Gli odori, custodi silenziosi dei nostri giorni perduti, ci conducono a un tempo che sembra esistere solo nella terra dell’oblio. La crema solare al cocco, l’odore dello shampoo rimasto aperto nella calda cabina sulla spiaggia, non sono solo profumi, ma sentinelle di una giovinezza che vive nei recessi della memoria.
Un nonno, un abbraccio, il profumo del suo dopobarba, sono un viaggio in un giorno lontano, quando la malattia dava tregua al suo corpo, quando un attimo era un’eternità, un ricordo da custodire.
La vita è un fiume che scorre, a tratti lento, a tratti impetuoso, ma gli odori sono isole immobili nel suo corso, luoghi di sosta, di riflessione. È nelle cose semplici che troviamo i ricordi più profondi, nelle piccole cose che scopriamo la grandezza dell’essere.
Ogni odore è una porta, una finestra su un mondo che fu. Ogni profumo è una chiave che apre un lucchetto arrugginito, un passaggio verso una stanza chiusa, polverosa, ma ancora viva nel suo silenzio.
I nostri giorni sono tessuti di sensazioni, di profumi che, come un vento leggero, ci attraversano l’anima, si mescolano con il nostro respiro e ci guidano nella navigazione della vita. Sono bussola, stella polare, mappa che ci conduce a noi stessi.
In quella cabina sulla spiaggia, nel calore di un abbraccio ormai lontano, negli odori di quando eravamo bambini, c’è la semplicità di un’esistenza che troppo spesso si perde nel chiasso del mondo, nell’inutile complicazione delle cose.
Gli odori sono fili sottili che ci legano al passato, radici invisibili che ci ancorano al suolo del nostro essere. Sono la memoria di chi siamo, l’eco di una vita che continua a vibrare in noi, anche quando tutto sembra ormai perduto.
S’intrecciano destini e ferite, personaggi che vivono e soffrono, amano e odiano. Il nuovo libro di Michela Murgia è un viaggio, una scoperta, una perdita e una rinascita. Si parla di cambiamenti radicali che costellano la vita come stelle in una notte senza luna.
Una sera ci si siede a tavola e tutto cambia. La perdita, la malattia, l’amore tradito, la vita capovolta. Ecco l’essenza, il nucleo, la realtà nuda e cruda del romanzo di Murgia. Nessun ornamento, nessuna esagerazione; solo verità, dura come la pietra e fresca come l’acqua di montagna.
Questi personaggi, questi esseri umani in carta e inchiostro, sono vivi. Respirano, si muovono, si tagliano e si ammalano. Vomitano amore e rabbia in un mondo che è sì immaginario, ma anche così vicino, così palpabile.
Il lettore cammina con loro, soffre con loro, ama con loro. È un viaggio attraverso l’umanità, attraverso le pieghe più oscure e più luminose dell’anima.
Murgia scrive con grazia, con leggerezza. La sua penna tocca il cuore senza pesare, solleva lo spirito senza sforzo. Il suo è un libro originale, profondo, che rimanda a grandi opere della letteratura mondiale, ma che rimane unico, irripetibile.
La migliore risposta a un disastro che non controlli è un disastro che controlli. Le parole di Murgia sono un’eco di questa verità, un richiamo alla riflessione, alla meditazione. Un invito a guardare dentro sé stessi, a cercare la grazia anche nel dolore, la forza anche nella fragilità.
Questo è un libro che parla, che vive. È una storia di storie, un inno alla vita, un canto d’amore e di perdita. Un romanzo che non si legge solamente; si sente, si tocca, si vive.
La morte di Ivan Il’ič è un respiro, uno scivolare leggero tra le pieghe dell’esistenza. Tolstoj ci svela una vita, quella di Ivan, trascorsa nell’ombra, imprigionata in un ruolo, un uniforme. Ivan muore, ma lo fa in vita, giorno dopo giorno, perdendo se stesso in un conformismo vuoto. La malattia è il suo risveglio, la nudità dell’anima di fronte allo specchio.
