Nella penombra di una stanza fumosa, uomini assorti nell’eco dei doveri terreni, danzano sulle note del tintinnio delle monete. Un raggio di luce, simile a un fiume di oro, irrompe dall’esterno, squarciando l’oscurità, ed è allora che l’ordine consueto delle cose viene sconvolto.
Da un angolo, un gesto, semplice ma carico di significato, emerge dalle ombre: un dito indicatore, esteso come ponte tra il divino e l’umano. È un comando muto, un invito che non ha bisogno di parole per farsi capire: “Seguimi”.
Al centro, un uomo siede, assorto nel conteggio delle monete. Alla luce dell’invito, il dito si punta verso di sé, esprimendo un incredulità tanto profonda da sembrare una domanda senza risposta: “Io?” È in questo gesto, in questo attimo di perplessità, che si svela l’essenza stessa dell’umanità.
In quel brusio di monete e di vita, ecco che l’immortale bussa alla porta del mortale. Un lampo di grazia in una notte di peccato. E noi siamo lì con lui, nel suo stupore, nel suo dubbio. Possiamo percepire il calore del raggio dorato che accarezza la sua pelle, possiamo percepire il tremore della sua mano mentre indica se stesso.
Nell’oscuro profondo, la luce risplende, danza su volti e mani, svela ciò che l’ombra vorrebbe celare. E la domanda sussurrata nel silenzio della stanza è questa: “Chi è degno? Chi è chiamato?” E nel cuore del quadro, la risposta viene sussurrata come un segreto: anche il più umile, il più peccaminoso, può essere chiamato alla luce.
Il quadro ci invita a fare i conti con noi stessi, con le nostre vite quotidiane, con i nostri peccati e le nostre aspirazioni. Ci chiede: “Sei pronto? Riconosceresti la chiamata se arrivasse?” E ci lascia con il dubbio, con l’eco di un invito che risuona nella nostra mente, con la domanda che, come una melodia, continua a suonare: “Io?”.
- Definizione della funzione e della sua derivata:
Le funzionif(x)
edf(x)
definiscono la funzione e la sua derivata, rispettivamente, che vogliamo risolvere con il metodo di Newton-Raphson. In questo caso, stiamo cercando di approssimare la radice quadrata di 2, quindif(x)
èx**2 - 2
e la sua derivatadf(x)
è2*x
. - Implementazione del metodo di Newton-Raphson:
Il metodo di Newton-Raphson è un algoritmo per trovare approssimativamente le radici di una funzione reale. Parte da un’ipotesi inizialex0
e itera il processox = x - f(x) / df(x)
, che approssima progressivamente la radice della funzione. L’iterazione si arresta quando la differenza tra due iterazioni successive è inferiore a un certoepsilon
o quando si raggiunge il numero massimo di iterazionimax_iter
. Questo metodo restituisce una lista di tutte le approssimazioni calcolate. - Creazione dei plot:
La funzionecreate_plots
genera una serie di immagini che mostrano l’evoluzione delle approssimazioni calcolate dal metodo di Newton-Raphson. Per ogni approssimazione, genera un grafico che mostra la funzionef(x)
, il punto corrente calcolato dal metodo di Newton-Raphson, e un altro grafico che mostra l’approssimazione corrente della radice quadrata di 2. Ogni immagine viene salvata come un file temporaneo. - Creazione della GIF:
La funzionecreate_gif
prende una lista di immagini e crea una GIF. Utilizza la funzionesave
della classeImage
del modulo PIL (Python Imaging Library) per creare la GIF. La GIF viene salvata con un ritardo di 1 secondo (duration=1000
millisecondi) tra ciascun frame. - Pulizia dei file temporanei:
Infine, il codice rimuove i file immagine temporanei che sono stati creati per generare la GIF.
Il codice utilizza il metodo di Newton-Raphson per calcolare una serie di approssimazioni della radice quadrata di 2, genera un’immagine per ciascuna approssimazione che mostra l’evoluzione dell’approssimazione, e poi combina tutte queste immagini in una GIF. Questo permette di visualizzare visivamente come l’approssimazione si avvicina al valore vero man mano che il metodo di Newton-Raphson itera.
Milan Kundera ci guida in un labirinto di pensieri, uno spazio dominato dal silenzio e dall’immobilità, il confine tra il realismo e la metafisica, esplorato con la stessa profondità con cui un marinaio esperto naviga i mari. L’autore si fa narratore, ci afferra la mano e ci mostra un universo, tracciato dai fili sottili dell’irrevocabile e dell’irreversibile. Questo libro è come un tassello che s’inserisce nella grande tessitura della vita e del tempo, eppure è come una pietra gettata in uno stagno, che genera onde di riflessione senza fine.
