la sua macchina fotografica come finestra per aprire un mondo invisibile agli occhi della maggioranza. La sua arte era un paesaggio di percezioni esterne e interne, di realtà manifesta e latente, che prendeva vita attraverso le sue lenti.

In ogni scatto di Parks, si può avvertire un flusso incessante di immagini, un ritmo sotteso di luci, ombre, volti, storie. Il suo modo di fotografare era simile a una danza tra realtà e poesia, un esercizio di flusso di coscienza. La macchina fotografica diventava uno strumento di una narrazione più profonda, un linguaggio visivo che raccontava storie di lotta, resilienza, dolore e speranza.

Parks aveva un talento eccezionale per catturare la verità, per ritrarre l’umanità nascosta dietro i volti. Ogni nome, ogni soggetto era un tributo alla sua resilienza e alla sua dedizione. Questo richiedeva una tenacia inarrestabile nel cercare la verità attraverso la lente. Le sue storie toccavano il cuore, risvegliavano le coscienze e aprivano gli occhi del mondo alla realtà della vita di molte persone.

I suoi scatti trasmettevano un significato profondo. Parks non fotografava solo con l’occhio, ma con il cuore e l’anima. Le sue foto erano improntate di un’umanità tangibile, un senso di empatia e comprensione che rendeva ogni ritratto non solo un’immagine del soggetto, ma anche un microcosmo della società e della vita stessa. Ogni foto era un silenzioso grido contro l’ingiustizia, un tributo alla dignità umana, un appello all’amore e alla comprensione.

Gordon Parks era un poeta della luce, un narratore visivo, un testimone del suo tempo. Ogni sua immagine è un pezzo di storia, un momento immutabile catturato nel tempo, un ricordo indelebile impresso nel cuore di chi guarda. Un uomo, un artista, una leggenda. La sua arte risuona attraverso i decenni, risplendendo di una luce che continua a illuminare.

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…un canto sussurrato al nostro orecchio

Chien-Chi Chang, un seme piantato nel campo del mondo, un filo sottile d’argento che lega il manto celeste alla terra. Il suo linguaggio, la fotografia, è un tratto delicato che unisce la verità nuda alla bellezza sfuggente dell’esistenza.

C’è una vena di poesia che si snoda attraverso le sue immagini, un sentiero percorso a piedi nudi che ci guida attraverso il fitto della vita. Le sue fotografie, in bianco e nero, sono un canto sussurrato al nostro orecchio, storie di esuli e viaggiatori, di amori perduti e ritrovati.

Il mondo di Chang non è semplicemente ripreso, è vissuto e respirato. Si muove silenziosamente tra le pieghe della realtà, un flauto che suona la melodia dell’esistenza, accompagnando i nostri passi nel labirinto della vita.

La macchina fotografica è il suo strumento, non un semplice oggetto, ma una chiave che apre le porte del visibile e dell’invisibile. Con essa, scava nel terreno dell’umano, lasciando emergere volti, gesti, sguardi. Raccoglie storie come un contadino raccoglie il grano, mietendo la realtà in tutto il suo mistero e la sua crudezza.

Nelle sue opere si respira il palpito del mondo, il respiro profondo del vivere, del soffrire, del gioire. C’è l’amore per l’altro, per l’umano nella sua infinita varietà. Ecco il cuore pulsante del suo messaggio poetico: cogliere la vita in tutta la sua complessità, rendere il comune straordinario, il nascosto visibile.

Le sue fotografie non sono solo sguardi rubati alla realtà, ma pietre preziose raccolte lungo il cammino. Con esse, tesse il suo racconto, una trama sottile come il filo della vita, un canto che risuona nell’infinito silenzio dell’universo. E ci invita a danzare con lui, seguendo il ritmo del mondo, ascoltando la musica delle esistenze.

Così, Chien-Chi Chang, con il suo passo leggero, ci conduce per mano nel viaggio della vita. E noi, spettatori e partecipanti, attraversiamo con lui questo variegato panorama umano, arricchiti e commossi da ogni nuovo incontro, da ogni nuovo sguardo.