Gerasim è l’antitesi, la semplicità che non indossa maschere. Lui è la terra, il seme, la crescita senza fronzoli. Lui è l’essere, l’autenticità.
Il testo di Tolstoj è una pagina, un soffio di vento, un gesto umile che racchiude una verità immensa. La vita e la morte, l’autenticità e la falsità, tutto condensato in un racconto che scorre asciutto come un torrente in montagna, profondo come le radici degli alberi.
La leggerezza di Tolstoj è un invito a spogliarci del superfluo, a riscoprire l’essenza, a morire da vivi per rinascere veri. Un racconto breve, ma una lezione senza tempo.
Lydia, con i suoi occhi di ghiaccio e la chioma dorata, emerge dalle brume della storia come una figura dolce e risoluta. La Siberia l’ha vista crescere, Parigi l’ha accolta e Matisse l’ha scoperta.
Non c’è traccia di erotismo nella loro relazione, solo una complicità profonda che sfiora le corde dell’arte. Non è la modella, ma la presenza, l’assistente, la musa silenziosa che permette all’artista di creare. Non c’è eccesso nei suoi gesti, solo una delicatezza che rimane nell’ombra.
Quando Matisse la perde per un breve periodo, qualcosa si spezza, qualcosa si perde nel profondo dell’anima. Ma il destino li riunisce e Lydia torna, più forte di prima, e diventa il suo tutto. Non è l’amante, non è la padrona, è l’anima dell’arte che scorre nelle sue mani.
Anni trascorrono, il mondo cambia, ma il legame rimane saldo come una roccia in mezzo al mare. La malattia lo colpisce, ma lei resta, cura le sue ferite fisiche, accarezza le sue sofferenze con mani di seta. L’arte continua a fiorire sotto i loro tocchi, fino all’ultimo respiro, all’ultimo disegno.
Lydia resta sola, con un vuoto che non si colma, con una storia che non finisce. Le tele vanno ai musei, i ricordi rimangono nell’anima, fino al suo ultimo giorno.
È una storia che racconta dell’arte senza fronzoli, senza eccessi. È un inno all’umiltà, alla passione, alla dedizione. La vita di Lydia è una poesia non scritta, una melodia non suonata, un quadro non dipinto. Un semplice gesto, un silenzioso addio, un eterno amore per l’arte.
L’importanza di essere musa, di essere riferimento, non è nel clamore, non è nei titoli di giornale. È nel silenzio del cuore, nell’eco di un nome, nell’ombra di un sorriso. Lydia e Matisse ci insegnano che l’arte non è nel rumore, ma nel sussurro, non è nel colore, ma nella sfumatura.
E così, nel silenzio di una lapide grigia, sotto il cielo di San Pietroburgo, Lydia riposa. La sua storia continua a vivere, nei colori, nelle forme, nei ricordi. Altrove.
In un cortile a Lipsia, un tavolo da ping pong giace sotto lo sguardo di una finestra all’ottavo piano. Sotto l’obiettivo del fotografo Hayahisa Tomiyasu, il tavolo si fa teatro di umane vicende, palcoscenico della vita.
C’è una volpe in questo racconto, una creatura sfuggente che ha attraversato il campo una sola volta, e poi non più. Ha osservato il tavolo, e poi se n’è andata, lasciando una scia di domande. Il fotografo l’ha attesa per quattro anni, ma in quella lunga attesa, ha visto altro. Ha visto noi.
Noi, che facciamo del tavolo ciò che ci pare, secondo le stagioni e le necessità. Un letto per riposare, un piedistallo per esibirsi, una tavola per condividere. Noi, che passiamo e lasciamo tracce, come la volpe, e ci perdiamo nell’ordinario.
C’è un sussurro in queste fotografie, un invito a vedere ciò che è nascosto nella semplicità. Un richiamo silenzioso a cercare la bellezza là dove non ci aspettiamo di trovarla. Il tavolo, immobile e silente, ci parla di noi, ci racconta chi siamo.
