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Noi la chiamavamo “villeggiatura”…

Noi la chiamavamo “villeggiatura”, parola antica che porta il sapore dell’estate libera. Partivamo con le valigie agganciate sul tetto dell’auto come impavidi scalatori. Dal finestrino, perennemente abbassato, vedevamo scorci di vite parallele, famiglie in cammino nell’afa di un luglio senza fine. Dopo ore di sole che bacchettava l’asfalto, arrivava il momento: la casa sul mare, permeata di sale e vento, con lenzuola ruvide odorose di lavanda.
Per noi piccoli iniziava il tempo della libertà. Si alzava il sole e noi insieme, pronti a reclamare il nostro pezzo di spiaggia. Il tempo si dilatava tra nuotate e castelli di sabbia, tra la raccolta di conchiglie e pietre levigate dal bacio del mare. Quando il sole era al culmine, ci rifugiavamo sotto le fronde, architetti di mondi minuscoli tra aghi di pini e sabbia.
Pomeriggi lenti come il volo di un gabbiano, tra ghiaccioli colorati e camminate scalzi al limitare delle onde. Veniva la sera, e noi ci addormentavamo al canto delle cicale, come una melodia tessuta dal vento.
I giorni passavano lenti, senza l’occhio severo degli orologi, solo il sole a misurare il tempo. Giocavamo con nuovi amici, come una brigata abbronzata di marinai sulla sabbia.
Settembre veniva con i suoi acquazzoni, come segni d’inchiostro sulla pagina dell’estate. Si tornava a casa, la pelle colorata dal sole, le tasche piene di tesori di spiaggia. Nei ricordi, foto di un’estate senza fine.

Da piccoli, le preoccupazioni degli adulti ci sfuggivano, troppo immersi nei nostri mondi incantati. E forse è giusto così: come si possono vedere le ombre, quando si è bagnati di luce?
La magia dell’infanzia è un dono da custodire. E io la porto con me, come una conchiglia: per sentire il mare, anche quando è lontano.

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