L’amore dimenticato, un titolo che sembra un sottovoce, una confessione. Eppure, sin dalle prime inquadrature, la pellicola grida una melodia intensa di un paesaggio dell’anima, come l’eco delle montagne care ad un antico scrittore del Sud. Là, dove il film trova la sua radice, c’è la Polonia, con le sue gerarchie sociali, il suo cielo carico di piombo e il riverbero di un passato che pesa come un macigno. E dentro quest’opera, c’è Rafal, neurochirurgo al culmine della sua carriera, uomo dal cuore ferito, che con un destino beffardo si trasforma in Antoni, chirurgo contadino, medicando ferite con la semplicità di chi intuisce la malattia attraverso lo sguardo.
Il regista Michal Gazda traccia un ritratto intenso di un uomo che, perdendo la memoria, non perde l’essenza. La pellicola diventa un viaggio interiore, una ricerca di se stessi attraverso gli altri, un approdo a riva dopo una tempesta. Si sente la Polonia di inizio Novecento, si avverte il peso della distanza tra classi, la brezza di un cambiamento che vuole farsi strada, e il ritmo lento di una canzone popolare che narra storie d’amore e di perdita.
C’è una bellezza cruda nella maniera in cui il film si dipana, come il camminare piedi nudi su un terreno aspro. Eppure, nonostante l’attenzione ai dettagli e la profondità dell’indagine dell’anima, il film stanco si lascia andare, si adagia in un racconto che avrebbe meritato più audacia, più coraggio, come le mani di un alpinista che, a un passo dalla vetta, si arrende. La narrazione, pur evocativa nei primi attimi, si perde in un eccesso di descrizioni, come un fiume che, dimenticando la sua sorgente, si perde nel mare senza lasciare traccia. Si desidererebbe più audacia, una voce più forte, un segno distintivo che marchi questa storia e la renda unica.
Tuttavia, rimane l’eco di un’opera che, pur nei suoi difetti, tocca le corde dell’anima e fa riflettere sulla fragilità dell’esistenza, sulle cicatrici invisibili che ognuno porta con sé e sulla capacità di rinascere, sempre, nonostante tutto.