Tomiyasu non ha mai rivisto la volpe, ma ha scoperto una verità più grande. Ha scoperto l’umanità in un oggetto inanimato, ha trovato la poesia in un angolo di cortile, ha visto la vita scorrere e cambiare, e ci ha mostrato come farlo.
È una storia di attese e scoperte, di sguardi e silenzi, di un tavolo che non è solo un tavolo, e di una volpe che non è mai tornata, ma che vive ancora, nel cuore di chi guarda e vede oltre. È un viaggio dentro noi stessi, una meditazione sulla vita e sulla nostra capacità di trovare il sacro nell’ordinario, il sublime nel quotidiano.
E tutto inizia e finisce lì, in un cortile a Lipsia, con un tavolo da ping pong, un fotografo, e una volpe che forse, in fondo, non se n’è mai andata.
Le cime del potere e della ricchezza, i titani dell’epoca moderna, hanno preso forma nei sembianti di Elon Musk e Mark Zuckerberg. Da mesi si sono prodotti in un combattimento verbale, ostentando parole ed epiteti su spazi virtuali, tutto all’ombra di un machismo inespresso ma palpabile.
Ecco che ora le parole cedono il posto all’azione, a un combattimento, a un confronto fisico che mira a rievocare l’antico. Una sfida di plastica che finirà per essere spacciata come epica, senza alcuna essenza culturale dietro al fragore dell’evento.
L’Italia, che tanto guarda al passato senza comprenderlo, senza penetrarne i significati profondi, si fa palcoscenico di questo gioco, di questa maschera di virilità. Le parole di Musk rivelano accordi con il governo, promesse di donazioni a ospedali pediatrici, il tutto sotto il velo della celebrazione dell’antica Roma. Si gioca con la storia, con la cultura, come se fossero oggetti da esibire e non patrimonio da rispettare. La Sagra dei bulli ha trovato attori e teatro. Non vi è evoluzione qui, soltanto una replica delle singolar tenzoni d’un tempo, in un mondo che si pretende avanzato, ma che si ritrova ancorato a comportamenti primordiali. Uguali nella disuguaglianza, uguali nella bestialità dell’animo.
Questa sfida, questa messa in scena, è un segno del tempo, un simbolo di una classe dirigente che non ha saputo, o voluto, superare le barriere del passato. In essa vi è l’eco di un’Italia che non apprende, che non riflette, che si perde nel luccichio superficiale delle cose, dimenticando le radici e i valori che la sostengono.
I giganti del nostro tempo si sono scelti l’arena, ma è una scelta che parla più di loro che della nazione che li ospita, una scelta che svela le crepe nella facciata della nostra civiltà cosiddetta moderna.
Il ritorno è un gesto semplice ma profondo. Tornare nei luoghi dell’infanzia e della giovinezza è un tuffo nel passato, un viaggio nel tempo senza macchine. È bere un sorso di tè caldo per scaldare le mani rese rugose dal freddo della routine.
Ritrovare i sapori di un tempo, come i dolci della nonna, riaccende i ricordi. Quei sapori familiari sono una coccola rassicurante, che segna la fine della giornata e l’avvicinarsi del meritato riposo.
Nei luoghi conosciuti ci attende sempre quella parte di noi che non se n’è mai andata. Lì riscopriamo la bellezza delle piccole cose: il rumore del mare, il sapore di un piatto tradizionale. Piccoli semi che racchiudono l’essenza di un’epoca lontana.
Le vacanze sono un approdo sicuro per lo spirito affaticato, un rifugio per l’anima. Ci ritemprano e confortano. Sono la certezza che le difficoltà passeranno, come la notte lascia spazio al giorno.
Al termine del viaggio, il ritorno a casa non è un addio, ma un arrivederci. Il fuoco della speranza si ravviva nei luoghi familiari, pronto a scaldare il domani.
La vita è così, un avvicendarsi di riposo e fatica, di lavoro e attesa. Nei luoghi conosciuti che puntuali ritornano, ritroviamo la fiducia che dopo la notte verrà l’alba. E ci prepariamo ad abbracciare il futuro, con il cuore colmo di serenità.
