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Fin da giovane Herman aveva fame d’immagini. Cresciuto a New York, girò la Grande Mela palmo a palmo, quartiere per quartiere, con la sua inseparabile Leica a tracolla. La città era la sua musa, i suoi abitanti figure d’eccezione da incastonare nel mirino.

Herman non faceva sconti. Il suo sguardo penetrante era uno scalpello che intaccava le facciate, scavava oltre la posa, l’apparenza. Catturava un momento di verità, rubava un’espressione autentica. Lo scatto era il suo gesto pittorico, pennellate di bianco e nero impresse sulla pellicola.

Fece i primi passi nei club di New York, lavorando come fotografo di scena. Ritraeva musicisti avvolti dal fumo delle sigarette, ballerine di fila, drink che luccicano sul bancone. Coglieva il dietro le quinte, gli sguardi stanchi, i sorrisi tirati. La sua lente non abbelliva, rivelava la realtà nuda e cruda.

Poi i primi ingaggi importanti. Le copertine per Vogue, i servizi per Interview. Herman divenne il ritrattista per eccellenza del jet set newyorkese. Andy Warhol, pallido e dallo sguardo assente. Truman Capote, il ghigno beffardo. Questi personaggi posavano nel suo studio, si lasciavano scrutare dentro dalla sua Linhof 4×5. Lui ne estraeva l’essenza con pochi scatti essenziali.

La fama arrivò con la mostra al Whitney nel ‘78. I suoi ritratti in bianco e nero erano indagini psicologiche, studi del carattere resi immortali in una frazione di secondo. Mick Jagger, burbero e irriverente. Muhammad Ali, la fiducia incrollabile di chi sa di essere il più grande. Meryl Streep, gli occhi che ridono di fronte all’obiettivo. Volti noti e meno noti, catturati con sguardo autentico, senza posa.

Ma Herman bramava anche l’anonimato. Per le strade della sua città pedinava perfetti sconosciuti. Nei suoi scatti rubati l’umanità brulicante e vera, gli sguardi stanchi, le lacrime trattenute. Ritraeva bambini che giocano indifferenti alla telecamera, vecchi dallo sguardo vissuto, una coppia che passeggia, le teste chine e le mani intrecciate. La quotidianità era la sua musa silenziosa.

Poi i viaggi, alla ricerca di nuovi volti e paesaggi. Parigi, Londra, Tokyo. Herman catturava frammenti di realtà nei mercati affollati, sulle banchine dei fiumi, nei vicoli dove aleggia il profumo del cibo da strada. Come un ladro rubava scorci di vita vera, istanti intimi tra sconosciuti. La sua macchina fotografica era una lente d’ingrandimento che rivelava dettagli inaspettati.

Col passare degli anni Herman non perse curiosità né istinto. Continuò a esplorare, sperimentare, reinventarsi. Dagli anni ‘90 si dedicò anche alla fotografia a colori, libero dalle costrizioni del bianco e nero. I suoi paesaggi americani erano esplosioni di rosso, arancio, giallo.

Ma il trait d’union del suo variegato percorso era l’umanità. Volti noti o sconosciuti, Herman sapeva cogliere l’essenza dietro la maschera. La sua eredità sono scatti senza tempo, finestre aperte su istanti di verità rubati per sempre alla corruttibilità. Herman ci ha insegnato che la bellezza non sta nell’apparenza, ma nella profondità nascosta dietro l’immagine. Basta uno sguardo autentico per svelare il mistero della persona.

