Nel fluire del tempo, ci sono attimi che scivolano via come grani di sabbia tra le dita. In quei lampi, Joel Meyerowitz ha colto l’essenza dell’effimero, della fugacità irripetibile del tempo. Si è immerso nell’auto, un guscio in movimento, una conchiglia in transito, e da quel punto di vista ha imprigionato l’eternità in frammenti di secondi.
Ha fatto dell’auto la sua macchina fotografica, un obiettivo ambulante da cui ha guardato il mondo. In un battito di ciglia ha raccolto l’istante e l’ha mutato in immagine, in scena di vita vissuta, in emozioni volatili, in visioni istantanee. Un click della sua Leica e l’attimo è cristallizzato, intrappolato in una scatola di luce e ombra, in un gioco di riflessi e contrasti.
La mostra del 1968 al MoMA ha svelato il suo talento, la capacità di vedere oltre l’ovvio, di cogliere l’unicità nel consueto. Da allora, le sue fotografie sono diventate un punto di riferimento, un esempio di come si può narrare il mondo attraverso la lente di una macchina.
Meyerowitz ha dimostrato che la bellezza si annida ovunque, anche nei momenti più insignificanti e fuggevoli. Ha reso visibile l’invisibile, ha dato forma all’effimero, ha fermato il tempo nel suo scorrere perpetuo. Ha creato un’arte che parla all’anima, che tocca le corde del cuore, che invita a riflettere sull’esistenza.
Le sue immagini sono più che semplici fotografie: sono pezzi di vita, frammenti di un mondo in continua metamorfosi, istantanee di un’eternità in movimento. E in questa danza di luci e ombre, Meyerowitz ci sprona a guardare, a vedere, a pensare.
La scrittura, vien da pensare, si specchia nelle acque di due laghi opposti: uno la raccoglie come un giocattolo, come una medicina per le ferite dell’anima; l’altro la custodisce come il senso segreto dell’esistenza, la giustificazione silenziosa di tutto quello che è. Tra i due, sta l’oscillazione del pensiero.
Per certi, scrivere è un tocco leggero, un tratto di matita su un foglio bianco che aiuta a sopportare il peso del mondo. Le parole scorrono come acqua tra le dita, alleviano le pene dell’esistenza, le raccolgono in versi e prosa e le restituiscono al mondo in una forma più dolce. Un antidoto alla crudeltà del tempo, un modo per imbrigliare la tempesta che sconvolge il cuore. Si scrive per liberare l’anima, per lenire il dolore, per ritrovare il filo della trama smarrita della vita.
Ma, come una monetina gettata in aria, l’altro lato della medaglia mostra un volto diverso della scrittura. È lo specchio in cui l’esistenza si riflette, un mezzo per raggiungere il cuore del mondo. Scrivere è un atto di ribellione contro l’effimero, un desiderio di lasciare una traccia, un segno indelebile nell’eternità. È la ricerca di un significato più profondo, il tentativo di comprendere l’incomprensibile, di dire l’indicibile. È la penna che si muove sulla carta, la mano che danza con le parole, il pensiero che si fa strada nella notte.
Nella sua ambizione di durata, la scrittura si contrappone alla vita stessa, quell’incidente fugace che scompare come una bolla di sapone al vento. Le parole restano, appiccicate su una pagina, mentre la vita si dissolve come un sogno al risveglio.
Si potrebbe dire che la scrittura è un gioco, un passatempo, ma anche una missione sacra, un modo per affrontare la vita e per darle un senso. Eppure, nella sua oscillazione, non trova una conclusione, non si assesta in un luogo definitivo. Scrivere è un viaggio senza fine tra il gioco e il sacro, tra il sopravvivere e il dare un senso.
E noi, che oscilliamo tra questi due poli, sappiamo che non c’è fine. Non c’è risposta definitiva al dilemma della scrittura. Solo l’oscillazione, solo il movimento. E nel mezzo, la penna che continua a scrivere, l’anima che continua a cercare, la vita che continua a fluire.
