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John Forbes Nash Jr., noto come John Nash, è stato uno degli eroi matematici più importanti del ventesimo secolo. Nato il 13 giugno 1928, Nash è rimasto una figura iconica non solo per i suoi contributi rivoluzionari alla teoria dei giochi, ma anche per la sua battaglia personale contro la schizofrenia.

Sin da piccolo, Nash si distinse per la sua intelligenza straordinaria. Sua sorella Martha lo descrisse come “diverso, ma brillante”, un ritratto che incapsula perfettamente la singolarità del suo genio. Introvertito e concentrato sui libri, Nash sviluppò un interesse per la matematica intorno ai 14 anni che avrebbe definito il corso della sua vita.

Nash iniziò i suoi studi superiore al Carnegie Institute of Technology nel 1945 con l’intenzione di laurearsi in ingegneria chimica. Tuttavia, il suo interesse innato per la matematica lo portò a seguire corsi specialistici in calcolo tensoriale e relatività. Questo percorso di studi lo portò infine alla Princeton University nel 1948, dove iniziò il suo dottorato di ricerca con una lettera di presentazione lapidaria che affermava: “È un genio della matematica.”

A Princeton, Nash affrontò una serie di aree complesse all’interno della matematica pura, con un focus particolare sulla topologia, la geometria algebrica, la logica e, soprattutto, la teoria dei giochi. Il suo approccio alla ricerca era molto indipendente; raramente frequentava lezioni, preferendo immergersi nelle sue proprie indagini.

La teoria dei giochi, in particolare, si rivelò una parte fondamentale del suo lavoro. Nel 1949, scrisse un articolo che avrebbe cambiato il volto di questa disciplina. Il suo concetto di “equilibrio di Nash” – una situazione in cui nessun giocatore può migliorare il proprio risultato cambiando unilateralmente la propria strategia – divenne un pilastro della teoria dei giochi. Questo lavoro gli avrebbe infine valso il premio Nobel per l’economia nel 1994.

Oltre alla teoria dei giochi, Nash ha lasciato un’impronta indelebile in vari campi della matematica, tra cui la geometria algebrica, le equazioni differenziali paraboliche e le equazioni differenziali alle derivate parziali. Queste scoperte hanno influenzato una serie di settori, dall’informatica alla fisica, dimostrando la portata del suo genio.

Nonostante il suo straordinario successo accademico, la vita di Nash fu segnata da una lotta personale con la schizofrenia paranoide. Diagnosi ricevuta nel 1959, la malattia costrinse Nash a ritirarsi dalla sua posizione al MIT. Tuttavia, in un’incredibile dimostrazione di resilienza, continuò a produrre ricerche rispettabili, trovando un modo per bilanciare i suoi deliri e la sua scienza.

Dopo decenni di lotta, Nash riuscì a ottenere un controllo significativo sulla sua malattia. Nel suo discorso all’associazione Nobel nel 1994, disse: “Quindi in questo momento mi sembra di pensare di nuovo in modo razionale, nello stile che contraddistingue gli scienziati.”

Nel 2015, Nash e sua moglie, Alicia Larde, furono premiati con il prestigioso premio Abel per i loro contributi alla matematica. Tuttavia, il loro ritorno dalla Norvegia fu tragico, con entrambi che persero la vita in un incidente stradale.

John Nash rimarrà nella storia come un matematico di grandissimo talento e un uomo che ha superato enormi difficoltà personali. La sua storia illustra la forza della determinazione umana e il potere del pensiero scientifico, evidenziando come il genio possa fiorire anche in mezzo alle sfide più difficili.

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rimango in silenzio e mi dispiace…

Sono una persona di poche parole e non mi ritengo un grande conversatore. Nonostante sia capace di ascoltare in mezzo alla gente, raramente prendo la parola, a meno che non abbia bevuto un po’ di birra. Amo il mio silenzio e mi sorprende l’effervescenza che circonda un evento che dovrebbe essere silenzioso: la morte.