Kundera scrive del peso e della leggerezza dell’esistenza, l’equilibrio sottile tra il dover essere e il desiderio di non essere, l’inevitabilità del destino e il potere dell’atto. Tocca, senza mai stringere, le corde del Kitsch, lo fa risuonare non come mero ornamento estetico, ma come accordo profondo e inquietante con l’essere.
Nel cuore dell’opera, batte il ritmo costante del destino ineluttabile di Tomàš e Tereza, due figure che, incastrate nella trappola del Kitsch, sembrano danzare sulla corda tesa del tempo che passa. Le loro vite, sospese tra l’irrevocabilità del passato e l’incertezza del futuro, si svolgono come un film proiettato su uno schermo vuoto, la loro presenza non è che un’eco di un’assenza prepotente.
Eppure, la forza di Kundera risiede proprio in questa apparente passività. Lo sguardo che posa sul mondo, sul Kitsch, sulla vita e sulla morte, non è quello di un giudice, ma di un viandante. Non cerca di dare risposte, ma piuttosto, incita a domandare. Sfida l’essere, sfida l’insostenibilità della leggerezza, e in questo sforzo titanico, riesce a distillare un’essenza unica, un gusto amaro e dolce insieme, che si posa sulla lingua e pervade i sensi.
“L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera non è un libro che si legge, è un libro che si vive. Come una barca che si fa strada controcorrente, si insinua nelle pieghe dell’anima, sfida le convenzioni, rompe gli schemi, e invita il lettore a immergersi nelle sue acque profonde e turbolente. E come una barca al ritorno, lascia dietro di sé un solco che si perde all’orizzonte, un sentiero di riflessione e di dubbio, di domande senza risposta, di pensieri inafferrabili.
Non si legge quest’opera di Kundera, si vive. E, nel viverla, si scopre l’irripetibile bellezza del presente, la sottile linea che divide il reale dal metafisico, il peso della vita e la leggerezza dell’essere.
“Il Ratto di Proserpina” di Bernini è un balletto marmoreo che affascina e confonde. L’opera scolpisce il vento e la velocità, un’intrecciatura di gesti così vivi che sembrano abbandonare la materia da cui sono nati.
In essa, il giovane Bernini ha imprigionato il mito nel marmo, il rapimento della ninfa Proserpina da parte del dio degli Inferi, Plutone. La scultura è una lotta tra l’implacabile volere del dio e l’orrido terrore della ninfa, con un cane infernale che rincorre la scena con ferocia accecante.
La bellezza dell’opera non risiede solo nella maestria tecnica, la capacità di rendere il marmo duttile come la pelle o feroce come i cani. È altresì la drammaticità del momento catturato: il terrore di Proserpina, il desiderio di Plutone, la frenesia del cane. Tutto questo è espresso con una tale intensità da far dimenticare che stiamo guardando una pietra e non una scena reale.
Le dita di Plutone scavano nel marmo della carne di Proserpina, il cui viso è contorto in un’espressione di terrore e sorpresa. La forza bruta del dio degli Inferi si contrappone alla delicatezza e alla vulnerabilità della ninfa, rendendo ancora più intensa la scena.
Il genio di Bernini si mostra in ogni dettaglio, in ogni piega del manto di Plutone, nell’acqua che sembra realmente scivolare sul corpo di Proserpina, nel terrorizzato sguardo della ninfa rivolto verso un aiuto che non arriverà.
“Il Ratto di Proserpina” è un inno alla forza bruta e al terrore, ma anche alla bellezza e alla tristezza. È un’opera che, pur essendo di pietra, è in costante movimento, una danza tra il divino e l’umano, la luce e l’oscurità, la vita e la morte.
“Mixed by Erry” è una storia che si srotola come un nastro di cassette, un inno al tempo in cui la musica si insinuava nelle pieghe dei cuori attraverso sottili strisce di pellicola magnetica. È un ritratto della vita, che canta dolcemente i suoi giorni e le sue notti nelle strade di Napoli negli anni ’80.
Enrico Frattasio, interpretato con delicatezza e vivacità dal giovane Luigi D’Oriano, cammina su una strada lastricata di sogni, coltivando un amore per la musica che si nutre delle sue aspirazioni di diventare un DJ. Questo desiderio, come un seme piantato in terra fertile, germoglia in un modo che si distacca dalle vie consuete, ma che è autentico e straordinario nella sua essenza.