E così, in questa danza senza fine, siamo sospesi tra l’essere giocattoli e cercatori di senso, tra la medicina della scrittura e la sua ambizione di durata. E in questa sospensione, in questa oscillazione, troviamo la bellezza dell’incertezza, la meraviglia dell’ignoto, la gioia del viaggio. E forse, alla fine, è questo che conta.
La vita di Linda scorre su binari apparentemente ordinati, incasellata in ruoli prestabiliti di moglie e madre. La quotidianità si ripete pigra nei suoi rituali domestici, tra le mura protettive della sua graziosa casa di periferia. Linda ignora che il treno su cui viaggia placida sta per deragliare.
Un giorno qualunque, il destino le fa lo sgambetto. Linda si sveglia e non riconosce più il paesaggio familiare. Gli eventi procedono scomposti, il tempo ha perso la sua linearità. È come se un monte di pezzi di un puzzle fossero stati gettati per aria e ora Linda brancola per raccoglierli e ricomporre l’immagine.
La mente di Linda vaga in un labirinto di possibilità, attanagliata dal dubbio se ciò che percepisce sia reale o illusorio. Le certezze si sgretolano, il terreno frana sotto i piedi. Deve imparare a camminare di nuovo, un passo dietro l’altro, per non scivolare nel baratro della follia.
Nel suo vagare nel tempo, Linda è un novello Dante smarrito in una selva oscura, la sua vita ordinaria diventa un inferno di incertezze. L’unica guida che Linda possiede è l’amore per la sua famiglia, un amore viscerale che la spinge ad aggrapparsi anche alla più flebile luce di speranza.
Il regista Yapo guida lo spettatore in questo viaggio perturbante. La macchina da presa indugia sul volto mutante di Linda, specchio del suo tumulto interiore. Gli occhi spalancati in un misto di sgomento e determinazione.
Yapo opta per una messa in scena essenziale, senza orpelli. Il minimalismo della regia fa risaltare l’espressività di Linda-Bullock, ora sfinita ora battagliera, sempre intensa. Yapo segue il suo vagabondare avanti e indietro nel tempo con movimenti di macchina fluidi, in perfetta sintonia col turbinio emotivo del personaggio.
Purtroppo l’intreccio narrativo non regge il passo di questa prova d’attrice. La sceneggiatura di Kelly trasforma quella che poteva essere un’intrigante riflessione Metafisica in un groviglio di eventi dalla logica claudicante. Lo spettatore brancola nel buio insieme a Linda, incapace di distinguere i confini tra i diversi livelli di realtà.
Il film ambiva ad essere un raffinato congegno a orologeria, ma gli ingranaggi non combaciano a dovere. Le lancette girano all’impazzata, senza scandire un tempo credibile. Tutto è lasciato all’interpretazione, in un finale che pretende di essere intrigante ma suona piuttosto come una resa.
Peccato, perché il potenziale per tessere un thriller psicologico denso di spunti c’era tutto. Ma la sceneggiatura si perde in un dedalo autoreferenziale. Ne esce un film disorientante, che alimenta la confusione invece che dipanarla. Ha ragione Linda-Bullock a guardare incredule le tessere sparpagliate dinanzi a sé: di questo puzzle non si salva che qualche singolo pezzo. Il quadro d’insieme è irrimediabilmente sfocato.
La macchina fotografica era il suo scudo. Dietro l’obiettivo, Anne-Marie von Wolff si sentiva al sicuro dal mondo che la rifiutava. L’epilessia e la tubercolosi l’avevano marchiata come diversa, ma il suo occhio attento catturava la vita di ogni giorno a Lucerna negli anni ’30 e ’50.
Anne-Marie parlava poco ma vedeva tanto. La sua sensibilità emerge dalle istantanee di scene familiari, ritratti intensi, scorci urbani. Composizioni forti, in bianco e nero, che raccontano una parente sconosciuta.
