La morte, una gran rogna che affligge allo stesso modo credenti e non credenti. I primi, bramosi di un’altra vita, sono talmente affezionati a questa che vorrebbero proprio essere gli ultimi a lasciarla, presentarsi alle porte dell’aldilà quando stanno già chiudendo bottega. Gli altri invece pensano al Nulla che verrà dopo e allora si attaccano disperatamente a questa valle di lacrime.
L’altro giorno il mio discepolo Critone, tutto shoccato da questi pensieri funesti, mi fa: “Maestro, come posso prepararmi a tirare le cuoia senza deprimermi?”. Una domanda mica da ridere.
Io ci rifletto un po’, poi gli rispondo che l’unico sistema è convincersi che, in fondo, siamo circondati da un mare di fessi. Perché altrimenti sarebbe proprio una mazzata lasciare un mondo dove i giovani se la spassano allegramente, gli scienziati credono d’aver capito tutto, i politici salvano l’umanità a parole, insomma dove tutti si credono chissà chi.
Meglio crepare con la certezza che l’umanità sia piena zeppa di somari patentati. Un gregge di disgraziati che non capiscono una mazza. Critone mi guarda perplesso e fa: “Ma questa convinzione da che parte sta, dalla saggezza o dalla follia? E quando va maturata?”.
“Piano piano Critone” gli dico. “Queste cose vengono da sé cogli anni. Per ora sii comprensivo coi difetti altrui. Poi verso i cinquanta comincerai a vedere le cose come stanno. E alla fine capirai che erano tutti ciucci, te compreso. Così potrai andartene sereno, senza rimpianti per questa valle di lacrime”.
Critone mi guarda sconsolato: “Maestro, ho come l’impressione che il fesso sia lei”. E io: “Bravo Critone, stai già assimilando la lezione”.
Quel giorno, quando l’uomo posò per la prima volta il piede sulla Luna, una miriade di sogni, da sempre confinati nei reconditi angoli della nostra fantasia, prese vita. La polvere lunare, lontana e fredda, accolse il passo di Neil Armstrong, mentre Buzz Aldrin lo seguiva di stretto passo, co-protagonisti di un momento indimenticabile.
Guardando indietro, quel “piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità” risuona nelle nostre orecchie non solo come un evento storico, ma anche come un monito; quel grande passo per l’umanità ha generato una miriade di piccoli passi, passi di ragazzi e ragazze che hanno deciso di dedicare la loro vita alla comprensione dell’universo. In quella polvere lunare, in quel freddo abbraccio dello spazio, è nata una scintilla che ha infiammato il cuore di generazioni.
Ciascun ragazzo che guardava (o che ha avuto occasione, nel tempo, di guardare) con occhi pieni di meraviglia le immagini in bianco e nero trasmesse dalla televisione, ciascuna ragazza che sognava di toccare con mano l’argenteo manto della Luna, hanno trovato nella missione Apollo 11 una luce da seguire, un percorso da intraprendere. Gli studi spaziali, la fisica, l’ingegneria, l’astronomia, hanno trovato nuova linfa, un nuovo slancio.
Ogni osservazione, ogni esperimento, ogni scoperta che hanno fatto, e che continueranno a fare, è un tributo a quel giorno. E sono anch’essi un grande passo per l’umanità, un passo verso la conoscenza, verso la comprensione, verso un futuro in cui, chissà, potremo non solo toccare la Luna, ma anche abbracciare le stelle.
Guardando avanti, quella missione ci lascia una promessa di possibilità. Ci ricorda che il futuro appartiene a coloro che sognano, coloro che osano. Con la leggerezza di una penna, e con la forza di un sogno, continuano a scrivere la nostra storia, la storia dell’umanità che, passo dopo passo, cerca di raggiungere le stelle. E non possiamo che essere grati per quel giorno di 54 anni fa, quando per la prima volta, l’umanità tutta ha potuto toccare un pezzo di cielo.