Sydney Sibilia racconta questa storia con una mano sicura e un occhio per il dettaglio che cattura l’umanità intrinseca dei suoi personaggi. Non perde mai di vista la loro realtà, il loro desiderio di vivere, di creare, di essere qualcosa di più. Anche quando il film tocca temi duri, come l’illegalità e i legami oscuri con il mondo dell’industria, l’onestà e la sincerità dell’intento sono chiare.
“Mixed by Erry” è un respiro di musica, un omaggio al coraggio umano e alla bellezza dell’arte che può nascere nelle circostanze più improbabili. Con la sua narrazione, Sibilia ci ricorda che una volta, il creare arte comportava un impegno fisico e spirituale, una dedizione che oggi è in gran parte dimenticata nell’era della digitalizzazione.
È un film che cattura la dolcezza e l’amarezza del ricordo, che rivela l’anima di un’epoca e ne celebra le sfumature con tenerezza e rispetto. Un film che, come una canzone amata, ti prende per mano e ti conduce attraverso le strade di un passato ormai lontano, ma che vive ancora nei cuori di coloro che l’hanno conosciuto. Come una vecchia cassetta, ci invita a fermarci, ad ascoltare, a ricordare e a riflettere sulla bellezza e la complessità della vita e dell’arte.
“The Suffering of Light” di Alex Webb si dispiega come un viaggio nei meandri della luce, un viaggio lungo trent’anni che indaga le sfumature e i contrasti della realtà quotidiana. Come un danzatore che si muove tra luci e ombre, Webb non si accontenta di fermarsi in superficie, ma si tuffa nelle profondità di ciò che osserva.
Si addentra nelle arterie delle città, nelle vene pulsanti dell’America Latina, negli intricati sentieri di Istanbul, nelle strade bagnate di sole della Florida. Ogni luogo diventa un nuovo capitolo di una storia iniziata nel 1979, una trama in continua tessitura.
Le sue fotografie sono echi di tensioni, riverberi di ossessioni e parentesi di quiete. Sono espressioni di un caos armonioso, ritratti di un mondo cangiante immortalati attraverso lo sguardo di un pittore del colore.
Il caos e il mistero coabitano nel lavoro di Webb. Il suo processo creativo danza tra la lucidità dell’osservatore e l’abbandono dell’artista, ogni scatto una finestra aperta sul mondo. I suoi progetti non sono meri album di immagini, ma racconti di luoghi, di popoli, una cronaca senza fine di vita.
“The Suffering of Light” è un prisma della condizione umana, una tessitura di storie che attraversano tempo e spazio, un soffio di vita catturato. Trent’anni di esplorazione raccontati attraverso il linguaggio dei colori e dei contrasti di un artefice del reale. È un inno alla luce, con la sua capacità di svelare, nascondere, trasformare e, talvolta, far soffrire.
“Ferdinando Scianna: Feste Religiose in Sicilia” è più di un libro, è un respiro, un palpito di cuore, una carezza lieve al volto di un mondo che era, e che in queste pagine rivive. Il giovane Scianna, ventenne e assetato di verità, ci conduce per mano in un viaggio nel cuore della Sicilia, quella terra rugosa, segnata dal tempo e dall’opera dell’uomo, quella terra che ha profumato la sua infanzia e l’ha nutrito di sogni e domande.
Le immagini, crude, sincere, prive di qualsiasi artificio, sono frammenti di un mosaico più grande. Raccontano di volti, di mani, di gesti antichi che, come preghiere sussurrate, si perpetuano nel tempo, sfidando l’oblio. Ritratti di vita e di fede, stampe di un tempo che fu, conservate nella gelatina d’argento e nella memoria di chi le ha scattate.
E poi ci sono le parole. Parole che danzano leggere tra una fotografia e l’altra, tessendo un filo invisibile di senso e di emozioni. Parole di Sciascia, che risuonano come eco lontana di un dialogo tra l’autore e il suo mondo, tra il fotografo e il suo soggetto. Come i frammenti di una canzone antica, le parole e le immagini si intrecciano, si rispondono, si cercano, creando una sinfonia visiva e narrativa che parla al cuore prima che alla mente.
In questo volume, non troviamo solo la tesi universitaria di un giovane studente, ma l’epifania di una vocazione, la scoperta di una passione che avrebbe guidato Scianna lungo il sentiero del racconto, del documentare, del testimoniare. Qui troviamo l’inizio di un viaggio che dura una vita, un viaggio intrapreso con la macchina fotografica a tracolla e il cuore aperto alla meraviglia.