Ho difficoltà anche ai funerali dove mi sento obbligato a partecipare. Non entro in chiesa, sia per mancanza di fede, ma anche perché apprezzo quel silenzio unico e peculiare che si vive fuori dalle chiese durante i funerali, un silenzio che consente riflessione e memoria.

Tuttavia, di recente siamo stati sommersi da un rumore tremendo e cacofonico alla morte del politico più amato e odiato della nostra storia recente. Chi lo ha amato ci ha tenuto a urlarlo ai quattro social, così come chi l’ha odiato, creando una contrapposizione identica a quella tra i perdenti della finale e quelli che godevano della sconfitta. In un paese dove tutto gira intorno al calcio e al tifo, la morte di Berlusconi è diventata un’occasione per esprimere le proprie opinioni, per ricordare, per raccontare.

La sezione necrologica del Corriere è così piena che non riesce a contenere tutti gli annunci. Almeno questi ultimi pagano per essere presenti, a differenza del mare di social media, dove nessuno riconosce la morte di un uomo complesso e sfaccettato. Alcuni lo vedono come un santo, altri come un individuo spregevole. Senza distinzioni, senza un senso di compassione o consapevolezza del dolore altrui che raramente emerge.
La mitomania si diffonde. I consiglieri comunali di Genova del PD e del Movimento Cinque Stelle lasciano l’aula durante il minuto di silenzio per Berlusconi, dimostrando la loro incapacità e segnalando la loro sconfitta nelle elezioni per i prossimi secoli. Parallelamente, un’immagine gigante di Berlusconi appare sulla facciata del palazzo della Regione Liguria, come se fosse morto un dittatore nordcoreano, trasformando tutto in uno show stile Las Vegas. Salvini va in tv e dei 30 anni di politica di Berlusconi ricorda solo che gli chiese di tagliarsi la barba e lui senza la barba sta male. Poi torna a casa e posta una foto di sé che si rade la barba in memoria di Berlusconi. (Mi domando, seriamente, se qualcuno lo stia seguendo – uno buono, intendo – o consigliando).

Tutti sono in fermento e quelli che fanno battute cercano di essere i primi a farle. “Aspettiamo tre giorni”, l’ho letta trecento volte. Molti di coloro che lo odiavano scrivono parole eleganti e compassionevoli, forse capendo che odiarlo ha definito la loro identità, ha dato un senso alla loro esistenza. Quanti giornalisti, comici, politici non sarebbero quello che sono senza l’antiberlusconismo militante? Il Fatto ha titolato “Il Banana” – con un orgoglio a malapena nascosto – Sì, siamo noi che per primi lo abbiamo combattuto. Lo abbiamo chiamato Il Banana, ma anche lo psiconano.
Ma ora è morto. La partita è finita. Non c’è un terzo tempo nella vita…

E così, rimango in silenzio e mi dispiace per la morte di un altro che invece mi ha fatto ridere consapevolmente.

Mi riferisco alla morte di Francesco Nuti che, tra i tanti errori commessi nella seconda parte della sua vita, ha sbagliato anche il giorno in cui morire. Ma Francesco Nuti faceva ridere, aveva senso del ritmo, sapeva scrivere. E “Caruso Pascoski” è un capolavoro. E quando toccherà a me, in quel momento in cui ti dicono che la tua vita ti passa davanti, mi rivedrò al cinema Lendi, ridendo fino alle lacrime, guardando la scena in cui, dopo aver picchiato un bambino che lo aveva infastidito per tutto il film, lo trascina in un vicolo per dargli una lezione, poi esce e il bambino gli urla ancora “stronzo!”. E lui prende in mano una sbarra di ferro e torna indietro per dargli il colpo di grazia.
Madonna!

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un labirinto di sfide e opportunità…

Nel vasto panorama dell’istruzione, l’intelligenza artificiale (IA) si insinua come un vento sotterraneo che penetra nelle fessure. È un fantasma digitale che sussurra nelle aule vuote, capace di destare sia timore che stupore.