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Nella primavera di un domenica lontana, il 26 maggio 1985, il sipario si chiuse sull’ultima puntata di Bit- Storie di computer, trasmessa su Italia 1. Un programma che, nel suo genere, aveva aperto le porte a una nuova era, quella dell’informatica, regalando alla televisione italiana un pezzo di storia.
Un anno prima, nell’aprile del 1984, Bit aveva fatto la sua comparsa, un inedito concentrato di tecnologia, condito con la divulgazione scientifica e portato sul piccolo schermo da un maestro del racconto, Luciano De Crescenzo. Si sarebbe potuto definire un esperimento bizzarro, una scelta coraggiosa per una rete televisiva commerciale, dedicare quaranta minuti di palinsesto a un argomento così specifico e tecnico. Ma il successo fu inaspettato: la prima stagione di Bit si concluse con un premio Telegatto.
De Crescenzo, che aveva sulle spalle quasi sei decadi di vita ma nel cuore l’energia di un ventenne, aveva trascorso gran parte della sua vita nella IBM. Poi, abbandonato il timone, aveva scelto di diventare un menestrello del sapere, artista della parola scritta e televisiva. Se il grande pubblico lo amava come filosofo, lui, invece, non dimenticava mai la sua prima passione: i computer.
Queste le sue parole, tratte da una spassosissima intervista: “Berlusconi ha sempre l’idea giusta al momento giusto… ha capito che l’Italia si stava chiedendo che cos’era questo benedetto computer… allora pensò a una trasmissione che insegnasse l’uso del computer nella vita di tutti i giorni… la scelta del conduttore era necessariamente un incrocio tra l’affabilità di un Pippo Baudo e la competenza di un ingegnere qualsiasi. Ecco, io ero la persona giusta.”
E quando gli si chiedeva quando l’uomo comune sarebbe stato pronto per il computer, lui rispondeva: “Gli manca la cultura. L’informatica dovrebbe essere insegnata fin dalla scuola elementare. Solo allora il computer diverrà un oggetto comune, perché sarà la conseguenza della diffusione della cultura informatica… fino a quel giorno, l’interrogativo è: che cos’è e a che serve questo benedetto computer? Quando tutti sapranno rispondere, saremo a posto.”
Luciano De Crescenzo ci ha lasciati il 18 luglio 2019. La sua assenza è come un silenzio troppo grande in una sala piena di gente. Ci manca molto.

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Nel rigore dell’inverno russo, a un bambino fu rivelato un segreto, un linguaggio silenzioso ed elegante che danzava fra i numeri e le forme. Tale era Vladimir Igorevič Arnol’d, figlio di un’era di grandi sognatori. Nelle sue mani infantili, inaspettatamente, scoprì un sentiero per il suo futuro – una traccia matematica che lo condurrebbe, da quel momento in poi, in un viaggio di scoperta e di rivelazione.

Come un navigante solitario nel mare sconfinato della matematica, Arnol’d ha sempre cercato quel faro, quella sensazione meravigliosa di scoperta che l’aveva catturato da bambino. Dal 1954, l’Università di Mosca fu il suo porto, il suo punto di riferimento. Laureato nel 1959, dottore nel 1961, mentore Kolmogorov – un viaggio fra le stelle di una costellazione in continua espansione.

A vent’anni Arnol’d fece tremare il mondo scientifico, risolvendo l’intricato tredicesimo problema di Hilbert, portando a compimento l’opera del suo mentore. Con arguzia e fermezza, riuscì a tracciare un ponte che collegava le equazioni algebriche di settimo grado con le funzioni continue di due variabili. Da quel giorno, la sua voce divenne un riferimento nel coro degli studiosi.

La sua avventura lo portò, nel 1985, a incrociare un nuovo orizzonte: l’Istituto Steklov. In seguito, anche l’Università di Parigi-Dauphine lo accolse come un viaggiatore di ritorno, rendendolo professore e dispensatore di sapere.

Ma come un fiume che non smette mai di scorrere, Arnol’d non cessò mai di interrogarsi sul mondo dell’educazione, di metterne in discussione i meccanismi, le pratiche. Critico, a volte irriverente, vedeva la matematica non come un semplice elenco di formule, ma come un viaggio di scoperta, una narrativa che doveva essere vissuta e condivisa in tutta la sua complessità.

