Le ricorrenze, come pietre miliari lungo il sentiero del tempo, ti colpiscono con una forza travolgente. Vengono, come la marea, inaspettate e inarrestabili, soffocando il respiro e pesando come macigni sul cuore. C’è una voce nella testa che ripete “Era un anno fa…”, un nastro che gira ininterrottamente.
Percorri con la mente i sentieri della memoria, ogni angolo, ogni incavo imbevuto della loro essenza. Gli occhi, serrati, tentano di catturare le sfumature di un sorriso, di un gesto, di un momento che ora si dissipa nell’aria come nebbia al mattino. Ma le immagini svaniscono, si frantumano in mille pezzi: specchi rotti che riflettono un passato ora irraggiungibile.
Ogni respiro è un singhiozzo silenzioso, ogni battito del cuore una preghiera non ascoltata. Cerchi di riempire il vuoto con il tumulto del quotidiano, con le parole dette e non dette, con i sorrisi offerti e ricevuti. Ma il vuoto si espande, divora ogni cosa. È voragine, abisso che risucchia la luce, che divora la speranza.
Sanguina, sì, sanguina il cuore.
Eppure, nella tristezza immutabile del tempo reale, c’è una bellezza nel dolore, nel ricordo. C’è una forza vitale nel rivivere quei momenti, nell’abbracciare il dolore come un vecchio amico, così come c’è liberazione nel lasciare che le lacrime scendano, nel lasciare che il dolore si esprima.
Perché ogni ricorrenza, ogni momento di silenzio, ogni brivido di malinconia è un tributo alla vita che è stata, alla sua presenza che ancora riecheggia nelle stanze vuote del tuo cuore. È un modo per dire “Hai vissuto, hai amato, hai riso, hai pianto. E io mi ricordo. Io non dimenticherò.”
Quindi sanguina, cuore. Sanguina in silenzio. Ma sanguina con amore. Perché è nel ricordo, nel dolore, che ritroviamo pezzi di noi che pensavamo perduti. E in quei pezzi, in quei momenti, ritroviamo il filo della vita che, nonostante tutto, continua a tessere il suo segretissimo disegno.
Robert Oppenheimer, figlio dell’antico popolo ebraico, vide la luce del giorno nel 1904, in un lembo di terra baciato dall’oceano, laddove sorgeva New York. Cresciuto in un ambiente familiare che cullava agiatezza e cultura, il suo spirito inquieto si fece strada nel rigore di Harvard, dove assaporò la chimica, maestra rigorosa dalle risposte nette e precise. Lasciò poi le aule accademiche per l’Europa, tuffandosi nel fervore della fisica teorica a Göttingen, luogo di incontro delle menti più ardite del tempo.
Tornato tra i campi di grano della California, nella quiete dell’insegnamento, Oppenheimer distillò in se stesso la sua curiosità cosmica, unendo la scienza all’arte, l’Occidente all’Oriente. Come un fiume che si fa mare, raccolse in sé il mistero dell’atomo e i versi millenari del Bhagavad Gita.
Ma il tempo era un fiume in piena, e la sua corrente travolgeva il mondo in un conflitto senza precedenti. Fu allora che Oppenheimer venne chiamato a guidare un progetto audace e spaventoso: la creazione della bomba atomica. Accettò, e così entrò nella danza della morte.
Il deserto del New Mexico, il 1945, un’esplosione che colorò l’oscurità come un nuovo sole, portatore di distruzione e morte. Di fronte a quell’immagine, le parole sgorgarono spontanee dalle labbra di Oppenheimer: “Ora sono diventato Morte, il distruttore dei mondi.”
Il post-guerra vide Oppenheimer consigliere di potenti, ma il rimorso si insinuò come un verme nell’anima, corroendone i giorni. Lasciò le luci della ribalta per le ombre della riflessione, fino alla sua morte nel 1967.
La sua figura si staglia nel passato come un monito, un uomo che osò spingersi oltre i confini della conoscenza, ma che nel farlo, scoprì un potere troppo grande per essere contenuto. Un uomo che, come una stella cadente, illuminò il cielo della scienza con la sua brillantezza, ma che alla fine si consumò sotto il peso del proprio fuoco.