Nel mezzo del chiasso della Grande Mela, Saul Leiter ha saputo ritagliarsi un silenzio in technicolor. Non ha mai rivendicato il titolo di filosofo (“I don’t have a philosophy. I have a camera.”), ma a noi pare che le sue immagini parlino, urlino idee, e se questo non è pensare con la luce, allora io non so cos’altro possa essere.
La sua macchina fotografica, estensione della mano e dell’anima, ha rubato al caos urbano trame di colore, ha svelato la bellezza nascosta nelle strade, nelle finestre bagnate dalla pioggia, negli scorci di un mondo in continuo movimento. E quegli stessi colori che i suoi contemporanei tenevano relegati nell’ambito del commerciale, lui li ha trasformati in linguaggio, strumento di una narrazione unica e personale.
Nelle sue mani, la vita quotidiana diventava un teatro di frammenti raccolti, di ombre giocose, di riflessi che non si accontentavano di riprodurre, ma ricreavano il mondo. Saul Leiter ci ha lasciato una mappa in negativo, di tutto ciò che gli occhi troppo frettolosi non riuscivano a vedere.
Thames & Hudson ha curato una raccolta di suoi lavori, ma mi pare che questo sia solo un altro modo per dire che ci hanno regalato un viaggio. Leiter era uno di quegli artisti che amavano perdersi, che trovavano nel non essere riconosciuti uno spazio di libertà, un luogo dove poter creare senza dover rispondere a niente e a nessuno. Anche se la sua vita ha conosciuto la fama, il suo cuore è sempre stato nella penombra, lì dove la luce si fa mistero.
Le sue immagini, a volte tanto astratte da sembrare dipinti, ci mostrano un altro lato di New York, quello che resta quando si spengono i neon e la vita si fa intima. Leiter ci porta per mano attraverso i suoi scatti e ci ricorda che non tutto ciò che conta è alla luce del sole. Come lui stesso ha detto: “There are the things that are out in the open and then there are the things that are hidden, and life has more to do, the real world has more to do with what is hidden, maybe. You think?“. (“Ci sono le cose che sono alla luce del sole e poi ci sono le cose che sono nascoste, e la vita ha più a che fare, il mondo reale ha più a che fare con ciò che è nascosto, forse. Non credi?”)
Guardando le sue fotografie, mi pare di capire cosa intendesse: ciò che è nascosto non è per questo meno vero. La realtà ha i suoi segreti, e Saul Leiter, con la sua macchina fotografica, ne ha scovati alcuni, regalandoci frammenti di un mondo che altrimenti sarebbe rimasto invisibile. Ecco cosa significa essere un artista, ecco cosa significa avere una visione…
La felicità è un soffio di vento che accarezza i campi di grano, un fruscio sommesso tra le spighe mature. Si insinua tra le pieghe dei pensieri, in punta di piedi, senza pretendere nulla.
È il primo raggio di sole che entra dalla finestra al mattino, che disegna strisce dorate sul pavimento e ti sveglia con dolcezza: risiede nei risvegli silenziosi, nel palpito dell’attesa del giorno che nasce, nel ronzio delle voci amate che pian piano si svegliano in una casa ancora silenziosa, addormentata.
La felicità ama le cose semplici e genuine. È, ad esempio, nel gesto intimo della scrittura: una matita che scorre lieve sul foglio bianco, dando vita a personaggi e storie. È l’eco di una risata lontana, che riverbera tra le pareti e scalda il cuore.
È un guizzo, un attimo, una luce improvvisa nell’oscurità. Brucia in fretta ma lascia una scia luminosa, un ricordo indelebile. È polvere di fata, impalpabile ma presente, che ammanta di magia la vita di tutti i giorni.
La felicità non ha bisogno di applausi o parole altisonanti. Le bastano i sorrisi rubati, gli sguardi complici, la condivisione di piccole gioie quotidiane. È un filo sottile ma resistente, che lega le nostre anime nei momenti più semplici.
Basta saperla cogliere, nelle pieghe del tempo, e conservarne il ricordo come un fiore prezioso tra le pagine di un libro. Perché la felicità è un dono sfuggente, ma se la cerchiamo con cuore lieve, torna sempre a farci visita.
