Cammina Gursky su terreni mai calpestati prima. Entra nelle interiora del mostro contemporaneo e ne ritrae le viscere con sguardo freddo e distaccato. Ha imparato a guardare senza pregiudizi ciò che siamo diventati. Il suo obiettivo è la lente spaesante per eccellenza. Ci costringe a interrogarci, a guardarci allo specchio della sua compassionevolissima freddezza.
Gursky non scende a compromessi, non edulcora nulla. Rappresenta il reale così com’è, senza giudizio né compiacimento. Ha studiato le prospettive più insolite, quelle che straniano le cose a noi care. Ha scrutato dall’alto la babele del commercio, gli affanni della logistica, i riti del tempo libero. Ne ha offerto improvvise visioni, come un angelo caduto atterrato nella nostra confusione.
La sua lente spietata non fa sconti. Ritaglia porzioni di mondo che appaiono asettiche finché non ti avvicini e noti il pulviscolo umano disperso. Minuscoli puntini irrilevanti rispetto alle geometrie perfette, alle composizioni studiate che immortalano i templi del consumo, i luoghi di culto dell’economia globalizzata.
Gursky si insinua ovunque. Nei centri commerciali, negli aeroporti, nelle borse valori. Ritrae le folle come stormi migratori, consumatori vestiti tutti uguali, piccoli ingranaggi di un meccanismo più grande. Cattura i ritmi forsennati della produzione industriale, gli stabilimenti sovraffollati, i capannoni sterminati pieni di merci.
La sua è fotografia concettuale, costruita con rigore geometrico. La perfezione formale stride con i soggetti rappresentati, li rende ancora più stranianti. I colori sono vividi, quasi fosforescenti. I dettagli curati fino all’ossessione. Ogni elemento concorre a creare visioni che perturbano, che costringono a guardare il nostro mondo da prospettive insolite.
Gursky applica il distacco del documentarista. Non c’è compiacimento nei suoi scatti, solo osservazione neutrale di ciò che si muove e ansima alla velocità della luce. Le sue foto sono specchi deformanti, ci restituiscono un’immagine di noi stessi che suscita inquietudine.
La potenza del grande formato contribuisce a questo effetto straniante. Figure umane ridotte a punti, macchine e merci che dominano gli spazi. L’individuo è annientato, schiacciato da un sistema che lo sovrasta. Ma Gursky non è mai moralista. Ritrae le cose così come sono, nella loro mutevolezza. Il suo obiettivo cattura realtà sfuggenti che si dissolvono appena volti lo sguardo.
Gursky non inventa nulla. Si limita a selezionare frammenti di quotidianità che raccontano il tempo presente. Con pazienza certosina mette a fuoco i meccanismi del vivere contemporaneo. Ne svela geometrie nascoste, ritmi alieni. Tutto questo senza giudizio, con sguardo apolitico.
Le sue foto testimoniano un’epoca, ne colgono gli aspetti più problematici e controversi. Rappresentano il punto di vista di un outsider, di un osservatore che cammina su terreni inesplorati. Gursky applica alla fotografia l’etica del documentarista e l’estetica del pittore. Ne derivano immagini tanto realistiche nel soggetto quanto astratte nella composizione.
I suoi scatti sono finestre su mondi ai più sconosciuti. Luoghi remoti che ha imparato a mettere a fuoco con sguardo clinico. Guardandoli ci rendiamo conto di quanto poco sappiamo delle realtà che ci circondano. La fotografia di Gursky è rivelazione e denuncia al tempo stesso. Ci costringe a interrogarci, a non distogliere lo sguardo. È uno specchio impietoso che riflette le crepe e le inquietudini del mondo contemporaneo. Un mondo di cui siamo parte integrante, che contribuiamo a plasmare con le nostre scelte e azioni quotidiane.
Le fotografie di Gursky sono finestre scomode, che mostrano una verità a volte difficile da accettare. La sua lente spaesante non ci lascia indifferente. Ci spinge a guardarci dentro, a vedere la realtà per quella che è. Una realtà complessa, contraddittoria, meravigliosa e terribile al tempo stesso. Una realtà che Gursky cattura e rinnova con ogni scatto, perpetuando la sua inquieta ricerca.