L’intelligenza artificiale è un fiume carsico. Serpeggia silenziosa nelle viscere della nostra società, cercando faticosamente il suo percorso. Affiora qua e là in superficie con risultati prodigiosi, per poi scomparire di nuovo nell’ombra.
È un fiume che ha bisogno di molte braccia per scavare il suo letto. Braccia pagate una miseria, due dollari l’ora, in luoghi lontani come il Kenya. Lì dei giovani, chini su piccoli schermi, rendono meno “tossiche” le risposte di ChatGPT, più gentili, politically correct. Lo stesso accade con Bard, il chatbot di Google. Software miracolosi, dietro cui si celano esseri in carne e ossa, che correggono, limano, affinano…
È una storia che si ripete. Come nel Settecento, quando tutti ammiravano esterrefatti il Turco Meccanico, quell’automa che giocava divinamente a scacchi. Celato nelle sue viscere, c’era un nano che muoveva i fili. Oggi mille corpi invisibili alimentano la corrente sotterranea dell’intelligenza artificiale.
Sono lavoratori precari, assunti da multinazionali come Accenture o Appen. Denunciano di non riuscire a controllare quello che le macchine dicono. Temono che le risposte diventino pericolose. Un grido nel deserto, che dovrebbe scuotere le nostre coscienze.
Non permettiamo che la luce accecante del progresso ci abbagli. Dietro c’è sempre un sacrificio umano. Ricostruiamo il percorso sotterraneo di questo sapere, seguiamo il filo rosso dello sfruttamento che lo alimenta.
Le imprese prosperano grazie al lavoro nascosto di molti. Devono riconoscere questo impegno, retribuirlo dignitosamente, non voltarsi dall’altra parte. Il profitto non può calpestare la dignità dell’uomo.
Camminiamo inquieti su questa strada accidentata della tecnologia, tra intuizioni geniali e regressioni etiche. Ma non smarriamoci. Guardiamo la persona dietro la macchina, l’anima dietro gli algoritmi. Solo così potremo immaginare un futuro più umano, dove progresso scientifico e giustizia sociale vadano di pari passo.
Continuiamo a interrogarci, a porre domande scomode all’intelligenza artificiale. Perché la tecnologia non è mai neutrale, porta impressa l’anima di chi l’ha generata. Spetta a noi decidere che volto darle: un volto luminoso di speranza, o un ghigno oscuro di prevaricazione.
{ 0 comments… add one }
Next post: Una mano che scrive…
Previous post: […]