Tuttavia, il suo percorso non fu privo di ostacoli. La Medaglia Fields, massimo riconoscimento nel campo matematico, gli fu negata nel 1974. Il suo coraggio nel difendere un collega dissidente lo espose all’ira del suo governo, ma mai ha egli smesso di navigare, di cercare quel faro, quella sensazione meravigliosa che era stata la sua bussola da bambino.

Arnol’d ha tracciato un solco profondo nel tessuto della matematica, un solco che continua a guidare e ispirare. Il suo viaggio è una testimonianza di coraggio, di ricerca e di passione, una luce che continua a brillare nel cuore della matematica, oltre i confini del tempo e dello spazio.

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 un viaggio nel tempo…

Era il 1979, o forse un anno simile, in cui la tecnologia cominciava a delineare nuovi orizzonti. Il Ti-99/4A della Texas Instrument fece la sua apparizione, e con esso un gioco che sembrava straordinario. Una semplice strada disegnata sullo schermo, un percorso da seguire, ostacoli da evitare.
Quel gioco diventò un passatempo avvincente, un’opportunità di svago senza dover uscire di casa. Le ore trascorse davanti allo schermo, affinando le abilità, cercando di battere il mio record. Era un modo di sperimentare la tecnologia emergente, di esplorare i confini dell’immaginazione.
Oggi, ricordando quei tempi passati, mi ritrovo a programmare quel gioco, trasformandolo in codice Python. Le linee di comando prendono vita sullo schermo, disegnando la strada e gli ostacoli, creando un’atmosfera di sfida e divertimento. È un modo per rievocare quel senso di meraviglia e scoperta di allora, ma da una prospettiva assai diversa.
La strada si snoda, si modifica, si evolve, come una metafora della vita stessa. Il tempo scorre inesorabile, ma i giochi continuano a divertire e a stimolare la nostra mente. Ci ricordano che, nonostante le trasformazioni e i cambiamenti, la passione per l’esplorazione e per il gioco rimane intatta.
Così, mentre programmo il gioco, mi ritrovo a pensare a quelle emozioni che mi hanno accompagnato durante le prime partite – anche se da una visuale assai diversa: giocatore, allora; programmatore, adesso. È un viaggio nel tempo, un modo per ritrovare una connessione con il passato e allo stesso tempo apprezzare le conquiste del presente. La tecnologia ci ha donato nuove possibilità, ma la semplicità di un gioco può ancora regalare momenti di piacere e divertimento…

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la capacità di congelare il tempo…

Elliott Erwitt, nato in una Parigi assolata del 26 luglio 1928, da genitori russi, porta con sé l’eredità di un’Europa in fermento. Crebbe sotto il sole caldo dell’Italia, imparando a conoscere il mondo attraverso una lente di ironia e profonda osservazione umana. Questa è la storia del suo viaggio artistico, un viaggio che attraversa oceani e decenni, delineando la trama della nostra esistenza.

Il trasferimento negli Stati Uniti avvenne durante l’adolescenza, un periodo in cui la sua passione per la fotografia prese vita. Come un fiammifero che accende una candela, la sua carriera iniziò come fotografo freelance. Poi, nel 1953, venne introdotto nel mondo prestigioso di Magnum Photos, entrando a far parte di una comunità di narratori visivi.

La tecnica fotografica di Erwitt è caratterizzata da un’elegante semplicità, dove il bianco e nero domina la scena. La sua è una danza tra luci e ombre, dove il contrasto gioca un ruolo fondamentale. I suoi scatti in bianco e nero hanno la capacità di congelare il tempo, di catturare l’essenza del soggetto senza il frastuono dei colori. La sua macchina fotografica diventa un pennello, e la luce il suo inchiostro, delineando ritratti di vita con acume e precisione.

Le composizioni di Erwitt spesso si sviluppano attorno a linee semplici e forme nitide, creando un’armonia visiva che affascina l’osservatore. L’uso del fuoco selettivo e la gestione della profondità di campo permettono di guidare l’occhio, di mettere in evidenza le storie nascoste in ogni angolo di immagine.