Bob Willoughby, nato il 30 giugno 1927 sotto un cielo californiano già pronto a testimoniare la sua ascensione, ha preso il fermo di un’immagine e le ha dato vita, tracciando così il sentiero del photojournalism nella storia del cinema. Come chi pesca perle dal mare, ha pescato perle di luce dall’ombra, creando tracce indelebili di un tempo che adesso vive solo nelle sue opere.
La macchina fotografica di Willoughby era un occhio extra, un terzo occhio che svelava l’intimo delle stelle di Hollywood. Audrey Hepburn nel suo abito bianco su un set di “My Fair Lady”, James Dean e il suo sguardo ribelle in “Rebel Without a Cause”, Marilyn Monroe, icona splendida e tormentata. Non erano ritratti, erano anime impresse sulla pellicola, echi di un’epoca, ombre lunghe di verità.
Willoughby, artigiano del fotogramma, ha saputo unire la bellezza dell’arte alla cruda verità del reportage. La sua tecnica privilegiava l’uso della luce naturale, che vestiva di verità i soggetti dei suoi ritratti. La sua macchina fotografica non era solo uno strumento, ma un cuore che pulsava, un polmone che respirava, un orecchio che ascoltava, un’estensione della sua stessa anima.
Con la sensibilità di uno scultore, toccava la realtà come chi modella l’argilla, tracciando con delicatezza le linee dell’umanità. Ogni gesto catturato, ogni sguardo, ogni respiro diveniva una confessione, un frammento di verità nuda e cruda.
Le sue opere non sono semplici fotografie, sono poesie scritte con la luce, sono canzoni senza musica, sono storie senza parole. Attraverso la sua lente, l’epoca d’oro di Hollywood si è trasformata in un’epopea, in un mito senza tempo.
Willoughby, volato via il 18 dicembre 2009, ha lasciato dietro di sé un’eredità che supera il tempo e lo spazio. Le sue opere sono le pagine di un libro che continua a vivere, a parlare, a raccontare, a sussurrare storie di un tempo passato. E così, nel silenzio dei suoi scatti, l’epoca d’oro di Hollywood continua a vivere, a brillare, a respirare.
Constantine Manos, scultore di luci e ombre, ha viaggiato attraverso il mondo con la sua macchina fotografica come una bussola. Nato nelle pampas della Carolina del Sud, ha sempre avuto il cuore nella terra lontana dei suoi antenati, la Grecia.
La sua mano non trema mai quando traccia linee di luce sulle sue tele in bianco e nero. Non un semplice tocco del dito sul pulsante dello scatto, ma un gesto meditato, attento, amorevole. Così, come un abile pescatore, ha tessuto reti di immagini nelle quali ha catturato l’anima del mondo.
Nelle sue fotografie, le figure umane appaiono come silhouette che danzano, si percepiscono i sussurri delle conversazioni silenziose, gli sguardi che raccontano storie senza parole. Manos cattura la vita, la vita che scorre come un fiume, con le sue correnti rapide e le sue acque quiete.
Quando ha deciso di immergersi nel colore, è stato come se avesse scoperto un nuovo universo. Ha dipinto con le sfumature del mondo, rivelando in “American Color” e “American Color 2” un ritratto straordinariamente vivido dell’America. Non un semplice ritratto, ma un racconto, un inno alla diversità e alla complessità dell’umanità.
Attraverso il suo obiettivo, Manos non ci mostra solo l’apparenza delle cose, ci mostra l’essenza, la verità nascosta sotto la superficie. Le sue fotografie sono come finestre aperte sul mondo, finestre attraverso le quali possiamo vedere la bellezza e la tristezza, la grandezza e la piccolezza della vita.
In lui, l’artista e l’osservatore si fondono, dando vita a un’opera che è un ponte tra il visibile e l’invisibile. Come un poeta delle immagini, ci guida in un viaggio alla scoperta del mondo, un viaggio che è anche un viaggio dentro noi stessi.