Si agita un dilemma: la IA, con i suoi modelli di lingua sofisticati come ChatGPT di OpenAI, potrebbe prendere in prestito le penne degli studenti, dettando compiti e dissertazioni con la sua voce senza corpo. E così, l’elaborazione critica e il lavoro cerebrale potrebbero venire usurpati da questa ombra meccanica. Così facendo, l’autenticità del lavoro studentesco sbiadirebbe come inchiostro al sole, privando gli allievi dell’occasione di coltivare la scrittura e la riflessione. Sarebbe come se l’intelletto umano venisse gentilmente invitato a fare un passo indietro, lasciando che la IA si impossessi del timone dell’educazione.

Eppure, all’orizzonte, si scorge anche un’alba di opportunità. L’IA, lontana dall’essere un semplice sostituto, potrebbe diventare un catalizzatore dell’apprendimento. Può suggerire, revisionare, proporre, e in questo modo tessere una tela di possibilità di apprendimento. La sua presenza può alimentare la creatività e la competenza degli studenti, non soffocarla.

Per affrontare questa silente rivoluzione, è necessario reinventare il nostro approccio all’istruzione. Il terreno sacro dei compiti a casa deve essere riconsiderato, permettendo agli studenti di scavare nelle proprie passioni piuttosto che in terreni estranei. La valutazione, quel giudice spietato dell’apprendimento, potrebbe essere messa da parte, lasciando spazio alla comprensione e all’applicazione della conoscenza.

La presenza dell’IA nell’istruzione è un labirinto di sfide e opportunità, un percorso pieno di biforcazioni e incroci. Il modo in cui scegliamo di affrontarlo determinerà se l’IA diventerà un ostacolo o un aiuto. Ma in questo viaggio, non dobbiamo dimenticare che il faro che ci guida è l’istruzione stessa, con il suo obiettivo di nutrire non solo l’intelletto, ma anche il carattere degli studenti. Con una bussola ben calibrata, l’IA può trasformarsi da invasore a alleato prezioso, accompagnandoci nel viaggio dell’istruzione del futuro.

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Le nostre debolezze…

Silvio Berlusconi non era l’italiano-tipo. Al contrario, gli riusciva bene cavalcare le nostre debolezze. Per anni, è stato il complice della nostra condizione. Peccato che quello di cui avevamo bisogno era un autentico leader…

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Come se…

Se c’è una saggezza che ho colto da questa bizzarra esistenza, è che la vita merita essere vissuta come se… Come se tutte le chimere da noi confezionate (l’amore, l’amicizia, la famiglia, la gloria, Dio…) fossero piene di concretezza, come veli delicati a rivestire il vuoto.