Lo stile di Erwitt si distingue per il suo senso dell’umorismo e la capacità di catturare l’assurdo nella vita quotidiana. Nelle sue fotografie, il comune diventa straordinario, l’ordinario si trasforma in iconico. Ma la sua arte non è solo un gioco di ironia, è anche una riflessione sulla condizione umana, sulla bellezza celata nelle pieghe del quotidiano.

Le sue opere parlano in una lingua senza parole, raccontando storie di umanità e connessione. Erwitt cattura la magia dell’istante, i momenti effimeri che formano il tessuto della nostra esistenza. Ogni scatto è un invito a guardare oltre, a vedere il mondo con nuovi occhi, a ridere di fronte all’ironia della vita.

Elliott Erwitt, con la sua macchina fotografica, ha dipinto un affresco di umanità, un mosaico di momenti che racchiude la dolcezza, l’ironia e l’assurdità della vita. Il suo viaggio artistico è una testimonianza della nostra epoca, un diario visivo che traccia il cammino tortuoso e meraviglioso dell’esistenza umana.

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Lanciare un SOS dal tuo iPhone con SwiftUI

In questo post, abbiamo discusso la creazione di un’interfaccia utente in SwiftUI per controllare la torcia del tuo dispositivo iOS. Adesso, andremo un passo avanti e aggiungeremo una funzione SOS che manda un segnale luminoso nel codice Morse tramite la torcia del tuo iPhone.

Per implementare questa funzionalità, abbiamo bisogno di aggiungere un nuovo pulsante “SOS” all’interfaccia utente. Questo pulsante, quando premuto, attiverà una sequenza di segnali luminosi corrispondenti al codice Morse per “SOS”.

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var sosButton: some View {
    Button(action: {
        sosMode.toggle()
        if sosMode {
            sendSOS()
        }
    }) {
        ZStack {
            Color.red
            Text("SOS").foregroundColor(.white)
        }.frame(maxWidth:50, maxHeight: 50)
        .cornerRadius(15)
    }.padding(.top, 10)
}

In questa porzione di codice, creiamo un nuovo pulsante chiamato sosButton. Quando viene premuto, attiva o disattiva la modalità SOS. Se la modalità SOS è attivata, chiama la funzione sendSOS().

Il cuore di questa funzionalità è la funzione sendSOS(), che utilizza un timer per accendere e spegnere la torcia secondo il ritmo del segnale SOS in codice Morse.

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func sendSOS() {
    let sosSignal = [true, true, true, false, false, false, true, true, true, false, false, false, true, true, true]
    var sosIndex = 0
    Timer.scheduledTimer(withTimeInterval: 0.5, repeats: true) { timer in
        if self.sosMode {
            let isTorchOn = sosSignal[sosIndex % sosSignal.count]
            toggleTorch(on: isTorchOn)
            sosIndex += 1
        } else {
            timer.invalidate()
            toggleTorch(on: false)
        }
    }
}

La funzione sendSOS() usa un timer che viene eseguito ogni 0.5 secondi, accendendo o spegnendo la torcia in base al segnale corrente. Il segnale SOS viene rappresentato da un array di valori booleani, dove true rappresenta la torcia accesa e false la torcia spenta.

Con questa nuova funzionalità, il tuo iPhone può servire come un segnalatore di emergenza in codice Morse. Ricorda, la tecnologia può essere uno strumento potente, ma la sua vera potenza sta nell’uso che ne facciamo. Usa questa funzione in modo responsabile, e può diventare un salvavita in situazioni di emergenza.

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In “Una Solitudine Abitata: Chiara d’Assisi”, Chiara Frugoni tesse un racconto sul filo dei documenti, delle immagini, delle testimonianze del passato, come solo un vero menestrello del Medioevo sa fare. Questa non è un’opera arida, ma un affresco vivido, che prende vita pagina dopo pagina.

