André Kertész. Come un violino zingaro, nato nel cuore di Budapest, sussurrava immagini al mondo. Da Parigi alle strade di New York, il suo occhio onnisciente catturava la vita con una spontaneità che sconvolgeva. Una macchina fotografica Leica per mano, si muoveva leggero come un gatto sulla neve, scompariva nel tessuto cittadino, diventava ombra per far risaltare la luce.
Le sue fotografie, erano poesie scritte con la luce, storie sospese nell’attimo. Come “Chez Mondrian”, un frammento di tempo intrappolato nella geometria dell’atelier, o “The Fork”, un omaggio alla bellezza celata nelle cose quotidiane. E ancora, “Meudon” e “Stairs of Montmartre”, scale di pietra che sembravano condurre non solo a una strada o una casa, ma direttamente nell’anima della città
Ma Kertész non era solo un occhio. Era un cuore, un’anima. Catturava la solitudine, la quiete, la gioia e la malinconia. Le sue immagini erano un invito a guardare oltre, a vedere l’invisibile, a percepire l’umanità celata dietro ogni volto, ogni gesto. Eppure, in fondo, si sentiva un estraneo, un osservatore solitario. Questo senso di estraneità si riflette nelle sue opere, rendendole ancora più profonde, più toccanti.
Quando se ne andò, nel 1985, lasciò un’eredità che va oltre la fotografia. Kertész ci ha insegnato a vedere il mondo con occhi diversi, a trovare la bellezza nell’ordinario, a catturare l’effimero. E forse, più di tutto, ci ha insegnato che la vita, in tutta la sua complessità e semplicità, è degna di essere celebrata.