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alla fine ho deciso…

Vabbè, alla fine ho deciso… Sì, è così: ho deciso, la decisione è presa come un tuono a cielo sereno… è capitato durante l’omelia del vescovo (o era forse l’arcivescovo di Milano? Boh?! mica l’ho capito, cazzo!) quell’uomo – il vescovo o l’arcivescovo che sia, intendo – dalle parole dolci e persuadenti, come una rondine che si perde all’orizzonte, alla fine m’ha convinto.
Stavo assistendo al funerale di Berlusconi, quando mi so’ ritrovato sommerso da una valanga di sentimenti, un’esplosione di pensieri dissonanti, una rivelazione… Mi converto, ho detto, mi converto – ho sbottato felice! Io, che mi sono sempre proclamato ateo – o, per meglio dire, ateista -, come un albero solitario in un campo di girasoli, sentendo quelle parole, quel discorso, ho capito… sì, cazzo, ho capito!
I preti, questi uomini di Dio, soldati buoni e giudiziosi, così bravi, accomodanti e misericordiosi, non giudicano, oh no, non giudicano affatto. Anzi! Bunga-bunga, pensavo, Bunga-Bunga con le giovani fanciulle, minorenni anche, forse pure nipotine di Mubarak, quelle stesse che Berlusconi, forse – a sto punto tocca mettere in dubbio qualunque cosa, e il “forse” qui ci sta tutto, ci sta – accolse con sorrisi e abbracci… Evadere il fisco, comprare i voti di un senatore, uno qualsiasi di quei politicucci politicanti impolverati e ricoperti di promesse, tutto per il potere del voto, tutto in nome dell’ ‘amore della vita’.
Amore della vita, amore dell’eccesso, del mentire e del frodare, sfruttare e occultare, del comprare la dignità di una donna con il vil denaro, del godere nel dominare ché – sostengono dalle mie parti – ‘o cumannà è meglio d’ ‘o fottere… tutto questo, dicevo, era la vita di Berlusconi, eppure l’omelia lo dipingeva come un uomo che forse (forse!) aveva peccato per eccesso di amore per la vita. Un concetto curioso, quasi romantico, alto, alto assai, altissimo, direi; se non fosse per l’amarezza che lascia in bocca. Eppure, chi crede in Dio, non teme questo eccesso, ché in Dio, diceva il vescovo o l’arcivescovo… insomma, ci siamo capiti, questo eccesso, ecco, trova comunque un limite.
Sì, l’arroganza dell’uomo, l’ambizione, il desiderio di potere, tutto questo si scontra con Dio, alla fine sempre e solo Dio. Dio che decide, Dio che giudica, Dio che risolve tutto, che appara (direbbero i miei corregionali) come un deus ex machina in un dramma greco (direbbero, invece, quelli che hanno studiato). Se questo è un uomo – e Silvio nostro lo era, cazzo, lo era -, allora lasciate che l’uomo viva e ami e pecchi, e Dio sistemerà tutto, non c’è bisogno delle leggi umane, delle convenzioni sociali, della giustizia, della verità.
Quel tipo che salmodiava dal Duomo, oh!, come l’ho ammirato. Come un asceta che ha trascorso le sue giornate a leggere il marchese de Sade anziché il Vangelo. Quell’uomo ha trovato la strada al di là del bene e del male, ha trovato la chiave per aprire le porte della percezione; al di là dei limiti della carne e del senso di giustizia di questo nostro strano mondo. Mi converto, ho pensato, stavolta forse mi converto, cazzo!

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…un richiamo all’azione

Sergio Larraín evoca immagini di sagome a sfondo di strade strette, bambini a piedi nudi che giocano nelle strade polverose, luci e ombre intrecciate in un balletto eterno. Nato nel 1931 a Santiago, Cile, la sua attitudine per la fotografia era un fenomeno innato, un bocciolo che fioriva a suo modo.

Il viaggio artistico di Larraín iniziò con una Leica regalatagli dal padre. Da quel momento, la fotografia divenne il suo linguaggio, il suo modo di esprimere il mondo che vedeva, sentiva, respirava. Le sue foto non erano solo immagini; erano frammenti di tempo congelati, storie silenziose che parlavano attraverso i toni del bianco e nero.

La tecnica di Larraín era pura intuizione. Le sue foto avevano un ritmo, un flusso che le rendeva uniche. Catturava i momenti di transizione, l’attimo prima che un evento accadesse, l’istante in cui un volto si trasformava in una smorfia di sorpresa, la frazione di secondo in cui la luce del sole filtrava attraverso le foglie di un albero. Questa capacità di catturare l’effimero, di bloccare il tempo, definisce l’estetica di Larraín.

Il suo stile era una miscela di realismo magico e reportage. Non c’erano pose preparate o inquadrature artificiali. Larraín si immergeva nel flusso della vita, assorbendo il ritmo frenetico delle città, la tranquillità delle campagne, la vivacità dei mercati. Le sue immagini erano il riflesso della sua anima, trasudavano la sua curiosità, la sua empatia, la sua passione per la vita.

Il messaggio che Larraín esprimeva attraverso le sue foto era multiforme. Era un appello all’umanità, un invito a osservare e apprezzare i momenti quotidiani, a svelare la bellezza nascosta nel banale, a percepire l’universale nell’individuale. Le sue immagini erano anche un richiamo all’azione, un monito sulla fragilità del nostro pianeta, sulla necessità di proteggere la natura e di lottare per l’equità sociale.