Santa Chiara d’Assisi, figura femminile che emana luce e saggezza, diventa il centro di un racconto che non è solo suo, ma dell’intero Medioevo, dell’intera Chiesa. Come una pietra gettata in uno stagno, le sue scelte di povertà e umiltà creano cerchi d’acqua che raggiungono le rive più lontane.

Frugoni narra di una solitudine che non è vuoto, ma piena. Piena di Francesco, il compagno di strada, piena di un amore divino che non ammette compromessi. E in questa solitudine abitata, Chiara lotta. Non con le armi del mondo, ma con la forza dell’amore e della fede. La sua battaglia contro una Chiesa che vuole imprigionare il movimento femminile della povertà dentro le mura del monastero è descritta con la delicatezza di chi sa che ogni gesto, ogni parola ha un peso.

La scelta di Chiara di vivere il Vangelo in tutta la sua radicalità, di condividere la povertà anziché rinchiudersi nella sicurezza di un convento, risuona come un canto che rompe il silenzio della notte. Frugoni ne coglie l’eco, ne traccia la melodia, la riporta alla luce.

Ma “Una Solitudine Abitata” non è solo il racconto di Chiara. È il racconto di una Chiesa, di un’epoca, di una rivoluzione silenziosa che ha cambiato il volto del mondo. È un libro che parla di temi antichi eppure attuali, che risuonano ancora oggi, nella Chiesa e nella società.

E in questa tela tessuta di parole e immagini, Frugoni ritrae non solo la figura di Chiara, ma anche quella di Francesco, mostrando come entrambi guardassero all’Incarnazione più che alla Passione. Una visione che non mitizza la sofferenza, ma celebra l’amore, il dono, l’umiltà.

“Una Solitudine Abitata: Chiara d’Assisi” è un viaggio nella vita di una santa, ma anche un viaggio dentro di noi. Un invito a guardare il mondo con occhi diversi, a cercare l’essenziale, a vivere l’amore in ogni sua forma. Chiara Frugoni, con la sua penna sensibile e profonda, ci conduce per mano in questo viaggio, e ci invita a scoprire la bellezza della solitudine abitata.

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In questa esercitazione, svilupperemo un’app iOS che userà SwiftUI per creare un’interfaccia utente (UI) interattiva per controllare la torcia del tuo dispositivo.

Il codice sarà strutturato in modo da permettere all’utente di accendere e spegnere la torcia premendo un pulsante. Quando la torcia è accesa, mostreremo un’immagine con la dicitura “ON AIR” e quando è spenta, l’immagine diventerà invisibile.

Vediamo il codice passo per passo:

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import SwiftUI
import AVFoundation

All’inizio del file, importiamo i framework necessari. SwiftUI ci offre gli strumenti per costruire l’interfaccia utente, mentre AVFoundation ci permette di controllare l’hardware della fotocamera, che include la torcia.

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struct ContentView: View {
    @State private var torch = false

Qui definiamo una nuova struct chiamata ContentView che aderisce al protocollo View di SwiftUI. Questa sarà la vista principale della nostra app. L’attributo @State è una proprietà di SwiftUI che permette di creare una variabile reattiva. In questo caso, stiamo usando torch per tracciare se la torcia è accesa (true) o spenta (false).

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var body: some View {
        ZStack {
            onAirView
 
            VStack {
                Spacer()
                actionButton
            }
        }
        .padding()
        .background(Color.black)
        .edgesIgnoringSafeArea(.all)
    }

Il blocco body definisce la struttura principale dell’interfaccia utente. ZStack impila le viste l’una sopra l’altra. La nostra onAirView viene mostrata prima, seguita da un VStack che contiene un pulsante di azione (actionButton).

Notiamo che abbiamo impostato lo sfondo su nero utilizzando .background(Color.black) e abbiamo fatto sì che lo sfondo si estenda fino ai bordi dello schermo con .edgesIgnoringSafeArea(.all).