John Bardeen è l’unica persona ad aver ricevuto due volte il Premio Nobel per la Fisica: la prima nel 1956 con William Shockley e Walter Brattain per l’invenzione del transistor; la seconda nel 1972 con Leon N Cooper e John Robert Schrieffer per la superconduttività convenzionale.
Margherita Hack, un faro nel mare scuro del cosmo, una donna la cui comprensione dell’universo ha aperto nuove strade per l’umanità. Nata a Firenze, la città del Rinascimento, forse è lì che ha imparato a guardare le stelle con occhi diversi, a cercare di capire le leggi che regolano il grande orologio del cielo.
La sua visione del tempo riflette la profondità della sua comprensione. Il tempo, infatti, non è solo un concetto astratto. È la trama stessa della realtà, il filo che intreccia passato, presente e futuro. È il teatro sul quale la vita e la morte danzano, dove il nuovo nasce e il vecchio muore.
Ma come può essere? Come possiamo definire qualcosa di tanto sfuggente e implacabile? Come dice Margherita Hack, il tempo si rivela nel cambiamento. Si vede nel germoglio che diventa albero, nel volto che invecchia, nella terra che si erode. Anche la pietra più dura, data abbastanza durata, si polverizza.
Eppure, anche in questo incessante fluire, c’è bellezza. C’è il sapore dolce-amaro della nostalgia, la gioia di un nuovo inizio, la tristezza di una fine. Sì, tutto cambia, tutto passa, ma è proprio in questo cambiamento, in questo passaggio, che risiede il fascino del tempo.
Siamo creature temporali, gettate in un universo che non smette mai di mutare. E, come Margherita Hack, possiamo solo cercare di comprendere, di cogliere il ritmo sottile di questo eterno divenire.
André Kertész. Come un violino zingaro, nato nel cuore di Budapest, sussurrava immagini al mondo. Da Parigi alle strade di New York, il suo occhio onnisciente catturava la vita con una spontaneità che sconvolgeva. Una macchina fotografica Leica per mano, si muoveva leggero come un gatto sulla neve, scompariva nel tessuto cittadino, diventava ombra per far risaltare la luce.
Le sue fotografie, erano poesie scritte con la luce, storie sospese nell’attimo. Come “Chez Mondrian”, un frammento di tempo intrappolato nella geometria dell’atelier, o “The Fork”, un omaggio alla bellezza celata nelle cose quotidiane. E ancora, “Meudon” e “Stairs of Montmartre”, scale di pietra che sembravano condurre non solo a una strada o una casa, ma direttamente nell’anima della città
Ma Kertész non era solo un occhio. Era un cuore, un’anima. Catturava la solitudine, la quiete, la gioia e la malinconia. Le sue immagini erano un invito a guardare oltre, a vedere l’invisibile, a percepire l’umanità celata dietro ogni volto, ogni gesto. Eppure, in fondo, si sentiva un estraneo, un osservatore solitario. Questo senso di estraneità si riflette nelle sue opere, rendendole ancora più profonde, più toccanti.
Quando se ne andò, nel 1985, lasciò un’eredità che va oltre la fotografia. Kertész ci ha insegnato a vedere il mondo con occhi diversi, a trovare la bellezza nell’ordinario, a catturare l’effimero. E forse, più di tutto, ci ha insegnato che la vita, in tutta la sua complessità e semplicità, è degna di essere celebrata.
Nasce Yousuf Karsh, sotto il cielo di Mardin, nel 1908. Nella sua lunga esistenza, fino alla dipartita a Boston nel 2002, matura una vista acuta, un silenzioso ascolto del mondo attraverso il suo obiettivo. L’artista acquisisce le sue prime lezioni sotto l’ala protettiva di John Garo, per poi navigare nel mare aperto dell’arte, delineando un sentiero tutto suo.