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Ritornare, partire, accelerare, accostarsi, sperimentare, fallire e tuttavia non rinunciare, deviare senza perdere il sentiero e perdere il sentiero solo per deviare. Alcuni individui nella nostra esistenza svolgono il ruolo analogo alla striscia continua lungo la carreggiata, che mentre ci tutela dall’eventualità del rischio, ci limita nel correre liberamente incontro al fato.

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…ogni scatto è una preda

Gilden, nella tempesta di luci e ombre della città, ritrae volti di un mondo spesso dimenticato. Suo complice, il flash, strumento potente che svela ogni ruga, ogni cicatrice, ogni storia. Come un pescatore che getta la rete nella realtà, ogni scatto è una preda, un frammento di verità catturato e rivelato.

Le sue fotografie sono poesie visive, immagini che parlano senza parole. Nelle sue serie “Faces” e “Coney Island”, non trovi bellezza convenzionale, ma tracce di vita vissuta, di storie silenziose che chiedono di essere raccontate. Non ritrae volti, ma anime, ognuna con la sua unica, complessa trama di gioia e sofferenza, di speranza e disperazione.

E così, nel rumore assordante della città, Gilden ascolta. Ascolta con l’obiettivo della sua macchina fotografica, cattura storie con un click, mette in luce verità con un flash. Non cerca di dipingere un quadro perfetto, ma di rivelare il disegno complesso, spesso imperfetto, della vita.

Il messaggio di Gilden è chiaro e potente come il suo flash. Invita a guardare oltre l’apparenza, a vedere la bellezza nascosta nelle imperfezioni, a riconoscere la dignità in ogni volto, in ogni storia. Il suo flash non è un’arma, ma uno strumento di verità, un faro che illumina le ombre della vita urbana.

Come in una danza, Gilden muove la sua macchina fotografica, cattura un attimo, una storia, una verità. Ogni scatto è un passo, ogni flash è un ritmo, ogni fotografia è un movimento. E nel mezzo di questa danza, Gilden ci mostra un mondo diverso, un mondo di volti e storie, di verità e bellezza.

E così, nel rumore della città, nel caos di luci e ombre, Gilden ci mostra un mondo di storie non raccontate. Ci mostra l’umanità e la dignità che risiedono in ogni volto, in ogni ruga, in ogni cicatrice. Ci mostra un mondo dove la bellezza non sta nella perfezione, ma nella verità, nelle storie non raccontate, nella vita vissuta.

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I ritratti di John Myers, le sue immagini, risuonano con una verità semplice e profonda, che attinge alla fontana della vita quotidiana. Come un poeta della lente, Myers ha il dono di pescare la bellezza nelle acque tranquille dell’ordinarietà. Le sue immagini non urlano, ma sussurrano, narrando storie di semplicità, di umanità, di momenti intrappolati nel tempo. I suoi ritratti degli anni ’70, affettuosamente noti come “The Middle England” series, sono un viaggio nel cuore della vita quotidiana della classe media britannica, un viaggio che esplora non solo un luogo, ma anche un tempo, un’epoca, un sentimento.

Ogni scatto di Myers è un atto di equilibrio, un delicato gioco di luce e ombra, di pieni e vuoti. I suoi soggetti sono catturati con una cura meticolosa, ogni dettaglio, ogni sfumatura, ogni contrasto si armonizza in un tutto che è più della somma delle sue parti.

Eppure, nonostante la precisione della sua tecnica, c’è un senso di leggerezza nelle sue fotografie, una leggerezza che fluttua come una piuma nel vento. È come se le sue immagini fossero sospese tra il cielo e la terra, tra il sogno e la realtà, tra l’essere e il divenire.

