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Una brezza leggera solleva le tende della stanza. È tempo di partire, ma dove? Il viaggio sembra un luogo lontano, quasi irraggiungibile. Un’eco di ciò che una volta era vacanza riecheggia tra i muri delle abitudini, tra gli schermi accesi e le notifiche inattese.
La vacanza, antica parola che nasce dal latino, era il luogo del vuoto, dell’essere senza impegni e occupazioni. Oggi, quell’essere vacante si riempie di voci remote che raggiungono i nostri orecchi anche a migliaia di chilometri da casa. Nel silenzio delle montagne, nell’immensità del mare, un tintinnio di notifiche sembra un richiamo incessante verso ciò che si è lasciato alle spalle.
Staccare la spina. Un gesto semplice che diventa oggi una rivoluzione silenziosa. Chiudere una porta e aprirne un’altra, quella che conduce verso paesaggi interiori inesplorati, là dove le montagne non sono meno alte, il mare non è meno profondo, e dove siamo invitati a essere pienamente presenti.
Non si tratta di fotografare, ma di vedere; non di condividere, ma di vivere. Ogni passo è un nuovo inizio, ogni sosta un’opportunità per guardarsi dentro, per sentire il mondo senza l’enorme elastico che ci riporta alla vita di sempre.
C’è una melodia nell’aria, un ritmo nel passo, un dialogo costante con sé stessi e con il mondo. Partire significa ritrovare non un luogo, ma una parte di sé che attende d’esser scoperta. È una pausa necessaria, una disconnessione che non è fuga ma ritorno, non abbandono ma ritrovamento.
È il tempo di un detox digitale, di una riscoperta di quel “vuoto” che è pienezza, lontano dagli schermi e vicino a noi stessi. Guardare oltre, sentire più profondamente, vivere con la consapevolezza che ogni giorno può essere un altrove, se solo abbiamo il coraggio di farlo essere.
La vera vacanza inizia e finisce dentro di noi, un viaggio che non conosce confini e non ha bisogno di valigie. È un ritorno a casa, a quelle parti di noi che solo staccando le spine fisiche e digitali possono, finalmente, manifestarsi e realizzarsi. È il tempo di guardare oltre, di sentire più profondamente, di vivere con la consapevolezza che ogni giorno può essere un altrove, se solo abbiamo il coraggio di farlo essere.

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Nelle pieghe del tempo, nel cuore d’un obiettivo, è nato un universo. Un universo in cui la macchina fotografica non è strumento, ma estensione dell’anima. Nelle mani di Masahisa Fukase, essa diviene un veicolo per l’esplorazione di un intimo abisso, una finestra aperta sul cuore.
Il libro “Masahisa Fukase 1961-1991 Retrospective” è un mare profondo e insondabile, fatto di onde di emozioni, tempeste di follia e spiagge d’amore. È un dialogo silenzioso tra l’artista e il mondo, un abbraccio fra l’occhio e l’essenza.


Nelle serie come “Yūgi (Homo Ludence)”, “Yōko”, “Karasu (Ravens)”, si coglie un gioco raffinato tra luce e ombra, un amore per l’imperfezione, una sensualità nel dettaglio. Ogni fotografia è una poesia, ogni scatto un soffio di vita.


La shi-shashin, l'”I-photography”, diviene qui non una tecnica, ma una filosofia, un modo di essere nel mondo, di abbracciarlo con tutta la propria umanità. Fukase non cattura immagini, cattura essenze, momenti di verità, frammenti d’eterno.
Non c’è distanza, non c’è separazione tra l’artista e il suo soggetto. C’è un amore profondo, una comprensione, una condivisione. Egli guarda attraverso la sua camera come si guarda attraverso gli occhi dell’amato, con una tenerezza che accarezza, con una passione che arde.
Nel suo sguardo sulla famiglia, nell’osservazione affettuosa della moglie, nel ritratto giocoso dei corvi, si scorge una grazia che va oltre la forma, un senso che va oltre il senso.


È un viaggio non verso l’esterno, ma verso l’interno, una discesa non verso l’oscuro, ma verso la luce. È un libro che non si legge con gli occhi, ma con l’anima, un libro che non si sfoglia, ma si abita.
“Masahisa Fukase 1961-1991 Retrospective” è una canzone senza parole, una danza senza movimento, una preghiera senza dogma. È una testimonianza d’amore, di follia, di umanità. È Fukase, in ogni sua sfumatura, in ogni suo respiro. È l’arte, nuda e sincera, nella sua forma più pura e sublime.

