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Fotografia: un viaggio fatto di luce e tempo, un modo di congelare l’attimo, di tradurre emozioni in immagini. L’analogico e il digitale rappresentano due sentieri paralleli in questo viaggio. Ognuno con le sue peculiarità, ognuno con i suoi estimatori. Così diversi eppure così intrecciati, costituiscono le due facce della stessa medaglia chiamata arte.
La fotografia analogica: un rito quasi sacrale, il gusto del concreto, della manualità. L’analogico è un viaggio nel tempo, quando la fotografia era un evento da pianificare con cura. Si pensi a Julia Margaret Cameron, una fotografa vittoriana, che dedicava ore alla preparazione di uno scatto, curando ogni dettaglio, manipolando la luce in modo da catturare non solo l’immagine, ma l’anima del soggetto.
L’analogico è un invito alla lentezza, alla riflessione. Non c’è il lusso della cancellazione immediata. Si pensi, si agisce, si aspetta. Si tratta di un approccio mentale diverso, che porta a una maggiore consapevolezza e controllo della composizione, dell’illuminazione, dell’esposizione. Questa lentezza, questa meditazione, è spesso visibile nell’immagine finale, permeata da un senso di intenzionalità.
All’opposto, il digitale porta con sé la velocità, la libertà. L’era digitale ha iniziato la sua marcia con la Kodak DCS 100 nel 1991, portando la fotografia nelle mani di molti. La possibilità di fare migliaia di scatti e selezionare il migliore, la possibilità di modellare l’immagine post-produzione, ha aperto un mondo di possibilità.
Digitale è sinonimo di sperimentazione, rischio, immediatà. Gli errori non sono più un ostacolo, ma un’opportunità per apprendere e migliorare. Si pensi a Martin Parr, un fotografo contemporaneo noto per il suo utilizzo innovativo del flash e del colore. Con il digitale, Parr ha avuto la possibilità di sperimentare e creare uno stile unico e riconoscibile.
Ma questo accesso facile e immediato ha un costo. Spesso, l’abbondanza di immagini può portare alla perdita di valore dell’unicità dell’istante. L’eccesso di elaborazione può distorcere l’immagine al punto da far perdere il legame con la realtà.
Analogico o digitale? Una scelta tecnica, certo, ma soprattutto una scelta artistica. Si tratta di come si vuole approcciare l’arte: con la meditazione e l’intenzionalità dell’analogico, o con l’audacia e l’istantaneità del digitale. Entrambi validi, entrambi affascinanti, entrambi riflettono il volto mutevole della fotografia.
Dunque, continuiamo il dibattito, esploriamo le differenze, celebriamo la diversità. Analogico o digitale, alla fine è la storia che conta, è l’emozione che trasmette, è l’anima che rivela. E la bellezza di tutto ciò è che la scelta è tutta nelle nostre mani.

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Le antiche mura dei monasteri armeni custodiscono segreti di fede. Pietre che il tempo ha levigato, candele che ancora ardono da secoli. Ted e Nune accarezzano quelle pietre, inseguono la luce tremolante di quelle fiammelle. Insieme, uomo e donna, portano lo sguardo oltre la storia, verso l’eterno.
Le pagine sfogliano il silenzio di chiostri spogli, il vento che sussurra tra archi e colonnati. Quaranta luoghi sacri disseminati nella terra d’Armenia, dove un tempo ribolliva la vita monastica. Ora restano le ombre dei monaci, i loro passi scolpiti nella pietra consunta.


Ma Ted e Nune sanno vedere oltre. Nelle loro fotografie, le mura antiche parlano ancora di fede, di sapienza, d’arte. Testimoniano la ricerca dell’uomo, il suo anelito al divino.
Pietre e candele. Volumi di silenzio e bagliori di luce. Così l’occhio e il cuore di Ted e Nune rivelano l’anima nascosta di questi monasteri. Con grazia leggera e armoniosa.

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Il privilegio è un ospite muto. Nidiato nel beneficiario ignaro, sta in silenzio come un inquilino che non paga. Invisibile a chi lo ha in casa, alza muri di cristallo davanti agli esclusi.
I non privilegiati navigano tra i flutti della vita; il privilegiato, spinto da venti amici, non sente la tempesta. La saggezza dei primi sta nell’adattarsi all’ingiustizia.
Il privilegiato, nella sua nave d’avorio, dovrebbe osservare un rispettoso silenzio. La sua cecità alla fortuna ricevuta è stoltezza, un torto all’equità.
Capire il privilegio è un dovere. Così si accorcia la distanza tra gli uomini.

