In “L’Immensità,” lo sguardo è sia la prigione che la liberazione. Le immagini che scorrono sul piccolo schermo televisivo rappresentano una finestra su mondi alternativi, una fuga dalla tirannia patriarcale e dal tradizionalismo asfissiante. È un film che gioca sul confine tra l’effimero e l’eterno, tra l’immagine proiettata e quella vissuta. Pop e patriarcato convergono e si scontrano, come onde che si infrangono su una spiaggia di aspettative e desideri.
La madre, figura di bellezza e forza, si trova nella posizione ambivalente di essere l’immagine da venerare e, allo stesso tempo, quella da rimuovere dall’occhio collettivo. È simbolica della donna nel cinema e nella società italiana degli anni ’70: oggetto di desiderio e, al tempo stesso, di repressione. È la chiamata silente a guardare altrove, a cercare nuovi modelli di riferimento, che il film porta avanti attraverso la figura di Adriana, o meglio, Adri. Adri vive nel dualismo tra la realtà imposta e l’identità desiderata, un conflitto incarnato attraverso icone pop come Raffaella Carrà e Adriano Celentano. Essi rappresentano un ideale di libertà, una trasgressione in immagini e suoni, che le permette di esplorare il suo essere nel mondo, benché in una solitudine quasi assoluta.
Il film di Emanuele Crialese è un’esplorazione del desiderio di cambiamento in un mondo che rifiuta di cambiare, una denuncia sottile ma pungente di un’Italia ancorata a pregiudizi e tradizioni che soffocano più che proteggono. E nel finale, quando le note di “L’immensità” di Johnny Dorelli riempiono lo schermo, sappiamo che poco è cambiato, eppure tutto è in movimento, almeno negli sguardi e nelle immagini che rimangono impresse nella mente e nell’anima. Siamo di fronte a una tragedia, ma una tragedia che lascia spazio all’immaginazione, all’atto di vedere oltre, di cercare la propria “immensità” in un mondo che sembra rimpicciolirsi sempre più.
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