L’estate è spesso un palcoscenico dove si rappresenta una commedia di leggerezza e spensieratezza. Ma dietro le quinte, nella penombra dove il sole non arriva, c’è un angolo che culla le sfumature più profonde del nostro essere. Una calura che pesa sul cuore tanto quanto sulla pelle, un’aria satura che sembra trattenere le parole prima che diventino suono.
Viaggiare d’estate può essere un atto di autoesilio, un tentativo di mettere distanza tra sé e la familiarità ossessiva della routine. Non è tanto l’altrove geografico a catturare l’attenzione, quanto l’altrove di noi stessi. Lo straniero che vediamo riflesso nelle acque di un mare lontano non è un altro, ma una versione di noi che abbiamo perso o che forse non abbiamo mai conosciuto. Sperimentare l’estraneità da se stessi è un modo per misurare il peso della nostalgia, quella malinconia dolce-amara che è nutrimento per l’anima. E la malinconia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è nemica della vita. È un vino forte che bisogna saper degustare. In essa troviamo l’eco di un desiderio che non si placa mai del tutto, un anelito che non si riduce alla banalità di un bisogno. È il sale che conserva i momenti preziosi e li rende eterni nel loro passaggio effimero.
Quindi sì, la felicità potrebbe essere sopravvalutata, una moneta lucente ma leggera. La malinconia, invece, è una moneta più pesante, temprata nel fuoco delle esperienze e nella forgia dei sogni infranti. È una ricchezza silenziosa che si accumula nell’anima, una sorta di paradiso introspettivo che permette di toccare il divino nella sua forma più umana.
L’estate, con le sue ambivalenze, è forse il periodo più adatto per fare i conti con questi aspetti contrastanti del nostro io. Un tempo sospeso, un’isola nell’arcipelago dell’anno, dove la ricerca di una felicità effimera e la contemplazione della malinconia possono convivere, dialogare, e forse, per un attimo fugace, fondersi.
{ 0 comments… add one }