Le sue fotografie sono state ritrovate per caso in una scatola di banane, dopo essere state dimenticate per decenni. Ora ricompongono il puzzle di un’esistenza appartata, alla ricerca di bellezza dietro la macchina fotografica. La nipote Mimi von Moos ha raccolto queste memorie visive, pagine di album familiare, frammenti di una Lucerna che non c’è più.
Anne-Marie von Wolff nacque nel 1893 in una famiglia alto borghese di Lucerna. Fin da bambina fu marchiata come diversa. Le crisi epilettiche e la tubercolosi la resero un’emarginata. Forse proprio la solitudine la spinse a osservare con occhio attento il mondo intorno a sé.
Le istantanee di una gita sul lago, i ritratti dei cugini, gli scorci di vita quotidiana, rivelano il suo talento dietro l’obiettivo. Anne-Marie coglieva l’attimo con grazia, immortalando scene di tenerezza familiare. Seppe ritrarre il fascino di una cugina con sguardo intenso e sigaretta in mano. Colse l’eleganza della buona società lucernese, ma anche la poesia di un vicolo acciottolato.
La macchina fotografica le diede un ruolo, un posto speciale nella cerchia familiare che prima la rifiutava. Le permise di esprimersi senza parlare, di aprirsi al mondo da dietro il suo scudo.
Soltanto in età avanzata i suoi scatti verranno riscoperti. Sarà la pronipote Mimi a raccogliere circa 1500 fotografie in bianco e nero scattate da Anne-Marie tra gli anni ’30 e ’50. Un ritrovamento che getta nuova luce su una donna quasi sconosciuta.
Mimi von Moos utilizzerà queste istantanee d’epoca per comporre nei suoi saggi letterari il ritratto della lontana parente. Ne trarrà un libro, “Die Verwandte“, che esplora la fotografia attraverso gli scatti ritrovati quasi per caso in soffitta.
Gli scritti della pronipote indagano il talento nascosto di Anne-Marie, la sua sensibilità dietro l’obiettivo. Interviste ai familiari e un saggio della filosofa Tine Melzer completano l’opera, rivelando sfumature inedite di una donna schiva e riservata.
Anne-Marie von Wolff rimase sempre ai margini della scena, come se la sua malattia l’avesse confinata dietro un vetro. Ma la macchina fotografica le permise di catturare la vita che scorreva al di là della barriera.
Oggi le sue foto, dimenticate per decenni in una scatola di banane, ritraggono frammenti di un tempo andato. Il fascino di una cugina, un pranzo in famiglia, le vie acciottolate di Lucerna. Attimi rubati da un occhio attento, che ha saputo cogliere bellezza e poesia.
Lo sguardo delicato di Anne-Marie emerge dagli scatti ritrovati, regalando nuove sfumature di una donna misteriosa. Le sue fotografie raccontano più di tante parole una vita appartata, la ricerca di bellezza dietro la macchina fotografica.
Quell’obiettivo era il suo scudo. Proteggeva una donna sola, emarginata dalla malattia, e le permetteva di esprimersi. Anne-Marie von Wolff visse in disparte, ma seppe guardare il mondo che la rifiutava con grazia e talento visionario.
L’Italia contemporanea si interroga di frequente sul proprio declino. Lo fa brancolando tra rimpianti sterili e luoghi comuni dal sapore rancido. L’ultimo esempio è l’articolo pubblicato da un noto quotidiano, firmato da autorevole mano appartenente all’élite intellettuale del Paese.
Un testo impregnato di giudizi sommari e malcelata nostalgia per un’epoca passata, probabilmente mai esistita se non nell’immaginario di certi ambienti. Nel mirino, ancora una volta, le nuove generazioni. Adolescenti liquidati come orde barbariche, rei solo di parlare lingue diverse dai loro giudici ultracinquantenni.
Come se la gioventù non fosse da sempre, per sua stessa natura, simbolo di futuro e cambiamento. Come se la storia non ci insegnasse che ogni epoca teme e disprezza i giovani che ne preparano il ricambio.
