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Goodnight Mommy…

I dreamed I held you in my arms
When I awoke, dear, I was mistaken

— da You Are My Sunshine

Il remake del 2022 di “Goodnight Mommy”, la celebrità austriaca Susan Wuest, fasciata, distorta, il volto nascosto, un mistero. Lei ritorna a casa, incontra i gemelli, Elias e Lukas. Come nel 2014, si chiedono, è davvero lei? La stessa domanda, la stessa tensione. Eppure, tutto è diverso.

Silenzio nella casa, un silenzio pesante, insostenibile, finestre oscurate, occhi banditi, niente luce, solo ombre. Regole severe, un ecosistema di paura, la madre si trasforma, è estranea, distante, come nel film originale, ma ancora più glaciale, più minacciosa.

Una fotografia, occhi verdi al posto degli azzurri, i dubbi si fanno certezze, l’impostora. Una corsa verso la libertà, interrotta, ritorno forzato, come un déjà vu del 2014, eppure diverso, diverso.

Scatta qualcosa nei ragazzi, il potere si rovescia, la madre legata, un interrogatorio gelido. Parole che feriscono, risposte evasive, verità nascoste. Il ritmo accelera, rispetto all’originale, il terrore si intensifica, si avvicina.

La rivelazione, Lukas è morto, Elias vive un incubo, la realtà si frantuma. Un colpo al cuore, un tormento interiore, una tragedia inaudita. Come un echi dell’originale, ma ancora più angosciante, più cupo.

Il remake di “Goodnight Mommy”, un viaggio nel terrore e nella paranoia, un labirinto di identità o una crudeltà? Come l’originale, divide, sconvolge, colpisce. Due film, un solo titolo, un’unica paura. Un thriller psicologico, un’esperienza oscura, un incubo che rimane. “Goodnight Mommy”, un nuovo film che riflette e distorce l’originale, risuonando con echi del passato e creando nuove ombre da temere.

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La libertà di stampa…

In un contesto di guerra, il giornalismo rappresenta il baluardo della verità, svelando l’aspetto più crudo dei conflitti direttamente dal fronte. Tuttavia, l’attuale invasione russa dell’Ucraina ha creato una situazione complessa che vede i giornalisti in un delicato gioco di equilibri con il governo ucraino.

La rivelazione è giunta da Ben Smith, una figura di spicco nel panorama giornalistico internazionale, che ha segnalato una tensione latente tra i giornalisti e l’amministrazione ucraina. La tattica adottata dal governo di Kiev per mantenere il controllo sulla narrazione del conflitto si è manifestata nell’uso strategico delle accreditazioni stampa. Queste credenziali, essenziali per la libera circolazione e l’operatività dei giornalisti, possono essere revocate o negate se la resocontazione dei fatti non corrisponde alle aspettative del governo.

Tale dinamica non ha risparmiato nemmeno i media locali, come dimostra il caso del sito ucraino Hromadske. Eppure, le voci di protesta sono rimaste per lo più sottotono, alimentate dalla paura di suscitare reazioni ancora più severe da parte del governo ucraino.

Si potrebbe essere inclini a comprendere le azioni del governo ucraino, in vista dell’aggressione di un avversario molto più grande e noto per la sua politica di manipolazione mediatica, come la Russia. Tuttavia, un comportamento scorretto non può essere giustificato dalle circostanze o dalle intenzioni.

La giornalista ucraina Nastja Stanko ha ricordato l’importanza fondamentale dei giornalisti in grado di documentare onestamente gli eventi sul terreno. Questa consapevolezza potrebbe non essere diffusa in tutto l’apparato militare ucraino, ma è vitale per preservare la trasparenza e l’integrità del giornalismo di guerra.

In un’epoca in cui le notizie false possono diffondersi con velocità vertiginosa, creando una narrativa distorta, l’importanza di un giornalismo accurato e onesto diventa ancor più cruciale. La libertà di stampa non dovrebbe essere un ostaggio della guerra, ma un antidoto alla manipolazione e alla disinformazione. Solo attraverso la salvaguardia di questa libertà, la verità non sarà la prima vittima del conflitto, ma una luce che guida verso la risoluzione della guerra.

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…un torrente di giovinezza e innovazione.

Ettore Majorana, firma impressa nel codice segreto dell’universo, labirinto insondabile di rivelazioni e misteri. La sua vita nell’arena matematica inizia tra i muri eterni di Roma, dove le strade dell’ingegneria si intrecciano per la prima volta con le sue orme. Nei corridoi accademici, le sue impronte risuonano ancora con le eco di una genialità precoce. Pittarelli, il veterano, la mente ancora agile come un filo d’acqua, viene spazzato via da un torrente di giovinezza e innovazione.

In queste mura di conoscenza, Majorana trova un terreno fertile, nonostante i limiti di un sistema educativo ancorato al passato. Le sue intuizioni affrontano la rigidità dei metodi con l’audacia di un viaggiatore che non teme l’orizzonte. Eppure, l’intelletto di Majorana brilla più intensamente quando si dedica agli altri, quando spiana la strada per coloro che si perdono nel bosco denso dell’apprendimento.