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[…]

La superstizione danza silenziosa sulla linea sottile tra l’umano e il divino, si insinua nell’intreccio misterioso dell’esistenza. Non è un tentativo rozzo di domare l’indomabile, ma un rito, un dialogo, quasi sacro, con le forze invisibili del caso.
Immagina l’uomo in piedi davanti al mare in tempesta, urlando nel vento, cercando di placare le onde con parole ancestrali. Non cerca di dominare il mare, ma di comunicare con esso, di instaurare un dialogo con il suo fragore. La superstizione è questa danza intima, questa preghiera sommessa. Non un grido di guerra, ma un sussurro di comprensione. Il rischio, però, è di cadere in un equivoco. Le forze incontrollabili del caso non sono né benevole né maligne, sono indifferenti. L’uomo, nel suo tentativo di dialogo, può dimenticare questa verità. Può confondere il rumore del vento con la voce del destino, la caduta di una foglia con un segno degli dei. Può scambiare il silenzio del caso per un assenso, la sua indifferenza per affetto.
Tuttavia, il caso, come il mare, rimane sordo ai nostri appelli, indifferente alle nostre preghiere. E la superstizione diventa allora un canto solitario, un grido che si perde nell’immensità del cosmo, un bisogno di risposte che rimane inascoltato. Ma non è forse questo il cuore pulsante della nostra umanità? La ricerca costante di significato, la sete di risposte, l’eterna lotta per dare un volto all’invisibile. La superstizione è una melodia umana in una sinfonia universale, un grido di resistenza e di vulnerabilità. È un canto alla vita, una dichiarazione d’amore per il mistero, un ponte gettato verso l’ignoto. Ed è in questo, nella sua essenza più profonda, che la superstizione diventa affascinante, coinvolgente, irresistibile. Un inno all’umano nel suo tentativo di raggiungere l’infinito.

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Tra Montagne e Parole…

Abbraccio i sentieri che si dischiudono come pagine sotto i miei passi, e come il camminatore che scorge nuove vie sulle creste di un monte, mi trovo immerso nel mondo scolpito dalla penna di Erri De Luca. Un artigiano della parola, scolpisce i suoi pensieri come la pietra e il legno, plasmando una lingua che pare scavare nelle viscere dell’anima.
La Natura, nelle sue mani, è un velo che lentamente si ritira, nuda come il crocifisso, specchio di riflessioni profonde e intrise di verità universale. Le montagne, compagne di un viaggio immaginario e reale allo stesso tempo, accolgono l’uomo e i suoi passi, testimoniando la sua sete di conoscenza, d’amore e di verità.
Con la sua penna, De Luca conduce il lettore in un viaggio dentro se stesso, una cavalcata verso orizzonti di cui prima non si sospettava l’esistenza. Ogni elemento naturale si fa specchio dell’anima, una chiamata silenziosa alla spoliazione delle sovrastrutture, un invito a riscoprire la purezza dell’essenza dell’essere.
Nei meandri delle sue frasi si celano universi interi, strade non percorse che spingono verso lidi lontani. A ogni pagina, si cammina sul filo sottile dei pensieri, si affrontano domande senza risposta che aprono però la mente a riflessioni abissali. Le parole di De Luca disegnano con precisione e delicatezza i contorni del creato. Ogni particolare, anche il più piccolo, si carica di un significato inedito. Il vento che canta tra le cime degli alberi, l’acqua che danza lungo il letto del ruscello, i sassi levigati dalla pazienza del tempo, sono manifestazioni di un divino che parla direttamente all’anima.
E anche quando si chiude il libro, il viaggio continua. Le parole di De Luca sono semi che, una volta piantati, germoglieranno in maniere diverse ad ogni rilettura. Come la montagna che muta aspetto a seconda della luce, il testo rivela prospettive sempre nuove.
L’immersione nelle pagine di De Luca è un tuffo nel fiume della vita, una riscoperta della meraviglia celata nei dettagli più insignificanti. È un ritorno all’essenza, una liberazione dalle sovrastrutture che ci imprigionano, un riconoscimento dell’uomo nel suo stato più puro, simbolizzato dal crocifisso nudo. È un ascolto attento del silenzio della Natura, che parla un linguaggio diretto e potente all’anima.

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L’incanto rubato…

L’incontro tra Hoshino e Rocco ha il sapore di un piccolo miracolo, di una magia rubata al caso e al tempo. Quando quel micio dall’aria scanzonata è entrato nella sua vita, Hoshino era già prigioniero del morbo che lo divorava. Eppure Rocco lo ha stregato con la sua allure da attore consumato. Così Hoshino ha ritrovato l’antica passione per il palcoscenico e ha iniziato a ritrarre il suo nuovo compagno di scena, studiandone ogni mossa e posa.