Le immagini di Kai invitano allo stupore. Ritraggono corpi avvinghiati, pelli che si sfiorano in una danza tribale dai ritmi antichi. In quella nudità rituale non c’è vergogna, solo abbandono al mistero del contatto. L’intimità si fa offerta collettiva in un gesto sacro.
Quei corpi narrano con linguaggio arcaico. Parlano di radici profonde, che affondano in humus primordiale. Dicono dell’istinto pulsante sotto le convenzioni. Dell’energia tellurica che scorre in noi, nonostante la rinserriamo.
Kai osserva il rito con sguardo lieve. Ne coglie la grazia, l’innocenza del denudarsi. Illumina quelle carni di luce interiore. Le rende specchi puri, dove ritrovare la comune umanità.
Si spogliano, questi uomini. Depongono gli abiti, le maschere d’ogni giorno. Nudi come al primo vagito, si immergono nelle gelide acque, si lavano dalle scorie del vivere. Poi inchinano il capo al sacro, pregano con cuore sincero. Ma quando entrano nell’arena del rito, quando inizia la danza sfrenata, ritornano belve. Urlano selvaggi, i corpi si scontrano in carne contro carne. Sudano, grondano umanità da ogni poro. In mezzo a loro Kai ruba attimi con la macchina fotografica. Cattura gesti, smorfie, violenza e abbandoni in questi scatti da 綺羅の晴れ着. Quando le pelli nude si toccano, provano insieme orrore e piacere. I sensi acuiti percepiscono in ogni contatto l’energia della vita. La coscienza individuale annega nel calderone di corpi. Resta l’istinto, la forza magnifica e terribile della natura, di cui siamo figli anche se la società vuole domarci.
Nei rituali dell’uomo nudo, antichi e misteriosi, intravedo una verità: siamo insieme bestie e anime divine.
Noi la chiamavamo “villeggiatura”, parola antica che porta il sapore dell’estate libera. Partivamo con le valigie agganciate sul tetto dell’auto come impavidi scalatori. Dal finestrino, perennemente abbassato, vedevamo scorci di vite parallele, famiglie in cammino nell’afa di un luglio senza fine. Dopo ore di sole che bacchettava l’asfalto, arrivava il momento: la casa sul mare, permeata di sale e vento, con lenzuola ruvide odorose di lavanda.
Per noi piccoli iniziava il tempo della libertà. Si alzava il sole e noi insieme, pronti a reclamare il nostro pezzo di spiaggia. Il tempo si dilatava tra nuotate e castelli di sabbia, tra la raccolta di conchiglie e pietre levigate dal bacio del mare. Quando il sole era al culmine, ci rifugiavamo sotto le fronde, architetti di mondi minuscoli tra aghi di pini e sabbia.
Pomeriggi lenti come il volo di un gabbiano, tra ghiaccioli colorati e camminate scalzi al limitare delle onde. Veniva la sera, e noi ci addormentavamo al canto delle cicale, come una melodia tessuta dal vento.
I giorni passavano lenti, senza l’occhio severo degli orologi, solo il sole a misurare il tempo. Giocavamo con nuovi amici, come una brigata abbronzata di marinai sulla sabbia.
Settembre veniva con i suoi acquazzoni, come segni d’inchiostro sulla pagina dell’estate. Si tornava a casa, la pelle colorata dal sole, le tasche piene di tesori di spiaggia. Nei ricordi, foto di un’estate senza fine.
Da piccoli, le preoccupazioni degli adulti ci sfuggivano, troppo immersi nei nostri mondi incantati. E forse è giusto così: come si possono vedere le ombre, quando si è bagnati di luce?
La magia dell’infanzia è un dono da custodire. E io la porto con me, come una conchiglia: per sentire il mare, anche quando è lontano.
La Leica sempre a tracolla, occhio vigile che scruta il mondo. Così Rene Burri ha catturato frammenti di storia, regalandoci scatti indimenticabili. Nato nel 1933 a Zurigo, in Svizzera, fin da giovane ha respirato l’aria di ribellione che aleggiava in quegli anni. La guerra aveva stravolto l’Europa, lasciando macerie e fame. Ma tra quelle rovine nasceva anche la voglia di ricostruire, di guardare al futuro. E il giovane Burri bruciava di curiosità per quel mondo ferito ma pieno di promesse.