Risuonano ancora le parole di Gastone Piquè, compagno di un tempo, che affrontava un problema come un gigante invincibile. Quattro pagine di calcoli, intricati come un groviglio, sotto la guida di Majorana diventano quattro parole, ponte verso la comprensione. Quel ponte diventa la chiave del successo nell’esame, lasciando il professore stupito. Majorana, eroe silenzioso, si fa carico anche dell’esame di un amico, dimostrando un’audacia unica.

Majorana, fiore raro nel giardino della scienza, lascia dietro di sé un’eco che riecheggia nei corridoi dell’Università e tra le pagine dei libri. Anche se le sue teorie continuano a sfidare e a rivoluzionare la fisica moderna, persiste il mistero della sua vita, un enigma ancora insondato, il ricordo di una risata nei corridoi dell’Università, il sussurro di una formula perduto nel vento di Roma.

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L’iPhone del signor Harrigan…

Un racconto, un ruscello di parole che si avventura in valli ancora vergini, là dove l’occhio umano non ha ancora scandagliato. La tecnologia, quel vento che non risparmia nulla, trascina vite, sogni, anche le ombre sfuggenti di noi mortali. S’incarcera in un iPhone, sasso levigato dal tempo e lustrato dall’uso, un ponte ardito che sfida le acque tumultuose della morte.

Ma ascolta, nell’aria sottile del vuoto, c’è un canto. Non è un canto innocente, non è una ninnananna. È un grido che risuona nelle valli, un peso che ci opprime il petto. Il desiderio di potere, l’ansia della vendetta, contamina l’armonia del canto, lo trasforma in una freccia avvelenata. Un veleno che si diffonde, che acceca i cuori e offusca i pensieri, eredità oscura di un’epoca che, presuntuosa, si crede onnisciente, onnipotente.

Qui, nel cuore stesso del racconto, là dove pulsa l’essenza, là dove risiede l’anima, qui sanguina la storia. Si infiltra nelle pieghe più intime del nostro bisogno di dominio, si insinua nelle crepe del muro che erigiamo per proteggere la nostra umanità. L’iPhone del signor Harrigan non è solo un oggetto, è un testimone silenzioso, uno specchio in cui si riflette il nostro tempo, una lente che amplifica e distorce le nostre paure, i nostri sogni, le nostre ambizioni.

Ecco una melodia che risuona antica, un canto di sirene che ci invita verso il pericolo, che alimenta il nostro desiderio. Ci ricorda di ascoltare, di guardare oltre l’apparenza, ci sussurra che le parole non sono solo piume al vento, che le azioni sono pietre lanciate in uno stagno e che creano onde che si propagano all’infinito. La tecnologia, attenzione, non è solo un mezzo, può diventare il nostro scopo, può diventare il labirinto nel quale ci perdiamo. Ecco il richiamo, la lezione sospesa tra le righe, il canto amaro che risuona solitario nel silenzio della nostra epoca.

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La “rosa primigenia” è un simbolo del mondo terreno, bello ma effimero. Il suo nome (cioè l’idea o l’essenza di essa), tuttavia, sopravvive alla sua decadenza fisica. In questo senso, “nomina nuda tenemus” (abbiamo solo i nudi nomi) indica che tutto ciò che possiamo davvero possedere o conoscere di un oggetto o di un’entità sono i suoi nomi, le parole o le idee che usiamo per descriverlo o comprenderlo.
È interessante osservare che Umberto Eco amplia ulteriormente il significato di questa massima, sottolineando come i nomi e le parole non siano solo ciò che rimane dopo la distruzione delle cose fisiche, ma siano anche strumenti fondamentali per la nostra comprensione e interpretazione del mondo.

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…un ritratto del tempo

Thomas Hoepker, un iconico fotografo e documentarista tedesco, ha intessuto un filo sottile ma vivido attraverso i decenni della sua carriera, raffigurando le sfumature del mondo con un senso di verità indomabile.

Nato il 10 giugno 1936, Hoepker ha abbracciato la fotografia nei primi anni ’60, raccontando storie visive per varie riviste tedesche. Da allora, ha navigato nel mare dell’esistenza umana con il suo obiettivo, catturando momenti straordinari nel flusso della vita quotidiana.

Le fotografie di Hoepker brillano di un’energia che solo lui sa evocare. Ogni scatto riflette la sua ricerca costante della luce perfetta, del dettaglio nascosto, del linguaggio silenzioso delle espressioni umane. E in questa esplorazione, ogni fotografia diventa un ritratto del tempo, un frammento indimenticabile della realtà.

La filosofia di Hoepker dietro la fotografia è tanto semplice quanto eloquente: “Una foto deve parlare da sola, accompagnata il meno possibile da parole”. È una convinzione che pervade il suo lavoro, trasformando ogni immagine in un racconto di emozioni, una storia silenziosa che risuona a lungo nella mente del osservatore.

Hoepker è un maestro della tecnica fotografica, sfruttando l’illuminazione naturale e gli angoli unici per catturare il mondo con precisione e onestà. Preferisce l’autenticità delle impostazioni manuali alle facili soluzioni della tecnologia automatica, e il suo amore per il bianco e nero evidenzia la profondità emotiva di ogni immagine.

