Un racconto, un ruscello di parole che si avventura in valli ancora vergini, là dove l’occhio umano non ha ancora scandagliato. La tecnologia, quel vento che non risparmia nulla, trascina vite, sogni, anche le ombre sfuggenti di noi mortali. S’incarcera in un iPhone, sasso levigato dal tempo e lustrato dall’uso, un ponte ardito che sfida le acque tumultuose della morte.
Ma ascolta, nell’aria sottile del vuoto, c’è un canto. Non è un canto innocente, non è una ninnananna. È un grido che risuona nelle valli, un peso che ci opprime il petto. Il desiderio di potere, l’ansia della vendetta, contamina l’armonia del canto, lo trasforma in una freccia avvelenata. Un veleno che si diffonde, che acceca i cuori e offusca i pensieri, eredità oscura di un’epoca che, presuntuosa, si crede onnisciente, onnipotente.
Qui, nel cuore stesso del racconto, là dove pulsa l’essenza, là dove risiede l’anima, qui sanguina la storia. Si infiltra nelle pieghe più intime del nostro bisogno di dominio, si insinua nelle crepe del muro che erigiamo per proteggere la nostra umanità. L’iPhone del signor Harrigan non è solo un oggetto, è un testimone silenzioso, uno specchio in cui si riflette il nostro tempo, una lente che amplifica e distorce le nostre paure, i nostri sogni, le nostre ambizioni.
Ecco una melodia che risuona antica, un canto di sirene che ci invita verso il pericolo, che alimenta il nostro desiderio. Ci ricorda di ascoltare, di guardare oltre l’apparenza, ci sussurra che le parole non sono solo piume al vento, che le azioni sono pietre lanciate in uno stagno e che creano onde che si propagano all’infinito. La tecnologia, attenzione, non è solo un mezzo, può diventare il nostro scopo, può diventare il labirinto nel quale ci perdiamo. Ecco il richiamo, la lezione sospesa tra le righe, il canto amaro che risuona solitario nel silenzio della nostra epoca.