Il significato del suo lavoro, come il significato della vita stessa, è tanto multiforme quanto profondo. Le sue fotografie sono una finestra su un mondo che è insieme familiare e straniero, comune e straordinario. Sono un diario visivo di un’epoca, un ritratto intimo di persone e luoghi, ma sono anche uno specchio in cui possiamo vedere noi stessi, le nostre speranze, i nostri sogni, i nostri timori.

In ogni immagine di Myers, c’è un invito a fermarsi, a guardare, a riflettere. Le sue fotografie ci chiedono di vedere oltre il visibile, di ascoltare oltre il silenzio, di sentire oltre il tangibile. Ci chiedono di riconoscere la bellezza nelle piccole cose, la poesia nell’ordinario, il mistero nel quotidiano.

E così, attraverso il suo obiettivo, John Myers ci offre non solo un ritratto della vita, ma anche una riflessione sulla vita stessa. Il suo lavoro è un inno alla semplicità, un’ode alla bellezza, un tributo alla verità del momento. E in questo, ci ricorda che ogni attimo, ogni persona, ogni cosa ha un significato, una bellezza, una storia da raccontare. E ci invita a celebrare, a ricordare, a amare.

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La freccia del tempo…

Il tempo, quel filo sottile che ci lega al passato e ci proietta verso il futuro, è il protagonista di “La freccia del tempo”, un viaggio scientifico e filosofico. Un titolo che evoca immagini di un arco teso verso l’ignoto, un invito a riflettere sulla natura stessa del tempo, su come lo percepiamo e su come influisce sulla nostra esistenza.

Il tempo scorre come un fiume, mai fermo, sempre in movimento. Un concetto radicato nelle antiche civiltà, che vedevano il tempo come un ciclo, un eterno ritorno. Ma è anche un concetto che ha plasmato la tradizione giudaico-cristiana, dove il tempo è visto come un percorso lineare, un viaggio senza ritorno.

Coveney e Highfield ci guidano attraverso questo labirinto di idee, esplorando le teorie scientifiche che hanno cercato di svelare il mistero del tempo. Dalla teoria della relatività alla meccanica quantistica, dallo studio delle particelle elementari alla cosmologia evolutiva, ci offrono una panoramica completa e accessibile delle scoperte scientifiche più importanti.

Ma il tempo non è solo un concetto fisico, è anche un concetto umano. È legato alla nostra percezione del mondo, alla nostra esperienza della vita. Il libro ci invita a riflettere sulla natura del tempo, sulla sua irreversibilità, sulla sua relazione con l’entropia. Ma ci invita anche a riflettere sulle possibilità infinite del caos, sulla bellezza dell’auto-organizzazione, sulla creatività dell’evoluzione.

“La freccia del tempo” è un libro che ci sfida a guardare oltre le apparenze, a cercare la bellezza nel caos, a trovare l’ordine nel disordine. È un libro che ci ricorda che il tempo è un dono prezioso, un dono che dobbiamo sfruttare al meglio.

In questo viaggio affascinante attraverso il tempo, siamo invitati a riflettere, a sognare, a immaginare. Non c’è una conclusione definita, solo la promessa di un viaggio che continua, di una scoperta che non finisce mai. Come in un romanzo, ci troviamo a navigare nel fiume del tempo, lasciandoci portare dalla corrente, scoprendo la bellezza nascosta in ogni istante.

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…poetessa delle ombre

Vivian Cherry, guardiana del quotidiano e poetessa delle ombre. L’obiettivo della sua Leica, diventa il suo occhio, il suo mezzo per intercettare le trame nascoste nel grezzo tessuto della realtà urbana.

Inizia nelle viscere di una camera oscura, lì dove la magia avviene, lì dove le immagini sussurrano storie attraverso il gioco sottile tra luce e oscurità. Il grigio sbiadito dei negativi, il bagliore intensificato del bianco e nero, emergono come parole sussurrate, narrando storie mute e potenti.

