Gianni Berengo Gardin, nato dove il mare fa la corte alla terra, diventa cantore di un’Italia in bianco e nero, come un vecchio film che mormora ancora storie al cuore dell’ascoltatore.
Egli srotola i suoi rulli di pellicola come se fossero tappeti volanti, capaci di portarci in alto, lontano, per mostrarci le nostre case, i nostri vicoli, i nostri volti. Ogni suo scatto è un respiro preso in prestito dalla realtà, fermato nel tempo, in attesa di essere di nuovo aspirato dagli occhi di chi guarda.
Sono immagini che parlano, sussurrano, gridano. Raccontano di treni che non fischiano più, di bambini con gli occhi grandi come lune, di vecchi che portano sulle spalle il peso del mondo. Di piazze gremite e di strade vuote, di feste popolari e di solitudini urbane.
Le sue foto non sono solo quadri incorniciati, ma finestre aperte sulla vita, sulla nostra vita. Sono occhi che ci guardano mentre noi guardiamo loro. Rivelano a noi ciò che spesso ci sfugge, ciò che non vediamo perché troppo vicino, troppo familiare.
Le sue fotografie sono come poesie senza parole, scritte con la luce. Con una sensibilità acuta e delicata, lui, l’osservatore silenzioso, ci mostra la bellezza nascosta nel quotidiano, nel banale, nel semplice. E così, tra un clic e l’altro, ci insegna che ogni vita merita di essere raccontata, perché ogni vita è un’opera d’arte unica e irripetibile.
E nel suo raccontare l’Italia, Gardin non solo la ritrae, ma la modella, la plasma, la vive. Come un pittore che non si limita a dipingere la sua tela, ma la sogna, la sussurra, la respira. E noi, osservatori dei suoi scatti, diventiamo a nostra volta sognatori, partecipi di un viaggio che è insieme suo e nostro. Un viaggio nella realtà, attraverso gli occhi di un poeta dell’obiettivo.