In un mondo travolto dalla banalità del quotidiano, “La mia prediletta” emerge come un torrente in piena, che si fa strada tra le rocce dell’indifferenza. La miniserie tedesca, fioritura artistica su terreno di Netflix, si annida nei meandri più oscuri della psiche umana, sfidando l’anima dello spettatore con la sua crudezza implacabile. Come le onde che si infrangono contro gli scogli, le vicende di Lena, Anna e Jonathan sconvolgono con la loro violenza quotidiana, scandendo il ritmo di un’esistenza rinchiusa in una gabbia invisibile. La prigionia, non solo fisica ma ancor di più spirituale, si rivela attraverso gli occhi di Anna, che nella sua innocenza svela un abisso di sofferenza. Una sofferenza che diventa un canto, una lamentazione che risuona nella notte.
La casa lugubre in cui sono confinati è metafora di un mondo esterno che, troppo spesso, chiude gli occhi di fronte alle atrocità. L’assoggettamento, la violenza, la manipolazione psicologica – tutto ciò è rappresentato con una precisione chirurgica, ma allo stesso tempo con la poesia di chi sa guardare oltre. La violenza non è solo un atto, ma un’ombra che si estende, un’eco che risuona in ogni angolo della casa.
E poi le indagini. In esse, si intuisce la disperazione di chi cerca, ma anche la speranza di chi crede nella giustizia. La contrapposizione tra la realtà angosciosa all’interno della casa e l’indagine esterna diventa danza, un balletto tra luce e ombra, tra speranza e disperazione.
Guardando “La mia prediletta”, l’anima trema di fronte alla rappresentazione dell’orrore che, ancor più del paranormale, è radicato nell’essere umano. Si avverte il peso di una realtà che, sebbene sia amplificata per fini narrativi, ha radici profonde nel nostro tessuto sociale. E proprio come la scomparsa di Lena Beck, ogni dettaglio, ogni sguardo, ogni parola non pronunciata diventa un ponte verso una riflessione più ampia sulla vulnerabilità, sul dolore e sulla resistenza dell’anima umana.
“La mia prediletta” non è solo una miniserie: è un invito a guardare in profondità, a sfidare le proprie convinzioni e a ricercare la luce anche nei luoghi più bui. Un lavoro ben riuscito che si insinua lentamente, ma che lascia un segno indelebile.
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