Quei ragazzi osservati con sufficienza su un treno da Roma a Foggia non hanno colpa alcuna. La loro supposta volgarità e maleducazione è semmai lo specchio di una società che ha smarrito valori condivisi. Che ha smesso di investire in istruzione e cultura, lasciando i suoi figli in un limbo privo di guide e modelli positivi.
Eppure, osservando quei corpi afflosciati sui sedili del treno, si intravede ancora il desiderio innato di socialità, di scoperta, di crescita. Sono solo più soli, questi ragazzi, in un mondo che non offre loro certezze o prospettive solide. Un mondo dove perfino trovare un primo lavoro è chimera.
Giudicarli con paternalistica sufficienza, come relitto di una gioventù degenerata, è un comodo alibi per non guardare in faccia i problemi di un Paese immobile e autoreferenziale. Un Paese che rimpiange un passato mitizzato invece di impegnarsi per costruire un futuro migliore.
Quei giovani sono il nostro futuro, contengono la nostra speranza di riscatto. Spetta alle generazioni adulte valorizzarli, non denigrarli. Dobbiamo riconoscere in loro i figli che non siamo stati capaci di crescere e educare come avremmo dovuto. E ricominciare da capo, con umiltà, pazienza e spirito di servizio.
Solo così l’Italia potrà rimettersi in cammino dopo decenni di stasi. I giovani ne tracceranno la rotta, come sempre nella Storia. A noi adulti il compito di seguirli, non giudicarli.
Intanto, sul Foggia-Roma di oggi…
Era un uomo dalle mille anime, Alan Turing. Matematico, logico, crittografo, antesignano dell’informatica moderna. Uno spirito libero dall’intelligenza fuori dal comune. Peccato però che vivesse nell’Inghilterra perbenista degli anni ’50, troppo bigotta per comprendere la sua geniale complessità.
Di giorno lavorava come scienziato per conto dei servizi segreti britannici, contribuendo in modo decisivo a sconfiggere i nazisti grazie alla decrittazione del famigerato codice Enigma. La notte inseguiva i suoi istinti, a caccia di fugaci avventure omosessuali tra locali malfamati e parchi cittadini. Una pericolosa doppiezza, che alla fine gli costò la carriera e la vita.
Le sue due anime coesistevano faticosamente: razionalità e trasgressione, logica e istinto. Di giorno Turing era celebrato come eroe della patria, la mente matematica che aveva cambiato le sorti della guerra. Di notte braccato come deviante, reietto da nascondere nell’ombra. Un paradosso insostenibile, che lo logorò fino alla disperazione.
La fama del genio e l’emarginazione del diverso: due facce della stessa medaglia d’oro che gli avevano appuntato sul petto. Onorificenza amara, che non gli risparmiò l’onta del processo né l’obbligo dell’orribile “cura” a base di estrogeni. Un martirio davvero poco logico, per uno come lui.
Povero Turing, talmente avanti da non capire la meschinità del suo tempo. Vedeva solo bellezza nella matematica e nei corpi maschili, senza curarsi di pregiudizi e perbenismi. Avrebbe meritato di vivere nel futuro che aveva intuito, quello dei computer e delle menti aperte. Invece si ritrovò schiacciato dall’ottusità passatista, lui che guardava lontano.
Alla fine la sua logica luminosa soccombette alle tenebre dell’ignoranza. Si arrese allo stupido binomio del suo tempo: genio o omosessuale, tertium non datur. Preferì rinunciare alla vita piuttosto che abiurare se stesso. Una sconfitta per la ragione e per l’amore, ma forse una vittoria per la sua dignità.
Oggi Turing è riabilitato e la sua memoria risplende finalmente integra. Ma la ferita inflitta alla logica resta aperta. Perché tanta irrazionalità fu riversata su un uomo che aveva fatto della razionalità la sua divinità? Misteri della mente umana, che neppure la logica più fine potrà mai decifrare fino in fondo.