Appena ventenne decide di trasferirsi a Parigi. Sono gli anni ruggenti del dopoguerra, la Ville Lumière ribolle di idee, ma anche di miseria. Burri si aggira per le strade con la sua inseparabile Leica, catturando volti e scene di vita quotidiana. Vuole rubare attimi alla frenesia della città che pulsa, regalare dignità alle esistenze ai margini. I suoi primi servizi fotografici raccontano le zone dimenticate di Parigi, gli spazi di nessuno dove sopravvivono gli emarginati. Scatti in bianco e nero che restituiscono lo spirito di un’epoca di cambiamento.
Ben presto Burri si fa notare. La sua curiosità lo porta ad aggirarsi per i quartieri operai, dove coglie gesti e sguardi di una classe lavoratrice che fatica ma non si arrende. Ritrae i minatori che escono dalle viscere della terra, volti segnati dalla polvere nera del carbone ma occhi fieri. Gli operai in fabbrica, mani callose e possenti, espressioni di dignità. Un mondo di fatica e sudore che Burri guarda senza giudizio, restituendocene la bellezza.
Quando i giovani scendono nelle piazze urlando la loro voglia di cambiamento, Burri è lì con loro, in mezzo alla mischia. Immortala i cortei, i sit-in, le manifestazioni operaie. Scatta le barricate, i lacrimogeni, lo scontro con la polizia. Ma soprattutto ritrae i volti dei dimostranti, la loro rabbia e determinazione. Immagini crude che catturano lo spirito di un’epoca.
La fama di Burri cresce e il suo occhio attento comincia a guardare oltre i confini della Francia. Compie numerosi viaggi: Brasile, Cina, Russia, Stati Uniti. La sua curiosità è instancabile, vuole documentare il cambiamento che avverte nell’aria. Si reca nell’Unione Sovietica degli anni ’50, piena di speranze e contraddizioni. Ritrae i kolchoz, fatica e miseria dietro la facciata della propaganda. Immortala i grattacieli ultramoderni e le code per il pane, regalandoci immagini che raccontano la complessità di un’epoca.
Ma Burri non si limita a fotografare gli esclusi, i luoghi ai margini. Il suo obiettivo cattura anche le icone del ‘900, i protagonisti della cultura e dell’arte. Realizza ritratti intimi e intensi, nei quali coglie l’anima dietro lo sguardo. Che Guevara, Picasso, Le Corbusier. Uomini che hanno segnato un’epoca, immortalati con empatia dall’occhio attento di Burri. Ritratti pensosi e intensi, che vanno oltre l’esteriorità.
Con il tempo la sua fama cresce, le sue fotografie vengono esposte nelle gallerie di tutto il mondo. Ma Burri non si adagia, continua i suoi reportage sempre con quella Leica a tracolla. Viaggia instancabile tra America Latina, Medio Oriente, Europa dell’Est. Sembra non conoscere riposo, animato com’è dalla curiosità e dal desiderio di testimoniare il suo tempo.
I suoi scatti in bianco e nero, dalla composizione rigorosa, sono entrati nell’immaginario collettivo. Burri ha raccontato un’epoca di cambiamenti con profonda umanità, regalandoci attimi di rara poesia. Gesti minimi che racchiudono storie universali. Volti segnati dalla fatica e illuminati dalla dignità. Scene di protesta e di lotta. La bellezza del quotidiano rubata al caso.
Rene Burri ci ha insegnato a guardare con occhi nuovi il nostro tempo. Con la sua inseparabile Leica ha fermato il fluire incessante delle cose, regalandoci istanti preziosi. Frammenti di una Storia fatta di individui, non di massa. Il suo sguardo attento e partecipe ci manca, ma le sue immagini continueranno a parlarci ancora a lungo.
