La morte non è un naufragio, ma un attracco, un ritorno a terra ferma dove tutto ha inizio. Così ha accolto il suo destino Michela Murgia, scrittrice dai fondali profondi e donna che ha saputo governare la tempesta del cancro con una mano salda.
In un’intervista rilasciata su Repubblica, Fabio Calabrò, il dottore che l’ha accompagnata in questo viaggio, racconta di un patto. Non un contratto clinico, ma un’intesa d’anima, un cammino condiviso che non guarda alla malattia come un nemico, ma come un segmento di strada da percorrere con dignità e rispetto.
I reni, questi organi silenziosi, hanno svelato un cancro già avanzato. Ma Michela non ha visto in Calabrò un giudice, ma un compagno di viaggio, uno che l’ha lasciata proseguire come desiderava, con la penna nella mano e il cuore svelato.
Ha camminato per le vie di Trastevere, dettato pagine, trasformato il cancro non in una lotta, ma in un compito, un impegno che era la ragione della sua esistenza. Il suo libro sulla gestazione per altri è stato il faro che l’ha guidata verso il porto. Il dolore, questo marinaio scomodo, non l’ha piegata. Ha chiesto di vivere come sempre aveva fatto, senza cedere un’oncia di libertà o dignità. E poi, quella mattina del 10 agosto, con un sussurro come un vento leggero, ha annunciato al suo medico: “Ora posso andare.” Un addio sobrio, una gratitudine per una libertà donata e mantenuta, una rivelazione di chi ha saputo navigare fino all’ultimo con la testa alta.
La morte non è sconfitta, ma arrivo. La malattia non è condanna, ma parte di un cammino. La libertà di cura è un’arte umana, un riconoscimento di ogni vita.
Michela ha accolto il cancro come un percorso e non come una pena. Con la penna di una scrittrice e l’anima di una donna saggia, ha mutato il suo dolore in narrazione, la sua malattia in un insegnamento per tutti, la sua morte in un inno alla libertà. È andata, ma la sua voce resta nelle parole tracciate, nel sorriso offerto, nell’accordo onorato, nella telefonata dell’ultimo giorno, affermando ancora una volta la sua libertà: ora ho finito, posso andare. Con la grazia e la sensibilità, la sua storia è un canto, una melodia che continua a risuonare.
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