La vita è fatta di porte che si aprono e si chiudono, di scelte che si fanno o si evitano. Lo sa bene Helen, la protagonista del film Sliding Doors, che per puro caso perde la metro che avrebbe dovuto prendere. Quel gesto banale le cambia l’esistenza, sdoppiandola in due binari paralleli: in uno la donna torna a casa e scopre il tradimento del compagno, nell’altro prosegue ignara la sua vita insoddisfacente.
Due vite diverse generate da un attimo, un soffio di vento che spinge una porta a chiudersi un istante prima o un istante dopo. La casualità decide per noi, choose your door, scegli la tua porta sembra dirci questo film. Ma forse la sorte altro non è che la somma delle nostre scelte.
Helen inciampa e perde l’ultimo vagone, ma poi sceglie di non prendere un taxi, di non chiamare il compagno. Sono decisioni in apparenza irrilevanti eppure capaci di mutare il fato. Come semi nascosti sotto la neve, attendono la stagione propizia per germogliare in magnifici fiori o in erbacce infestanti.
Ogni momento cela un bivio, ogni gesto ha la sua ombra gemella. Possiamo ignorarlo e proseguire dritti o fermarci e guardare cosa c’è dall’altra parte. Helen non si arrende al destino e prova a cambiare vita, con coraggio ma anche imprudenza. Ha fretta di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle il dolore del tradimento. Non sa che certi semi non muoiono mai, rimangono dormienti sotto la neve.
Forse dovremmo procedere adagio, con la cauta meraviglia di chi scopre ogni giorno nuovi sentieri. Le sliding doors si aprono e si chiudono, sta a noi scegliere quando passarci in mezzo.
Anche noi, nella frenesia del quotidiano, corriamo per non perdere l’autobus, il treno, quello che crediamo essere il nostro binario. Ci sembra che tutto dipenda da quei minuti rubati al tempo, da quei gesti dettati dall’abitudine. E invece la vita non è una corsa, non c’è un traguardo da tagliare prima degli altri. La vita è l’insieme delle nostre scelte, anche quelle che sembrano insignificanti.
Prendere o non prendere quella metro può portarci a scoprire verità nascoste o tesori insperati. Lasciar cadere il cellulare può farci inciampare nell’amore. Tutto dipende da noi, anche quando crediamo di essere in balia degli eventi. Il caso è un pretesto che usiamo per deresponsabilizzarci. In fondo lo sappiamo che siamo noi a decidere se aprire o chiudere le porte.
Helen lo capisce e infrange la propria routine. Ha il coraggio di cambiare, di rischiare, di mettersi in gioco. Non si accontenta più di subire la vita, prova a plasmarla come creta fra le dita. Certo, cade e sbaglia. Ma almeno sceglie, almeno prova a dare un senso nuovo al suo cammino.
Dovremmo anche noi interrogarci più spesso su cosa vogliamo davvero, su quali porte varchiamo senza pensarci troppo. La felicità forse è dietro l’angolo, nascosta in una scelta non fatta, in un treno perso, in una sliding door rimasta chiusa. Sta a noi riaprirla.
Me lo regalarono un pomeriggio di primavera. Era grigio, squadrato ai bordi come le pietre del cortile. Aveva una fila di tasti color carbone, una tastiera fresca che aspettava le mie dita.
Lo accesi e vidi comparire le prime scritte sullo schermo nero. Era come veder nascere un mondo. Un mondo nuovo, di parole e numeri, codici che ancora non capivo. Provai a pigiare quei tasti, ed ecco che le lettere si animavano una dopo l’altra, come formiche operaie in fila indiana.
Divorai il manuale, una bibbia di istruzioni e segreti. Imparai l’alfabeto di quello strano idioma: Print
, Run
, Load
. Scoprii che poche parole bastavano per dare vita a disegni e giochi, prima nel buio del monitor e poi nella mia testa. Era una magia, dove ogni formula era l’incantesimo per creare qualcosa dal nulla.