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[…]

La malattia si avvicina piano. La paura sfiora, l’anima resta libera. Nell’incertezza, la delicatezza. Conta ciò che emerge dentro, non la guarigione fisica.

La forza è nella resilienza interiore. Il pensiero scorre lieve, un filo sottile collega. Una riflessione leggera, un soffio di vento. Resistere con grazia alla malattia, trovando la propria luce interiore.

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L’occhio indugia su istantanee in bianco e nero, corpi di famiglia che si intrecciano in gesti sospesi. Scorre lento su volti e mani, braccia che avvolgono, gambe accavallate. Si ferma su un particolare, un piede nudo accostato a una spalla. Poi scivola altrove, su due fratelli stesi a terra, abbracciati.


Sono scene rubate all’intimità domestica, messe in posa da Joanna Piotrowska. Non istantanee di vita vissuta, ma teatro familiare. La famiglia come palcoscenico di tensioni sotterranee, tra rancori antichi e tenerezze logore. L’autrice chiede ai parenti di rievocare gesti di affetto, istanti già vissuti. Li fa posare come sculture umane, corpi che si intrecciano in modi quasi innaturali. Ne escono immagini ibride tra finzione e realtà, tra invenzione e memoria.


C’è qualcosa di ambiguo in queste foto in bianco e nero, volutamente rétro. Sono teneri abbracci o strette soffocanti? Innocenti intimità o sensualità disturbanti? Ogni famiglia nasconde ossessioni indicibili, rancori, gelosie. Eppure è lì che cerchiamo conforto, calore, amore incondizionato.


La famiglia è il porto e la prigione dell’anima. Questo libro ne ritrae il duplice volto, con lo sguardo di chi sa osservare ombre e luci.
Come in Kafka, l’io si forma e si perde nei legami familiari. È l’eterno groviglio di chi si sente a casa e in trappola. La famiglia che abbraccia e opprime. Così ci mostra Piotrowska, in scatti sospesi tra tenerezza e soffocamento. Frammenti di vita che ci appartengono. Con uno sguardo che sa leggere il non detto.

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La voce degli idoli…

Un piccolo specchio d’acqua sul monte Falterona, che custodisce segreti antichi. Qui riposano mute testimonianze di riti perduti, piccoli idoli offerti un tempo ai numi.
Sono figli del fuoco e dell’acqua. Plasmati dal calore delle fucine, poi raffreddati nel ventre puro del lago. Metallo e acqua, materie vive che hanno accolto le speranze dei viandanti.
Ogni statuetta racchiude una preghiera. L’ansia di un mercante prima della traversata, la nostalgia di un viaggiatore lontano da casa. Gesti semplici eppure intrisi di sacro, affidati alla custodia benevola degli dei.
Anche noi, talvolta, sentiamo il bisogno di credere che qualcuno ci ascolti. Che oltre la coltre opaca del cielo si celi un volto amico. Che non siamo soli ad affrontare le curve impervie del destino.
Ma gli dei oggi hanno il volto dei fratelli che incontriamo lungo la via. Parlano attraverso i gesti di amore, gli abbracci, le mani tese nel bisogno. Ci ricordano che non conta la meta, ma il cammino percorso insieme.
Alla fine di ogni viaggio, ciò che ci salva è l’amore donato e ricevuto. La vera offerta da deporre ai piedi del divino che è in noi e negli altri. Il resto è silenzio, e deve bastarci.

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Le ali della libertà…

Il gabbiano Jonathan Livingston

Il mare, onda su onda, vento e spazio. L’orizzonte sconfinato. In mezzo, un gabbiano. Non un semplice gabbiano.
“Il gabbiano Jonathan Livingston”, un titolo asciutto. Poche parole per una grande storia. Il volo come sfida, la libertà come ambizione, il superamento dei limiti come necessità. Jonathan è un gabbiano, ma non solo. Vuole di più. Capire, conoscere, trascendere. Non ha fame di cibo, ma di sapere. Non cerca un branco, ma l’oltrepassare. Rifiuta la routine, sfida la banalità. Vuole altezze impossibili, distanze infinite. Le parole scorrono essenziali, ogni frase un’onda, ogni pensiero un volo. La prosa è scarna ma profonda, carica di significati e emozioni. È un cammino interiore, un viaggio oltre i confini. Le ali di Jonathan sono le sue domande. I suoi dubbi, le sue aspirazioni. La solitudine è il prezzo della sua diversità, della sua libertà. Ma è anche la sua forza, il motore della sua sete di conoscenza. Non c’è retorica, solo la purezza della ricerca. L’ardore dell’esplorazione. L’onestà del dubbio.
La storia è semplice ma non banale. È un simbolo, una metafora. Dell’uomo, della vita, del nostro eterno anelito a comprendere, crescere, essere.
Il mare, il vento, il volo. L’essenziale, il profondo, l’umile. La vita, la libertà, la ricerca. Un gabbiano, un uomo, un’essenza. Breve ma eterno, come il mare e il cielo. Un testo che, come Jonathan, va oltre. È l’essere, è il volo.