Karsh possiede un dono prezioso, quello di plasmare la luce come fosse un materiale tangibile, un lingotto di argento pronto a prendere forma sotto le sue mani. A volte è come una lama affilata, capace di incidere i volti con precisione chirurgica, a volte è un velo delicato che accarezza i tratti, svelando piuttosto che nascondendo. Questa danza di chiaroscuri sulle sue pellicole porta in superficie l’essenza dei suoi ritratti, una verità che affiora nelle espressioni di menti complesse come Bertrand Russell o anime tormentate come Tennesse Williams e Glenn Gould.
Karsh non si limita a catturare l’immagine, ma scolpisce. L’essenza del soggetto ritratto non è un’ombra fugace, ma una statua che prende forma sotto il suo sguardo. Emergono così autorità e tormenti, grandezza celata dietro il sipario della professione, come nel ritratto coraggioso del musicista Pablo Casal, fissato audacemente da dietro. Un dettaglio qui, un accento di luce là, sono i segreti nascosti che rivelano il tutto, un’aura interiore che si sprigiona nell’immagine.
Il volto, tuttavia, non è l’unico protagonista per Karsh. Nel suo ritratto audace della ballerina Maya Plietskaya, è il corpo a prendere il centro della scena, e il volto diventa un complemento del racconto che il corpo danza.
Ritratti come quelli di Hemingway e Churchill, diventati iconici nel loro radicamento nel nostro immaginario collettivo, risvegliano una familiarità inconscia. Sono divenuti tessere del mosaico della nostra cultura visiva, tanto da far sì che l’immagine di Churchill fosse ripresa per adornare la banconota da cinque sterline della Banca d’Inghilterra.
La radiante bellezza di Sophia Loren, la fresca e sovrana bellezza di Audrey Hepburn, sono solo alcuni dei volti che Karsh ha immortalato. Attraverso i volti del Novecento, sembra voler tracciare una mappa umana della genialità, un pantheon di uomini e donne che, con il loro contributo in vari campi – arte, letteratura, cinema, scienze, pensiero, politica – hanno cambiato il corso della nostra esistenza. Un tributo alla genialità dell’uomo, ecco il vasto lavoro di Yousuf Karsh.
Così, le mani di Karsh tessono il Novecento, non soltanto nei ritratti, ma nelle trame di luce e ombra che ne disegnano l’anima.
L’interno dell’autobus è stratificato per razza, con i bianchi seduti davanti e gli afroamericani seduti dietro, rispecchiando la segregazione razziale vigente all’epoca negli Stati Uniti.
La potenza di questa immagine sta nella sua sottigliezza. Non c’è dramma evidente, ma l’immagine ci mostra silenziosamente le disparità sociali. La divisione degli spazi nell’autobus riflette le disuguaglianze e la divisione nella società americana di quel periodo.
Il ritrovamento di Pompei, con l’affresco che raffigura la xenia, o l’atto di ospitalità, sottolinea un aspetto cruciale della cultura dell’antica Roma: l’importanza dell’accoglienza. Questo non solo riflette la considerazione sociale e il rispetto per gli ospiti, ma anche l’arte di rendere condiviso il cibo e la bevanda, trasformandoli in un simbolo di connessione e di comunità.
La scoperta ci ricorda che l’ospitalità non è semplicemente un gesto cortese, ma un rito culturale e sociale, un ponte tra persone e culture, che ha il potere di unire e creare legami. Questa rappresentazione tangibile dell’ospitalità, messa in evidenza attraverso un cibo che ricorda la pizza, sembra ancorare il gesto di accoglienza non solo alla dimensione materiale e concreta del cibo, ma anche a un senso più ampio di condivisione e comunità.
La scoperta ci invita a riflettere su come queste pratiche antiche influenzano ancora la cultura contemporanea dell’accoglienza. La pizza, per esempio, è diventata un simbolo universale di convivialità, una pietanza che si condivide in gruppo e che, proprio come la focaccia nell’affresco, unisce le persone attorno a un pasto comune.
In un’epoca in cui sembra prevalere l’individualismo, il ritrovamento a Pompei ci ricorda l’importanza di ritrovare il senso di comunità e condivisione, valori profondamente radicati nella nostra storia e che meritano di essere preservati e rinnovati.