Nel 1972, Larraín si ritirò dalla fotografia per dedicarsi alla meditazione e alla spiritualità, ma il suo lascito artistico continua a vivere, a influenzare le generazioni di fotografi. Sergio Larraín, un poeta della luce, un narratore dell’umano, un testimone del tempo, la cui vita e arte continuarono a riverberare come un’eco infinito.

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un mondo che vibra di vita e di contrasti…

Bruno Barbey, nato nel 1941 in Marocco, è un tessitore di storie visive, un artista che parla attraverso l’obiettivo. Le sue radici franco-marocchine si intrecciano nella trama di ogni suo scatto, riflettendo un mosaico di culture e contrasti che riflettono la diversità del mondo.

L’occhio di Barbey cerca il contrasto: luce contro ombra, antico contro moderno, ordine contro caos. Cattura questi dualismi con un’acutezza che rivela la tensione e l’armonia che convivono in ogni scena. Non si accontenta di superfici uniformi, ma cerca i crepuscoli di luce, le ombre lunghe e i mille volti di ogni storia.

Predilige la fotografia a colori, portando la saturazione a nuovi livelli di audacia. A un tempo audace e sofisticata, la sua tecnica coloristica apre finestre su mondi invisibili. Ogni immagine è una tavolozza di toni e tonalità che sembrano avvolgere e abbracciare l’osservatore, invitandolo a entrare nel quadro, a sentirne l’energia vitale.

Riservando un profondo rispetto per il suo soggetto, Barbey mostra la vita quotidiana nelle sue molteplici sfaccettature, sia in tempo di pace che in tempo di guerra. I suoi scatti rivelano una profonda umanità, un occhio attento a cogliere la bellezza e la dignità anche nei momenti più duri.

Oltre a essere un fotografo, Barbey è un poeta visivo. Non si limita a raccontare, ma evoca, provoca, stimola. Le sue immagini non sono solo rappresentazioni, ma interpretazioni. Aperture di dialogo tra lui e il soggetto, tra il soggetto e l’osservatore.

Il lavoro di Barbey è un viaggio. Un viaggio che, come un sentiero in montagna, si snoda tra valli e cime, tra ombre e luci. Ogni fotografia è un passo lungo questo percorso, un sussurro di una storia più grande. E anche se ogni immagine ha il suo valore singolare, insieme formano un racconto, una sinfonia di voci che insieme raccontano l’opera complessa e affascinante di questo maestro della fotografia.

Il mondo visto attraverso l’obiettivo di Bruno Barbey è un mondo che vibra di vita e di contrasti, un mondo in cui ogni fotografia è un racconto che attende di essere ascoltato.

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…un pezzo di eternità

Fotografia, pensi, la fotografia. Puoi quasi sentire il clic della macchina, la luce che si fissa sulla pellicola, il momento che si congela. Non è soltanto un’immagine, no, non lo è mai stato. È un pezzo di tempo, un pezzo di vita, un pezzo dell’anima che vibra in quell’istante. Bruno Barbey, si, proprio lui, ha visto Napoli, l’ha assorbita, l’ha resa eterna, un gioco di bambini, un mendicante, una strada. Quella strada. Via dei Tribunali, 171. L’indirizzo danza nella tua mente, come un mantra, un segno, un punto nel tempo che è rimasto invariato, quasi come una sfida al tempo stesso.

Ti perdi in un pensiero, la fotografia non è solo una testimonianza, è un viaggio. Una porta che si apre, ti catapulta indietro o ti proietta avanti. Rivela l’invisibile, ti sussurra segreti, ti fa toccare con mano la bellezza, il dolore, la gioia, la realtà nella sua nuda verità. Ecco cosa fa una fotografia. Cattura un’emozione, una storia, una vita.

Ma aspetta, c’è di più. C’è sempre di più. La fotografia parla. Racconta storie. Può essere un grido silenzioso o una risata silenziosa. Può farti piangere o sorridere. Può farti pensare o sognare. Ogni fotografia è un discorso silenzioso, una canzone senza note, un ballo senza movimenti. È un dialogo senza parole tra l’artista e te.