Mi chiudevo nella mia stanza e programmavo per ore. Creavo mondi di parole, con montagne di If e foreste di dati. Progredivo lento tra sintassi e bug, ma ogni passo era una vittoria. Era come imparare a parlare per la prima volta. Balbettavo frasi strozzate, parole basiche, ma stavo comunicando con la macchina.
Quel grigio concentrato di silicio era il mio primo maestro. Un maestro paziente, che non si stancava se sbagliavo battuta. Bastava cancellare, riscrivere, provare ancora mille volte. Ad ogni nuovo programma, ogni errore superato, il mio vocabolario si espandeva.
Presto non mi bastò più. Volevo imparare linguaggi più complessi, per poter creare mondi più vasti. Volevo parlare di più con quell’amico fatto di chip, entrare nel suo mondo binario.
Il Ti-99/4A mi aveva indicato la strada. Era stato la fessura che aveva aperto l’orizzonte. Aveva acceso la passione per i computer, un fuoco che non si sarebbe più spento.
Anche quando lo spensi per l’ultima volta, soffiando via la polvere dalla sua carcassa grigia, continuai a sentire un ronzio dentro di me. Era lo strano suono dei suoi circuiti, il fruscio della corrente che lo teneva in vita.
Oggi lavoro con computer dai nomi impronunciabili, veloci come falchi. Ma quando scrivo una riga di codice, quando vedo prendere forma un programma, c’è ancora il fantasma di quell’antico compagno sulla mia spalla.
Il suo ricordo è inciso nei miei occhi stanchi. È lì presente in ogni nuova creazione, in ogni soluzione trovata dopo mille tentativi. È la scintilla che mi spinge ancora a sperimentare, provare strade nuove, immaginare.
I computer passano, ma i maestri restano, ma quel vecchio computer della Texas Instruments rappresenterà, per sempre, il mio primo passo in un mondo di parole che non finirò mai di imparare.
La foresta è un rifugio, una casa. È il luogo in cui si può perdere per ritrovarsi, dove si ritrova il sé smarrito tra le foglie e i sentieri che sembrano non finire mai. È il dominio del silenzio, dove ogni rombo, ogni sussurro assume un significato profondo e imperscrutabile.
Alexandre Maia, custode di questo silenzio, lo conosce come pochi. Armato della sua macchina fotografica, ha calcato i sentieri dei boschi della Germania, imprigionando in pellicola analogica momenti fugaci di una bellezza selvaggia in costante metamorfosi. Ha calcato le ombre tra abeti e faggi, ha strisciato lungo brughiere e paludi, sfidando le stagioni e il tempo, in un continuo alternarsi di luce e oscurità. Non cercava solo di afferrare l’atmosfera raccolta, quasi monastica, della foresta, ma voleva mostrare i suoi mutamenti, lanciare un campanello d’allarme sulle problematiche ambientali e climatiche.
Le sue fotografie a colori non sono solo la celebrazione di alberi maestosi e panorami mozzafiato. Sono lo specchio di un ecosistema sottile e delicato, che rischia di svanire, di essere inghiottito dal nulla. Sono il grido di dolore di una madre Terra sofferente, un appello straziante a prenderci cura di ciò che abbiamo.
E anche il libro è un tributo a questa coscienza ecologica, un grido silenzioso. Stampato su carta riciclata tedesca, “Enter the Forest” è un manifesto di una nuova sensibilità, un appello all’attenzione e alla cura.
Entrare nei boschi attraverso le lenti di Maia è un’esperienza intensa, quasi mistica. Si torna a essere bambini, quando ogni cosa sembrava animata da uno spirito proprio. Si riscopre il legame ancestrale con la terra, si sentono i propri passi echeggiare come una preghiera sussurrata. In quel silenzio sacro, scorgiamo la nostra miseria e la nostra grandezza, riflesse nelle luci e nelle ombre della foresta.