Dentro il minimalismo ascetico di Yamamoto Masao riecheggia un’eco spirituale, un lamento d’amore per la delicatezza di ogni piccolo dettaglio. Il suo obiettivo cattura e rafforza la poesia insita nelle cose comuni, trova la profondità di un Haiku nella piega di un petalo, nel volo di un uccello, nel contorno di una figura femminile.
Questo è un lavoro che chiede silenzio, pazienza, l’attenzione di un monaco zen che cura ogni movimento come se fosse preghiera. E così la fotografia diventa meditazione, un invito a fermarsi, a riflettere, ad aprire nuovi percorsi visivi nel paesaggio della nostra mente. Ogni immagine è un frammento di un mosaico universale, ogni dettaglio un segno di un’armonia più grande, che lega tutte le cose.
Yamamoto sottrae, anziché aggiungere: le sue fotografie sono minimaliste, raccolte in sé stesse, piccole come mani giunte in preghiera. Non vi è alcuna ridondanza, nulla è lasciato al caso: tutto risuona di una compostezza formale che si staglia contro il tempo.
Questo è il Giappone di Yamamoto, una terra che sospesa tra antica tradizione e contemporaneità, ancora risuona delle voci placide del passato, anche se avvolta nel linguaggio della modernità. E in questo fragilissimo equilibrio, in queste immagini così delicate da sembrare quasi viventi, si coglie l’essenza stessa dell’arte: la resistenza al logorio del Tempo.
Il Tempo in Yamamoto è un fiume lento, riluttante nel suo fluire. Ma il fotografo sa domarlo, lavora su ogni immagine come un artigiano, forgia il Tempo fino a che non diventa parte integrante del quadro, una melodia sotterranea che pervade ogni scatto.
Le immagini del maestro s’innestano come germogli sul tronco nodoso della memoria. Come mani tese, si afferrano al tempo, lo arrestano in una morsa di luce e ombra, custodiscono un ricordo, strappandolo all’oblio che vorrebbe inghiottirlo. In ciascun suo scatto, Yamamoto ci mostra un’arcaica resistenza al trascorrere del tempo, come la natura che insiste nel fiorire nonostante l’inverno. Si veste di quel tempo svanito, ne fa un’arte, e lo offre a noi come un dono, un tesoro ritrovato nelle pagine impolverate del tempo. E questo, possiamo chiamarlo ‘bellezza’; un tipo di bellezza che, come una melodia eterna, sfida il logorio del tempo e dell’oblio.
Fin da giovane Herman aveva fame d’immagini. Cresciuto a New York, girò la Grande Mela palmo a palmo, quartiere per quartiere, con la sua inseparabile Leica a tracolla. La città era la sua musa, i suoi abitanti figure d’eccezione da incastonare nel mirino.
Herman non faceva sconti. Il suo sguardo penetrante era uno scalpello che intaccava le facciate, scavava oltre la posa, l’apparenza. Catturava un momento di verità, rubava un’espressione autentica. Lo scatto era il suo gesto pittorico, pennellate di bianco e nero impresse sulla pellicola.
Fece i primi passi nei club di New York, lavorando come fotografo di scena. Ritraeva musicisti avvolti dal fumo delle sigarette, ballerine di fila, drink che luccicano sul bancone. Coglieva il dietro le quinte, gli sguardi stanchi, i sorrisi tirati. La sua lente non abbelliva, rivelava la realtà nuda e cruda.
Poi i primi ingaggi importanti. Le copertine per Vogue, i servizi per Interview. Herman divenne il ritrattista per eccellenza del jet set newyorkese. Andy Warhol, pallido e dallo sguardo assente. Truman Capote, il ghigno beffardo. Questi personaggi posavano nel suo studio, si lasciavano scrutare dentro dalla sua Linhof 4×5. Lui ne estraeva l’essenza con pochi scatti essenziali.
La fama arrivò con la mostra al Whitney nel ‘78. I suoi ritratti in bianco e nero erano indagini psicologiche, studi del carattere resi immortali in una frazione di secondo. Mick Jagger, burbero e irriverente. Muhammad Ali, la fiducia incrollabile di chi sa di essere il più grande. Meryl Streep, gli occhi che ridono di fronte all’obiettivo. Volti noti e meno noti, catturati con sguardo autentico, senza posa.
