Durante la missione Apollo 15, l’astronauta David Scott ha evidenziato come, in assenza di resistenza atmosferica, una piuma e un martello cadano con la medesima accelerazione.
La forza che interviene su un oggetto in caduta libera presso la superficie lunare è rappresentata da:
F = m*g
In questa formula, m corrisponde alla massa dell’oggetto e g all’accelerazione gravitazionale sulla Luna.
Questa forza genera un’accelerazione a, calcolata come a = F/m.
Sostituendo F = mg in quest’ultima equazione, otteniamo a = g, poiché la massa si annulla.
Pertanto, indipendentemente dalla massa dell’oggetto, l’accelerazione risulta essere sempre g.
Sono fermamente convinto che l’esame finale del liceo, una valutazione che segue il corso ordinario della formazione scolastica, sia non solo superfluo, ma addirittura dannoso. Questo punto di vista si basa su due convinzioni fondamentali.
In primo luogo, ritengo che l’esame sia inutile. I docenti che hanno accompagnato la crescita e l’evoluzione di un giovane per diversi anni di istruzione sono senza dubbio più che capaci di valutare la sua maturità. L’impressione che si formano di uno studente durante gli anni scolastici, insieme ai numerosi lavori di cui si occupa ogni giorno, fornisce una base di valutazione molto più precisa e completa rispetto a qualsiasi esame, per quanto meticolosamente possa essere preparato.
La mia seconda convinzione è che l’esame finale di maturità sia dannoso, e ciò per due ragioni fondamentali. Da un lato, l’ansia generata dagli esami e l’immensa mole di materie da assimilare attraverso la memorizzazione hanno un impatto notevolmente negativo sulla salute di molti giovani. Questo è un dato di fatto ampiamente riconosciuto e non richiede ulteriori verifiche. Non si può ignorare il fenomeno ben noto degli incubi, radicati nell’esperienza dell’esame finale di maturità, che continuano a tormentare molti individui in varie professioni, ben oltre i loro anni scolastici. Questi sono uomini che hanno rispettato le loro responsabilità nella vita e non possono certo essere catalogati come “neurastenici”.
Dall’altro lato, l’esame finale di maturità è dannoso perché compromette la qualità dell’insegnamento negli ultimi anni di scuola. L’accento spostato sulla preparazione per l’esame può facilmente portare a trascurare un approccio autenticamente sostanziale e approfondito verso le singole materie. Troppo spesso, si osserva una deriva verso un ripasso superficiale e orientato all’esame, a discapito di un vero e proprio insegnamento approfondito. Questo può trasformare la classe in una sorta di esercizio di facciata, il cui principale obiettivo è di fare bella figura di fronte agli esaminatori.
In conclusione, la mia posizione è chiara: credo che sia giunto il momento di abbandonare l’esame finale di maturità.
Ecco il ragazzo, spossato dalla caccia e dall’afa, gettarsi nell’incanto di quel posticino e di quella sorgente, bocconi; ma mentre vorrebbe sedare la sete, altra sete gli cresce; lui beve e, sedotto da quella bellezza che vede riflessa, s’innamora d’una speranza senza corpo; corpo gli sembra l’acqua. È pazzo di sé. Immobile fissa il suo viso immobile come una statua scolpita nel marmo di Paro.
Uno dei pionieri della moderna teoria quantistica e vincitore del Premio Nobel nel 1933 (con Erwin Schrödinger), Paul Dirac è considerato uno dei più grandi fisici del XX secolo.
Nell’ombra delle metropoli, tra il caos delle vite altrui, una donna chiamata Vivian Maier camminava con discrezione e con una Rolleiflex al collo. Di giorno, era una tata per famiglie benestanti di Chicago, un mestiere ereditato da madre e nonna. Di notte, o nei momenti rubati al servizio di altri, la sua vera vocazione si svelava: la fotografia.
Maier non era una di quelle figure colorate, eccentriche, che amano le luci della ribalta. Era una donna austera, riservata, misteriosa, persino segreta. Non c’era traccia di una sua vita sentimentale, non sembrava avere amici, era solitaria e indipendente. Nella sua stanza, accatastava oggetti, fogli, giornali, come fosse un granaio della memoria, uno scrigno inviolabile. Un occhio osservatore potrebbe aver notato una passione sfacciata per la fotografia, una macchina fotografica sempre al seguito. Ma era impensabile immaginare l’opera d’arte che stava creando.
Arrivata a una certa età, Maier si ritirò dalla tata, si ritirò in un sobborgo di Chicago e si fece bastare i pochi soldi messi da parte. Il suo prezioso archivio finì in un box, e quando finirono i soldi, l’archivio andò all’asta. L’acquirente, John Maloof, era un agente immobiliare con una passione per il collezionismo. Non si aspettava di trovare il tesoro che teneva tra le mani: un’infinità di negativi, rullini da sviluppare e piccole stampe fotografiche. Erano più di centomila fotografie, la maggior parte delle quali Maier non aveva mai visto.
Il fascino delle sue fotografie risiede nell’unicità del suo sguardo. Tra le strade di Chicago, Maier ritraeva persone, architetture, frammenti di vita quotidiana. Eppure, non c’era nulla di comune nelle sue immagini. Il suo obiettivo catturava l’umanità nelle sue espressioni più autentiche, i suoi ritratti erano intimi e allo stesso tempo distanti. La sua era una tecnica raffinata, che equilibrava luce e ombra, forma e vuoto, in un gioco di contrasti che faceva vibrare ogni immagine. Eppure, al di là della tecnica, c’era un elemento ancora più importante: l’occhio di Maier era capace di vedere la bellezza dove gli altri non la notavano.