Per le strade di New York, Vivian diventa un pellegrino della luce. Con la sua Leica, incornicia i dettagli più insignificanti, le espressioni più sfuggenti, le ombre più profonde. La sua arte non chiede, ma osserva; non pretende, ma ascolta. Le strade, gli angoli nascosti, i volti sfuggenti, diventano versi di una poesia visiva.

La tecnica di Vivian è un equilibrio di rispetto e audacia. Come un mimo, coglie il movimento naturale, l’armonia innata nelle linee e nelle forme del quotidiano. Non cerca di dominare la luce, ma di danzare con essa, di intrecciarsi nelle sue sfumature, nelle sue ombre, nella sua verità.

Vivian diventa narratrice degli invisibili, di coloro la cui esistenza è soffocata dal rumore della città. Trasforma la sua lente in uno specchio, riflettendo l’umanità nelle sue molteplici sfaccettature: l’innocenza che si aggira nei vicoli oscuri, la solitudine che affonda nelle panchine dei parchi, l’energia che pulsa nelle corde dei musicisti di strada.

Il ritmo dei suoi scatti è come quello di una melodia silenziosa, un linguaggio visivo che canta la vita, la lotta, la bellezza e il dolore. Ogni fotografia diventa un monologo silenzioso, un capitolo di una storia più grande, un ritratto di un mondo in continua evoluzione.

Così, nelle sue immagini, Vivian Cherry traccia una mappa della vita, un ritratto della realtà nei suoi colori più autentici. E in questa danza silenziosa tra luce e ombra, la sua arte parla una lingua universale, narrando storie di semplicità, di empatia, di umanità.

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…la luminosità velata di Napoli.

Mimmo Jodice. Un nome che sussurra la luminosità velata di Napoli, città che ha tessuto le sue prime visioni. L’occhio di Jodice è un faro, uno scrutatore quieto del mondo, sempre in caccia dell’essenza latente nelle cose.

Figlio del 1934, Jodice ha visto l’Italia mutare pelle, registrando le sue ferite e le sue risurrezioni. Eppure, nel movimento perpetuo del cambiamento, ha sempre rintracciato una costanza nelle sue immagini, trovando bellezza nelle forme più effimere e nelle ombre più fitte.

Per Jodice, la fotografia non è mero gesto meccanico, ma un abbraccio d’amore. Amore per la sua città, per l’arte, per l’umanità. Le sue immagini sono tracce, carte geografiche di una terra in costante metamorfosi, ma ancora saldamente ancorata alle sue radici. Le sue foto non gridano, sussurrano. Sono sussurri lasciati sulla carta, in un linguaggio universale di chiaroscuri.

L’espressività di Jodice sta nel plasmare l’ordinario, nel dar voce a vibrazioni di significati inaspettati. Ogni scatto è un racconto, una poesia d’immagine che trascende l’atto del vedere, persistendo impressa nel cuore e nella mente.

Jodice esplora luoghi dimenticati, edifici antichi in rovina, strade desolate. Non cerca la perfezione, ma l’autenticità. Nel suo lavoro, ogni crepa è una cicatrice che racconta una storia, ogni macchia è un’orma di vita.

L’opera di Jodice è un invito a guardare oltre, a non fermarsi alla superficie. Ci insegna che ogni luogo, ogni persona ha una storia da raccontare, se solo abbiamo il coraggio di ascoltare. Le sue foto sono come versi di una canzone mai scritta, melodie silenziose che parlano di noi e del mondo intorno.

Il mondo di Jodice è un mondo di silenzi parlanti, di bellezza nascosta, di memorie scavate nella pietra e nella luce. Un mondo in cui il tempo si sospende per un attimo, e in quell’attimo si condensa un’eternità.

Mimmo Jodice, l’artista che con la sua lente ci ha insegnato a vedere e a ricordare. Ci ha donato un linguaggio visivo in cui bellezza e umanità sono sempre al centro, nonostante le ombre che possono celarle. Un silenzioso maestro che continua a parlare attraverso le sue immagini, che non sono solo foto, ma finestre aperte su un mondo da scoprire e amare.

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