Ma Herman bramava anche l’anonimato. Per le strade della sua città pedinava perfetti sconosciuti. Nei suoi scatti rubati l’umanità brulicante e vera, gli sguardi stanchi, le lacrime trattenute. Ritraeva bambini che giocano indifferenti alla telecamera, vecchi dallo sguardo vissuto, una coppia che passeggia, le teste chine e le mani intrecciate. La quotidianità era la sua musa silenziosa.
Poi i viaggi, alla ricerca di nuovi volti e paesaggi. Parigi, Londra, Tokyo. Herman catturava frammenti di realtà nei mercati affollati, sulle banchine dei fiumi, nei vicoli dove aleggia il profumo del cibo da strada. Come un ladro rubava scorci di vita vera, istanti intimi tra sconosciuti. La sua macchina fotografica era una lente d’ingrandimento che rivelava dettagli inaspettati.
Col passare degli anni Herman non perse curiosità né istinto. Continuò a esplorare, sperimentare, reinventarsi. Dagli anni ‘90 si dedicò anche alla fotografia a colori, libero dalle costrizioni del bianco e nero. I suoi paesaggi americani erano esplosioni di rosso, arancio, giallo.
Ma il trait d’union del suo variegato percorso era l’umanità. Volti noti o sconosciuti, Herman sapeva cogliere l’essenza dietro la maschera. La sua eredità sono scatti senza tempo, finestre aperte su istanti di verità rubati per sempre alla corruttibilità. Herman ci ha insegnato che la bellezza non sta nell’apparenza, ma nella profondità nascosta dietro l’immagine. Basta uno sguardo autentico per svelare il mistero della persona.
Nella primavera di un domenica lontana, il 26 maggio 1985, il sipario si chiuse sull’ultima puntata di Bit- Storie di computer, trasmessa su Italia 1. Un programma che, nel suo genere, aveva aperto le porte a una nuova era, quella dell’informatica, regalando alla televisione italiana un pezzo di storia.
Un anno prima, nell’aprile del 1984, Bit aveva fatto la sua comparsa, un inedito concentrato di tecnologia, condito con la divulgazione scientifica e portato sul piccolo schermo da un maestro del racconto, Luciano De Crescenzo. Si sarebbe potuto definire un esperimento bizzarro, una scelta coraggiosa per una rete televisiva commerciale, dedicare quaranta minuti di palinsesto a un argomento così specifico e tecnico. Ma il successo fu inaspettato: la prima stagione di Bit si concluse con un premio Telegatto.
De Crescenzo, che aveva sulle spalle quasi sei decadi di vita ma nel cuore l’energia di un ventenne, aveva trascorso gran parte della sua vita nella IBM. Poi, abbandonato il timone, aveva scelto di diventare un menestrello del sapere, artista della parola scritta e televisiva. Se il grande pubblico lo amava come filosofo, lui, invece, non dimenticava mai la sua prima passione: i computer.
Queste le sue parole, tratte da una spassosissima intervista: “Berlusconi ha sempre l’idea giusta al momento giusto… ha capito che l’Italia si stava chiedendo che cos’era questo benedetto computer… allora pensò a una trasmissione che insegnasse l’uso del computer nella vita di tutti i giorni… la scelta del conduttore era necessariamente un incrocio tra l’affabilità di un Pippo Baudo e la competenza di un ingegnere qualsiasi. Ecco, io ero la persona giusta.”
E quando gli si chiedeva quando l’uomo comune sarebbe stato pronto per il computer, lui rispondeva: “Gli manca la cultura. L’informatica dovrebbe essere insegnata fin dalla scuola elementare. Solo allora il computer diverrà un oggetto comune, perché sarà la conseguenza della diffusione della cultura informatica… fino a quel giorno, l’interrogativo è: che cos’è e a che serve questo benedetto computer? Quando tutti sapranno rispondere, saremo a posto.”
Luciano De Crescenzo ci ha lasciati il 18 luglio 2019. La sua assenza è come un silenzio troppo grande in una sala piena di gente. Ci manca molto.