La casa si staglia come un monolito silente contro il lento calar del sole, le sue guglie inquietanti sembrano graffiare il cielo plumbeo. L’acqua del lago, a pochi passi dalla soglia, è un tappeto d’argento liquido che si stira all’infinito, increspato da venti invisibili.
La nebbia comincia ad avanzare, sottile come un velo di sposa, avvolgendo la casa e le acque in una quiete misteriosa. Non è un silenzio normale, è un silenzio carico, come se la natura stessa trattenga il fiato. Gli alberi del bosco dietro l’edificio sembrano ombre allungate, contorni di un dipinto dove i colori sono stati dimenticati. Il vento fruscia tra le foglie, e l’aria si impregna del profumo di terra, di legno, di umidità. Non si può fare a meno di sentirsi piccoli, irrilevanti di fronte a tanta imponenza architettonica e naturale. La casa evoca un senso di meraviglia disturbante, come se ci invitasse a entrare, pur mettendoci in guardia con la sua austera bellezza. È un fascino ambiguo, che incute riverenza e timore, che attrae e respinge in un unico, continuo respiro.
Il freddo del vento si fa più pungente, quasi a voler sottolineare l’impotenza del nostro essere, vulnerabile in confronto all’eternità dell’acqua, alla solennità della pietra, alla voce antica del bosco. Siamo ospiti, intrusi forse, in questo spazio dove la natura e l’opera dell’uomo si fondono in un inquietante armonia. Eppure, nonostante l’ambivalenza del momento, c’è qualcosa che ci tiene lì, incollati al suolo, a scrutare la nebbia, a lasciarci attraversare dal vento, a dialogare in silenzio con la casa. Come se attendessimo qualcosa, o qualcuno, che mai veramente arriverà.
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