È una ferita aperta, un’infamia che scorre silenziosa tra le pieghe di un sistema che ha dimenticato la scuola e chi, ogni giorno, la rende viva. Da mesi, migliaia di docenti precari sono senza stipendio. Non è solo un ritardo, non è solo inefficienza. È un messaggio chiaro: per chi governa, chi insegna è irrilevante, invisibile, sacrificabile.
Dietro le cattedre non ci sono numeri, non ci sono codici fiscali o contratti a termine. Ci sono vite. Uomini e donne che si alzano ogni mattina, che preparano lezioni, che accendono nei ragazzi la scintilla del sapere. Eppure, quella stessa dedizione è tradita, schiacciata, ignorata. Come si può chiedere a qualcuno di continuare a educare, quando gli si nega il minimo per vivere? Affitti da pagare, bollette che scadono, carrelli della spesa sempre più vuoti. Non sono storie lontane, sono realtà quotidiane.
E intanto loro, quelli che stanno in alto, parlano di “ritardi tecnici”. È sempre colpa di un sistema che non funziona, di fondi che non arrivano. Ma chi vive di promesse? Chi sopravvive di “domani sistemiamo tutto”? Il tempo passa, le vite vanno in pezzi. È incapacità, sì, ma è anche una scelta. Una scelta che rivela una verità amara: la scuola, per questo Paese, non è una priorità. È un problema da rimandare, un costo da tagliare, una voce secondaria nel bilancio.
Eppure, quei docenti, quegli eroi dimenticati, continuano. Continuano a insegnare, a spiegare, a credere che il sapere possa ancora cambiare le cose. Ma fino a quando? Fino a quando si può resistere senza un sostegno, senza una speranza concreta? Non si resiste da soli. Non si può.
Serve un grido, una rivolta collettiva. Basta precarietà. Basta salari negati. Basta vite spezzate dalla disorganizzazione e dall’indifferenza. La scuola non è fatta di proclami, di carte, di slogan. La scuola è fatta di persone. Mani che scrivono alla lavagna, occhi che guardano i ragazzi, cuori che battono per un futuro migliore. E queste persone meritano rispetto. Ora. Non domani.
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