A Sant’Anna, dove il tempo sembra essersi fermato in quell’istante terribile dell’agosto 1944, la terra conserva una memoria dolorosa. L’aria vi porta ancora l’eco di un pianto soffocato, il sussurro di preghiere inascoltate, il gemito della disperazione.
Non si tratta di mere parole, ma di una voce che proviene dal profondo dell’anima, un richiamo all’umanità, un monito silenzioso. Il racconto di chi ha vissuto quell’orrore diviene un delicato affresco di una realtà incomprensibile, una narrazione tanto cruda quanto poetica.
La grazia emerge nelle piccole cose, nella cura amorevole di chi ha cercato di sanare le ferite, nel calore di un raggio di sole che ha baciato una pelle martoriata, nel ritorno di un padre creduto perduto. La leggerezza è nell’andare avanti, nel portare i figli lungo i sentieri della memoria, nel trasmettere alle nuove generazioni la consapevolezza di un passato che deve essere ricordato senza rancore.
La profondità di pensiero si ritrova nel legame indissolubile con quei luoghi, nel rito del ritorno che non è soltanto un dovere, ma un’esigenza dell’anima, una ricerca di verità che va oltre il dolore e l’ingiustizia.
La guerra si è ritirata, ma ha lasciato dietro di sé una traccia indelebile, una cicatrice nella terra e nelle persone. Eppure, anche in mezzo all’atrocità, vi è spazio per la bellezza, per la vita che continua a germogliare, per l’amore che non si arrende.
Sant’Anna non è un luogo dimenticato, è un simbolo eterno di ciò che può succedere quando perdiamo di vista la nostra umanità. Eppure, è anche un monito all’amore, alla compassione, al perdono. Un luogo dove la storia non è soltanto passato, ma continua a vivere nel presente, insegnando a ogni generazione il valore della memoria, della riflessione, della gentilezza.
Lo so che giunti al termine di questa nostra vita tutti noi ci ritroviamo a ricordare i bei momenti e dimenticare quelli meno belli, e ci ritroviamo a pensare al futuro. Cominciamo a preoccuparci e pensare: “io che cosa farò? Chissà dove sarò da qui a dieci anni?” Però io vi dico: “Ecco guardate me!” Vi prego, non preoccupatevi tanto, perché a nessuno di noi è dato soggiornare tanto su questa terra. La vita ci sfugge via e se per caso sarete depressi, alzate lo sguardo al cielo d’estate con le stelle sparpagliate nella notte vellutata, quando una stella cadente sfreccerà nell’oscurità della notte col suo bagliore, esprimete un desiderio e pensate a me. Fate che la vostra vita sia spettacolare.
Michela, una voce sul palcoscenico della vita che non ha mai smesso di riecheggiare. Con la dolcezza di un filo d’erba e la forza di un monte, ha scavato profondi solchi nelle menti di chi ha avuto il privilegio di attraversare il suo mondo.
L’intelligenza affilata come il coltello del contadino, un’ironia che danza come la luce sull’acqua, una lotta intensa ma mai greve, un cammino fatto di meraviglia e scoperta. Ecco cosa era Michela. Un’insegnante silenziosa, una guida discreta.
Le sue parole, come pietre levigate dal fiume, risuonano nelle orecchie e si depositano nel cuore. La sua luce, ardente e pura, difficilmente sostenibile per alcuni, diventa un faro per altri. La sua presenza è un vincolo, un abbraccio che unisce teoria e pratica in un unico corpo danzante.
Chi ha avuto la fortuna di amarla, si trova oggi a guardare il cielo, cercando in esso un segno, una risposta, una direzione. E si chiede, cosa avrebbe pensato lei, come avrebbe agito, cosa avrebbe detto.
Grazie, Michela. La tua voce continua a parlare, la tua luce continua a brillare. E noi, noi continuiamo ad ascoltare, a guardare, a imparare.