E Barthes? Roland Barthes diceva che la fotografia ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente. Ma non è vero, o forse lo è, ma solo in parte. Perché ogni ripetizione, ogni copia, ogni imitazione porta con sé qualcosa di nuovo, di diverso, di unico. Il particolare assoluto non muore, non si estingue, si rigenera, si rinnova, si reinventa. Si nutre di nuove interpretazioni, di nuove prospettive, di nuovi sguardi.

Chiudi gli occhi e pensi: la fotografia è magia. È il modo in cui l’effimero diventa eterno, l’ordinario diventa straordinario, il silenzio diventa parola. È un ponte, sì, un ponte che collega il visibile all’invisibile, il reale all’immaginario, l’individuale all’universale. E in quell’istante, capisci. Capisci la bellezza, l’importanza, il potere della fotografia. E sorridi, sorridi perché senti di avere in mano un pezzo di eternità. E non c’è niente di più bello.

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guardare, riflettere, comprendere…

IRAQ. Outskirts of Mosul. March 2017. Civilians fleeing from Mosul.

Lorenzo Meloni, un suono che riecheggia nell’aria, una nota che cade sul pentagramma del mondo, fra l’ombra e la luce. Fotografo, uomo d’Italia, saggio dei volti, pittore dei paesaggi di guerra e di quelli umani, congegnati l’uno nell’altro, e se c’è guerra nell’uomo, c’è l’uomo nella guerra.

Lui, osservatore storico con la sua scatola nera, cattura attimi e li conserva come sementi nel granaro del tempo. E nel tempo sgranato nelle sue immagini, il passato e il presente si mescolano, voci di pietra che parlano, raccontano, denunciano i contesti sociali, politici, culturali. Ogni foto un solco nel terreno della coscienza, un invito a piantare il seme della riflessione. Osservare, capire, riconoscere i cicli dell’umanità, la rotta ripetuta, l’abitudine alla rovina.

IRAQ. Mosul. March 2017. A Federal Police fighter with an SPG to be used in case a SVBIED (Suicide Vehicle Borne Improvised Explosive Device) approaches.

Decennio di ombre e luci nel Medio Oriente, nel Nord Africa. Libia, come una fenice, post-Gheddafi, tra i detriti della guerra e la speranza della democrazia, le milizie, il traffico di vite umane. Yemen, Iraq, Afghanistan, Siria, nomi come ferite sulla pelle del mondo, storie scolpite nella pietra del tempo. Una sequenza ininterrotta di racconti in bianco e nero.

“We Don’t Say Goodbye”, parole come pietre, una monografia, una mappa dell’anima. Stato Islamico, ascesa e caduta, cicatrici e semi per il futuro. Accordo Sykes-Picot, intervento occidentale, passato che si riflette nel presente, presente che anticipa il futuro, tutto catturato, tutto espresso nel linguaggio silenzioso delle sue fotografie.

SYRIA. Kobani / Kobane (Arabic: Ayn al Arab) . 07 August 2015. A man is seen trying to recover objects between the rubble of his home.

E poi “L’Arbre aux Papillons”, nuova avventura, nuovo viaggio. L’uomo e la natura, progresso e conservazione, equilibrio che pende come un filo di seta nel vento. Un dialogo nuovo, una sfida al tempo, al mondo.

SYRIA. Palmyra / Tadmor. 1 April 2016. Inside the historic town of Palmyra, retaken from IS by Syrian Arab Army.

Le sue foto, come semi, sparse nel vento, atterrano in prestigiose collezioni, si annidano nelle pagine delle riviste, fioriscono nelle esposizioni, nei festival. Meloni e il suo sguardo, testimone di un mondo che cambia, che si distrugge e si rigenera. Magnum Photos, riconoscimento di un percorso, di un talento. Lorenzo Meloni, testimone del tempo, della storia, di noi stessi. La sua fotografia, un flusso di coscienza che prende forma, che si fa materia, che si fa storia. Un invito, una sfida: guardare, riflettere, comprendere.

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