“Feste Religiose in Sicilia” non è solo un libro, è un canto d’amore per una terra e per un popolo, una luce accesa nella notte del tempo, un ponte gettato tra passato e presente. E’ un invito a guardare, a sentire, a ricordare. E’ la testimonianza di un incontro, di una scoperta, di una trasformazione. E’ la promessa che, attraverso l’arte e la memoria, nulla si perde davvero.
Il mondo si è fatto bianco. “Slightly Unreal… Red Umbrella” di Saul Leiter ritrae il respiro della neve, che copre tutto come un sudario di silenzio. Un abbraccio di freddo che pone tutto in un’attesa senza tempo.
In questo spazio di quiete inaspettata, cammina un’ombra. Sotto l’ombrello rosso, che tra la neve sembra un pezzo di cuore pulsante, si cela un essere umano. Si muove nel candore, un passo dopo l’altro, nella fatica dell’inverno.
Quest’ombrello rosso, lì, tra il bianco inerte, diventa bandiera di vita, di resistenza. Una promessa di calore nella morsa del gelo, una sfida silenziosa ma accesa, come la brace sotto la cenere.
La neve cade e la figura prosegue, diventa quasi un’unica cosa con l’ombrello, una macchia di colore vibrante che si staglia contro il bianco. È come se, in quella distanza che divide l’auto dalla strada, si rivelasse la forza indomita dell’umano, capace di camminare anche quando il mondo attorno si fa silenzioso e freddo.
Saul Leiter, in questa immagine, coglie un istante di vita che è un inno alla tenacia, un canto sommesso ma intenso. L’ombrello rosso sotto la neve diventa un simbolo, un richiamo all’audacia di vivere, di lasciare un segno, anche quando il mondo ci mostra il suo volto più austero. E in questo messaggio c’è una poesia che sa di vita, di umano, di sfida accettata e portata avanti con un ombrello rosso come baluardo.
Lui è William Eggleston, nato nella polverosa Memphis, Tennessee, nel 1939, immerso in un mondo che ancora non sapeva di colori. Il suo nome echeggerà negli angoli del tempo come colui che dipinse la fotografia con una tavolozza sconosciuta, una tavolozza a colori.
Egli viveva nel bianco e nero, giocando con supporti e formati, ma già sognava un mondo di tonalità sconosciute. Nel 1967, l’audacia lo portò a John Szarkowsky, un custode di memorie al MoMa di New York, con sotto il braccio, il suo lavoro a colori. Fu una scossa, un terremoto nell’arte fotografica. Nel 1976, in quel tempio della modernità, si aprì la prima personale di fotografie a colori. Un urlo nel silenzio.
Furono lanciate frecce avvelenate, per quella rivoluzione colorata. Critiche feroci si schiantarono sulle sue opere, e il suo stile provocò un tumulto. Anche Ansel Adams, l’anziano maestro delle montagne in bianco e nero, spedì una lettera di protesta. Non capivano, o non volevano capire, perché Eggleston trovava la bellezza nell’ordinario. Una lattina di salsa, un cruscotto di un’auto, un cartello stradale… perché?
Eggleston vedeva un mondo diverso. Osservava il quotidiano con uno “sguardo democratico”, ricercando una bellezza marginale, ignorata dagli altri. Riusciva a cogliere la complessità e la forza di un dettaglio minore, di un momento fugace, di una luce accesa al crepuscolo.
Le sue fotografie erano dipinte con il dye transfer, una tecnica resa possibile dalla Kodak, che sprigionava un’ampia gamma di rossi, blu e gialli. Un processo di colore nato dai negativi in bianco e nero. E in quel miscuglio di tecnica e arte, Eggleston creò un nuovo linguaggio fotografico, un dialogo tra l’oggetto fotografato e l’osservatore.
Egli ha aperto una finestra sul comune, sui dettagli che ci circondano quotidianamente. Eggleston, con il suo modo di fotografare “democratico”, ci ha mostrato come anche un triciclo possa diventare arte. Come il Sud degli Stati Uniti, con le sue stazioni di servizio, i suoi cortili e le sue insegne, possa trasformarsi in un museo a cielo aperto.
Eggleston è l’uomo che ha insegnato alla fotografia a vedere i colori. E attraverso il suo obiettivo, abbiamo imparato a guardare il mondo con occhi nuovi. Un visionario, un rivoluzionario, un maestro. Questo è William Eggleston, l’artista che ha colorato la fotografia.