Cesare Pavese con pochi versi riesce a evocare un intero mondo. In questa poesia il lettore viene catapultato in un giardino avvolto dalla calda luce estiva. L’erba secca scricchiola sotto i piedi, scaldata da un sole cocente che profuma di salsedine.
È un paesaggio sospeso nel tempo, dove il presente si fonde con il passato. I frutti cadono maturi al suolo, e quel tonfo ovattato richiama un sussulto nel cuore, quasi un’eco. C’è tutta una sinestesia di sensazioni, un intreccio di vista, udito, olfatto.
Il protagonista si muove all’interno di questa scena come rapito da un incanto. Nei suoi occhi si riflette quel ricordo luminoso di estati lontane. Ascolta parole sussurrate dal vento, parole che lo sfiorano soltanto. Ed emerge nei suoi lineamenti un pensiero sottile, che porta con sé il riflesso del mare. È un pensiero muto, eppure riecheggia nel cuore spremendone una malinconia antica. Così il dolore che stilla ha il sapore pungente dei frutti caduti, la nostalgia delle cose perdute.
Con pochi versi ariosi Pavese riesce a cristallizzare la bellezza effimera di un attimo. Ne emerge un piccolo gioiello, una poesia che cattura un’emozione e la imprigiona con grazia ed essenzialità. L’estate ritratta è un giardino dell’anima, in cui ritrovarsi.
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