Camminare tra le vie del cimitero è un rituale solitario, quasi sacro, di raccoglimento e di silenzi interiori che ci colgono nel più profondo. Le pietre marmoree appaiono come un alfabeto indecifrabile, scritto da mani che non ci sono più, ma che ancora cercano di comunicare con noi attraverso l’eternità dell’assenza.
Lì, tra quei sentieri che si snodano come i corridoi di una biblioteca silenziosa, si sente il peso delle generazioni che ci hanno preceduto. Le vite, interrotte o compiute, viaggiano come sussurri nel vento. Il cimitero, lungi dall’essere un luogo di desolazione, è una cattedrale di storie, un’eco di umanità che ci invita a fermarci, a riflettere.
Il cuore fatica, è vero. Fatica perché in quel luogo, in quella solitudine in mezzo a un pubblico di pietre, ci si confronta con i propri limiti, con il velo sottile che separa la vita dalla morte. Ma fatica anche perché il cimitero è il luogo dove, paradossalmente, la vita trova il suo significato più puro, privo di artifici e orpelli. Camminare per le stradine di quel luogo è come immergersi in un mare di silenzi. Uguali, simmetrici. Eppure, in quella simmetria, c’è qualcosa di unico e irripetibile. Ogni pietra, ogni nome inciso, è un mondo a sé, un universo di emozioni, di amori, di delusioni e di vittorie che soltanto in quel momento di quiete riusciamo a percepire nella sua interezza. E sì, è un richiamo. Un richiamo che a volte pesa come un macigno, altre volte ci accarezza come una brezza leggera. Ma è sempre lì, ad attendere. È come se quelle vie, quei sentieri, ci invitassero a una sorta di dialogo silente con noi stessi, con il nostro passato e con il nostro futuro. Forse è per questo che, nonostante il peso nel cuore e la solitudine che ci avvolge, continuiamo a camminare per le stradine silenziose del cimitero. Perché lì troviamo una specie di redenzione, una comprensione che sfugge alle parole, ma che si insinua, delicata, nei meandri dell’anima. E in quel silenzio, in quell’assenza, ritroviamo frammenti di eternità.
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