Alla morte di Maier, Maloof iniziò a sviluppare e stampare le sue fotografie, pubblicandole sul suo profilo Flickr. Ben presto, l’opera di Maier ottenne il riconoscimento che meritava. Oggi, la sua figura è riconosciuta come una delle più grandi fotografe del Novecento, eppure, per tutta la vita, non ha mai cercato o ottenuto un riconoscimento pubblico.
La storia di Vivian Maier insegna molto sul valore dell’arte e sull’unicità di ogni individuo. La sua produzione artistica, vasta e complessa, nasconde una sensibilità profonda e un talento raro, che sono emersi solo dopo la sua morte. Il suo lavoro è una testimonianza dell’importanza di osservare, di essere presenti nel momento, di cogliere i dettagli che fuggono allo sguardo comune. E nel racconto di una vita vissuta all’ombra, si riflette l’immagine di una grande artista, di un’artista unica nel suo genere, di una donna che, senza mai saperlo, ha segnato la storia della fotografia.
Sheldon Glashow ha ricevuto il Premio Nobel per la Fisica nel 1979 insieme a Abdus Salam e Steven Weinberg per i loro sforzi complementari nella formulazione della teoria elettrodebole, che spiega l’unità dell’elettromagnetismo e della forza debole.
Larry Towell è uno dei fotografi contemporanei più noti, ampiamente riconosciuto per il suo lavoro come fotoreporter e per i suoi numerosi libri fotografici. Nato in Canada nel 1953, Towell è famoso per la sua dedizione a temi di grande peso sociale e politico.
Il suo stile è unico e facilmente riconoscibile. Usa spesso il bianco e nero per creare un forte contrasto, una scelta che evidenzia la durezza e l’austerità delle situazioni che documenta. Il suo stile è caratterizzato da una profonda umanità e da un acuto senso dell’osservazione, utilizzando l’ambiente per arricchire il contesto e la storia delle persone che ritrae.
Towell cerca di raccontare storie complete, immergendosi nel suo soggetto per lunghi periodi di tempo. Si tratta di una strategia che gli permette di creare una narrativa visiva che va oltre la semplice documentazione: le sue foto trasmettono la complessità della condizione umana, spesso esplorando temi come la guerra, l’esilio e la povertà.
La sua tecnica si basa sull’uso di luce naturale e angoli di scatto che permettono di catturare l’intensità emotiva dei suoi soggetti. Molti dei suoi scatti sono caratterizzati da un notevole senso di spontaneità, con elementi di sorpresa che aggiungono un livello di realismo e autenticità.
Towell è un fotografo che non si limita a mostrare, ma cerca di far capire, di far riflettere, di coinvolgere emotivamente lo spettatore. Il suo lavoro è una testimonianza potente dell’umanità nelle sue molteplici sfaccettature, e continua a stimolare la discussione su temi globali di rilevanza critica.
Manuel Carrillo. Un nome che si fa largo nell’anima come un rito antico, che porta con sé il timbro dell’autenticità e l’eco della semplicità. Raccontare la sua via artistica è come risalire il corso di un fiume, pieno di colori e vita.
È lì, nel centro pulsante del Messico, che Manuel prende la prima boccata d’aria. Cresce tra le pieghe di una realtà dove l’arte, la cultura e l’identità nazionale sono intrecciate come fili di un tessuto pregiato. Questo intreccio, questa fusione tra sé e la sua terra, diventa un leitmotiv nelle sue opere, una finestra aperta sul quotidiano del Messico.
Carrillo si fa le ossa nel giornalismo, ma è la fotografia a sussurrare alla sua anima. Non ha un maestro, non segue corsi. Impara a danzare con la luce e a giocare con le ombre attraverso l’esperienza, attraverso la prova ed errore. Questa spontaneità, questo sentiero non tracciato si manifesta nelle sue opere. Lì trova la bellezza, nascosta nei dettagli del quotidiano, nei gesti banali ma densi di significato.
Guardando le sue foto si sente un battito. È il cuore di Manuel che batte in ogni scatto, è il suo sguardo che cattura l’anima dei suoi soggetti. Le sue immagini sono piene di calore e vita, un racconto autentico del Messico, di una profondità e di un’emotività raramente viste. È questo tocco personale, questa vicinanza che rende le sue opere uniche, che parla all’anima di chi le osserva.
Manuel dona la sua vita al suo popolo, alla sua cultura. Attraverso la sua lente, cerca di catturare la bellezza del quotidiano, l’essenza del vivere. Le sue opere sono un canto all’umanità, un omaggio alla semplicità, un’ode alla dignità e al rispetto per i suoi soggetti.
Raccontare Manuel Carrillo è dunque un viaggio. Un viaggio attraverso la sua arte, che parla della vita, della cultura, dell’amore per il suo paese. Le sue opere sono come un canto, una poesia che narra la bellezza nascosta nel quotidiano. Un artista che, con la sua voce unica, ha saputo intrecciare un legame profondo con chi guarda le sue opere, aprendoci una finestra sulla vita messicana.