In queste istantanee traspare tutta la poesia di quel sodalizio. Ogni immagine è un fotogramma di una rappresentazione senza copione, in cui la luce sculptura i gesti di Rocco. È un gioco di sguardi e di attese, è un ballo in punta di piedi rubato all’avanzare inesorabile del tempo.


Attraverso l’obiettivo Hoshino ferma fragili attimi di bellezza, regala al dolore una pausa di incanto. Sono scatti che hanno la grazia dei gesti essenziali, la levità dei respiri rubati alla malattia.


Sono il lascito gentile di un’anima che non si è arresa al buio, che ha trovato ancora la forza di stupirsi e di celebrare la vita. Sono un inchino al mistero del teatro, alla magia di ogni istante che riesce ancora a luccicare sul proscenio del mondo.

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…l’urgenza di custodire la democrazia

In una afosa mattina d’agosto, la stazione di Bologna si animava di viaggiatori. Nessuno poteva immaginare che una bomba celata in una valigia stesse per stravolgere le loro vite.
Alle 10.25, l’esplosione. Un boato assurdo, che squarcia corpi e coscienze. Emergono scene strazianti, impresse nella memoria collettiva. Soccorsi improvvisati, ambulanze insufficienti. L’orologio fermo su quell’istante di orrore.
È l’inizio degli “anni di piombo”, stagione buia che quasi sovverte la democrazia. Terrorismo, stragi, strategia della tensione. Obiettivi mirati da parte della sinistra extraparlamentare; attacchi indiscriminati da parte dei neofascisti, per seminare paura e insicurezza.
Bologna ne è emblema. A pagare sono cittadini inermi, colpiti per destabilizzare lo Stato. Seguiranno depistaggi, processi interminabili, verità negate. Mandanti forse senza volto, pur nell’accanimento della giustizia.
Eppure la città reagisce con compattezza. La memoria delle vittime alimenta l’impegno civile, ancora oggi incessante. Quell’orologio fermo ricorda a tutti noi l’urgenza di custodire la democrazia, bene fragile.
Sono passati oltre quarant’anni, ma il dolore non si è affievolito. Restano domande aperte, su cui non smettere di interrogarsi. Perché anche di fronte al Male, la speranza non muore.

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…un giardino dell’anima

Cesare Pavese con pochi versi riesce a evocare un intero mondo. In questa poesia il lettore viene catapultato in un giardino avvolto dalla calda luce estiva. L’erba secca scricchiola sotto i piedi, scaldata da un sole cocente che profuma di salsedine.
È un paesaggio sospeso nel tempo, dove il presente si fonde con il passato. I frutti cadono maturi al suolo, e quel tonfo ovattato richiama un sussulto nel cuore, quasi un’eco. C’è tutta una sinestesia di sensazioni, un intreccio di vista, udito, olfatto.
Il protagonista si muove all’interno di questa scena come rapito da un incanto. Nei suoi occhi si riflette quel ricordo luminoso di estati lontane. Ascolta parole sussurrate dal vento, parole che lo sfiorano soltanto. Ed emerge nei suoi lineamenti un pensiero sottile, che porta con sé il riflesso del mare. È un pensiero muto, eppure riecheggia nel cuore spremendone una malinconia antica. Così il dolore che stilla ha il sapore pungente dei frutti caduti, la nostalgia delle cose perdute.
Con pochi versi ariosi Pavese riesce a cristallizzare la bellezza effimera di un attimo. Ne emerge un piccolo gioiello, una poesia che cattura un’emozione e la imprigiona con grazia ed essenzialità. L’estate ritratta è un giardino dell’anima, in cui ritrovarsi.

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Le opere di Fred Herzog ritraggono la vivacità di Vancouver tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In un’epoca dominata dal bianco e nero, Herzog percorse la via del Kodachrome, imprimendo su pellicola i colori della sua città. Per anni, quegli attimi rimasero sospesi nel crepuscolo delle diapositive, in attesa che la tecnologia ne permettesse una fedele riproduzione.


Oggi, grazie ai progressi della stampa digitale, oltre duecentotrenta di questi frammenti di vita – molti inediti – risplendono nel volume “Fred Herzog: Modern Color“. Una celebrazione della quotidianità oltre il velo grigio che spesso la avvolge, un inno alla sua essenza più vera.
Herzog ha il dono di scorgere la poesia nei gesti semplici: un bambino che salta una pozzanghera, il riflesso di un tram sull’asfalto bagnato, il passo quieto di una coppia lungo la strada. Istanti catturati dal caso, cristallizzati nelle emulsioni cromatiche prima di svanire nel tempo.
Herzog si è imposto come precursore del colore in fotografia.

Con garbo, ha impresso su pellicola l’anima di un’epoca, offrendoci oggi la possibilità di assaporarne la bellezza fugace. I suoi scatti sono un omaggio alla vita, un’ode ai suoi colori.

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