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Un dizionario, quest’opera fatta di parole e silenzi, racchiude una vita intera, ma anche una storia, quella del “Professore e il pazzo”. Un film che narra una vicenda vera, leggera come la pioggia sottile che bagna le colline della Scozia, eppure densa come il terreno umido che accoglie le orme di chi va cercando significati.
Il Signor James Murray, un uomo dallo sguardo profondo come i pozzi antichi, lavora con l’amore di un giardiniere che cura ogni pianta, ogni foglia. E il dottor W.C. Minor, pazzo nella mente ma saggio nel cuore, gli tende la mano, attraversando il confine sottile tra sanità e follia.
Ma il film, come un fiume che perde il suo corso, si disperde nel narrare troppo e nel voler dire tutto. Le frasi ad effetto, posate come sassi su un sentiero, non conducono a una meta, ma disegnano un labirinto. La storia di Eliza Merrett, commovente e triste, diventa un ramo che non porta frutto, un canto senza eco.
Il professore e il pazzo” cerca di afferrare l’essenza delle parole, di tracciare la mappa di un viaggio lungo e tortuoso attraverso il tempo. Ma come un albero che non riesce a fiorire, manca della linfa vitale, della passione silenziosa che avrebbe potuto renderlo grande.
Le parole sono come il vento che soffia tra le dita, leggere e fugaci, ma capaci di scolpire la pietra se guidate con amore. Questo film, con la sua bellezza imperfetta, ci ricorda che raccontare una storia è un’arte delicata, un atto d’amore verso le parole e verso chi le ascolta. E così, “Il professore e il pazzo” rimane una melodia sospesa, un sogno non realizzato, una carezza sulla guancia che sfiora senza scaldare. Le parole, nel loro viaggio lungo e tortuoso, hanno trovato due uomini che le hanno amate, ma il film che racconta la loro storia sembra perdere quella traccia, quel segno, quella grazia che rende le parole eterna musica.

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Hiroshima, Giappone, 6 agosto 1945…

L’ombra impressa sulle scale di Hiroshima è il ricordo silenzioso di una vita interrotta troppo presto.
Quella sagoma scura, così nitida nel bagliore accecante, appartiene ad un anziano signore sorpreso dal destino. Il suo bastone è ancora lì, pronto a sostenerne i passi stanchi.
Chissà quali pensieri occupavano la sua mente in quegli istanti; forse ricordi di gioventù, forse la nipotina che lo aspettava a casa.
Ora è fermo, solo la sua ombra rimarrà impressa nella pietra bianca. Un’ombra leggera, priva di rabbia o condanna.
È il ricordo pacifico di una vita che merita di essere raccontata con grazia, perché nessuno dovrebbe mai più conoscere quella luce tremenda.

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Love and death…

Love and death. Mandatory steps along life’s journey, yet so unfathomable in their essence. When one is young, immersed in the enchantment of springtime, they both seem so distant. Love is an enchanted game of glances and fantasies; death something that only happens to others, never to us.
Yet, as the years go by, love reveals itself in its many facets: overwhelming passion, comforting tenderness, and bitter disappointment. To love and be loved is an endless challenge, a subtle balance between giving and receiving, between expectations and reality. To love is to let go, trusting the other, accepting the possibility of abandonment.
Death too, sooner or later, knocks on everyone’s door. And then the nagging question becomes relentless: What meaning has my life had? Have I loved enough? Have I left a mark, a positive trace? Have I truly lived each moment intensely, or have I let it slip away waiting for a tomorrow that would never come?
Only those who have truly loved and come to terms with death’s shadow can call themselves fully alive. Because living means accepting our fragility and moving forward nonetheless. It means cherishing the ephemeral beauty of each moment. It means staring love and death straight in the eyes, and continuing to dance on the tightrope suspended between these two abysses.

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