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var onAirView: some View {
        VStack {
            Image("on_air")
                .resizable()
                .scaledToFit()
                .opacity(torch ? 1.0 : 0.0)
            Spacer()
        }
    }

onAirView è un’altra vista personalizzata. Qui, un’immagine con la dicitura “ON AIR” viene mostrata se la torcia è accesa. La vista Image viene resa ridimensionabile e adatta alla sua contenitore con .resizable() e .scaledToFit(). L’immagine diventa completamente trasparente quando la torcia è spenta, rendendola invisibile, grazie a .opacity(torch ? 1.0 : 0.0). Il Spacer() posiziona l’immagine in alto nello schermo.

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var actionButton: some View {
        Button(action: {
            torch.toggle()
            toggleTorch(on: torch)
        }) {
            ZStack {
                if torch {
                    Color.red
                    Image(systemName: "power").foregroundColor(.white)
                }
                else {
                    Color.blue.opacity(0.1)
                    Image(systemName: "power").foregroundColor(.secondary)
                }
            }.frame(maxWidth:50, maxHeight: 50)
            .cornerRadius(15)
        }
    }

actionButton è il pulsante che l’utente preme per accendere o spegnere la torcia. Il colore e l’icona del pulsante cambiano in base allo stato della torcia. Usiamo la funzione toggleTorch(on:) per cambiare effettivamente lo stato della torcia sul dispositivo.

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Robert Capa, dal vero nome Endre Ernő Friedmann, nato in Budapest nel 1913, è un’icona, un faro che irradia nell’infinito universo della fotografia di guerra. La sua lente, puntata al cuore della battaglia, ha saputo raccontare storie di uomini e donne avvolti nel tumulto bellico, afferrando con disarmante delicatezza l’essenza della guerra: terrore, coraggio, speranza.

Capa ha lasciato impronte indelebili nell’arte della fotografia con la sua formula, semplice e rivoluzionaria: “Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino“. Un invito a ridurre le distanze, a sfiorare l’epidermide del mondo, ad annusare il timore e l’ardore dei suoi soggetti. Lui, col suo apparato fotografico a 35mm, si è tuffato nel cuore pulsante dei conflitti, scontrandosi con l’impervia luce del campo di battaglia.

La pellicola in bianco e nero era la sua tavolozza, con le sue sfumature di grigio capaci di raccontare il dramma e l’eroismo con una profondità insuperabile. Come il minatore che scava nella roccia alla ricerca del filone prezioso, Capa cercava nell’oscuro caos della guerra l’attimo che potesse rivelare la sua verità più intima.

Le sue immagini non erano semplici documenti, erano strofe di un poema ininterrotto sulla condizione umana. Raccontavano di dignità e resilienza, davano voce ai muti, facevano luce sulle pieghe più oscure dell’umanità. Ogni scatto una testimonianza, un racconto che rischiava di perdersi nel turbinio della storia.

Capa, l’uomo, non era meno audace delle sue fotografie. Il suo coraggio lo ha spinto a danzare sul palcoscenico della Storia, tra il fragore delle armi e il soffio della morte. Ha pagato il prezzo più alto per la sua arte nel 1954, in Indocina, lasciando dietro di sé un tesoro di immagini indimenticabili.

Le sue fotografie più iconiche, come “The Falling Soldier”, non sono esenti da polemiche, come pietre gettate in uno stagno calmo, generano onde di interrogativi e dibattiti. Ma la sua impronta, il suo sguardo, rimangono un faro per chiunque tenti di raccontare la guerra con la lente della verità.

Con la macchina fotografica in pugno, Capa ha svelato la guerra in tutta la sua crudezza e intimità. Ha raccontato la Storia non con i toni altisonanti dei proclami, ma con il sussurro dei volti e delle mani di coloro che la Storia la vivono in prima linea.

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