Le fotografie di Hoepker parlano in un linguaggio universale. Alcune sono testimonianze di momenti storici, come il suo scatto indimenticabile dell’11 settembre 2001, mentre altre riflettono la società e la condizione umana con una chiarezza disarmante.

Come un fiume che scorre senza sosta, la carriera di Hoepker ha viaggiato attraverso il tempo, esplorando il mondo con una curiosità insaziabile. E in ogni scatto, ci offre un assaggio della sua visione, un invito ad immergerci nel flusso della vita e a vedere il mondo con i suoi occhi.

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…costringe a guardare oltre l’apparenza

Paolo Pellegrin, immagine dopo immagine, imprime sul mondo il marchio della sua visione. Italiano di nascita, globalizzato nel cuore, trova la sua vocazione nella sconvolgente bellezza del caos del mondo. Per lui la macchina fotografica non è un semplice strumento, ma un prolungamento del suo sguardo, un’appendice del suo intelletto.

Nel mondo, Pellegrin ritrae un universo di contrasti, ombre e luci, silenzi e fragori, un affresco vivente che si disegna negli attimi rubati alla realtà. Dagli orrori della guerra ai ritratti toccanti di volti anonimi, ciascuna sua foto è un inno alla forza dell’essere umano, un pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato.

La sua tecnica è un flusso inarrestabile di spontaneità e rigore, uno straordinario equilibrio tra il cuore e la mente. C’è una precisione quasi chirurgica nel modo in cui Pellegrin incornicia i suoi soggetti, un acuto senso del dettaglio che raramente si vede. Le sue fotografie sono spesso imbevute di una luce soffusa, un chiaroscuro che dona profondità e drammaticità alle immagini.

Il suo messaggio artistico ed estetico è potente, quasi sussurrato. Non c’è un grido di protesta nelle sue foto, ma un lamento sommesso che risuona come un’eco lontana. Eppure, nonostante il dolore palpabile, c’è sempre un barlume di speranza, una sorta di resilienza silenziosa che si riflette nei volti che ritrae.

Pellegrin è un poeta dell’obiettivo, un cantastorie visuale la cui biografia artistica si scrive nell’infinito scorrere delle immagini. La sua arte è un dialogo senza parole, una testimonianza silenziosa del mondo in cui viviamo. Ogni scatto, ogni inquadratura è una poesia visiva, un viaggio intenso e a tratti doloroso nella realtà che ci circonda.

E così, nel flusso della coscienza, emerge il ritratto di Paolo Pellegrin. Un artista che attraverso la lente di una macchina fotografica esplora, comprende, racconta. Un testimone del suo tempo, un osservatore attento e sensibile del mondo. Un narratore che con le sue immagini ci fa riflettere, ci emoziona, ci costringe a guardare oltre l’apparenza. E in quel guardare, c’è un invito all’umanità, un richiamo alla nostra comune fragilità e forza. Un artista, in tutto e per tutto.

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…ha visto la bellezza nel buio

Diane Arbus, un nome che risuona, un nome che cattura, un nome che rivela. È lei, è lei, l’artista, la fotografa, quella che ha cambiato tutto, quella che ha guardato dove altri si giravano, quella che ha visto la bellezza nel buio, nell’ombra, nell’emarginato.

Parte dal mondo della moda, un mondo luccicante, un mondo artificiale, un mondo di sorrisi dipinti e pose innaturali. Non basta, non basta, sente che non basta. Così va oltre, si spinge dove altri non osano, negli angoli bui, nelle case degli sconosciuti, negli ospedali psichiatrici. Ogni scatto, un segno, ogni scatto, una traccia, ogni scatto, una verità.

E lo stile, lo stile… Oh, che stile. Bianco e nero, bianco e nero, un contrasto netto, un contrasto che racconta. Non c’è dolcezza, non c’è pietà, c’è solo la verità, la verità nuda e cruda. Ogni soggetto è un’emozione, ogni soggetto è un pensiero, ogni soggetto è un pezzo di umanità

.

E poi c’è il viaggio, il viaggio di scoperta, il viaggio di rivelazione. Non vuole essere solo un’osservatrice, vuole far parte della storia, vuole far parte della vita. Ogni foto è una dichiarazione, ogni foto è un grido, ogni foto è un pezzo di vita.

Ma non è solo arte, non è solo fotografia. C’è di più, c’è il significato civile, c’è il dialogo, c’è la provocazione. Vuole far parlare le sue foto, vuole far parlare i suoi soggetti, vuole far parlare il mondo. E così, con ogni scatto, con ogni foto, con ogni storia, Diane Arbus cambia il modo in cui vediamo il mondo, il modo in cui vediamo la fotografia, il modo in cui vediamo noi stessi.

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Polvere…

Ricorda che sei polvere: d’accordo.
Se però posso scegliere di cosa:
non dell’oro, non della conchiglia,
ma polvere di gesso
di una parola appena cancellata
dalla superficie di lavagna.
E intorno un’aula di scolari applaude
la fine della scuola.

Erri De Luca

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