Nell’epilogo di questa tragica vicenda, Alessandro Impagnatiello ha commesso un atto efferato: ha ucciso Giulia. Di fronte al suo corpo dilaniato, Alessandro non si ferma a contemplare l’orrore né a riflettere sulla gravità del suo gesto. Invece, corre immediatamente sul mondo virtuale, affannato nella ricerca spasmodica di soluzioni. Brama di cancellare le prove, far sparire il sangue e cancellare i messaggi di WhatsApp dai telefoni. Ma cosa cerca davvero? Cosa cerca in quel mondo di pixel e codici? Sembra aver dimenticato che la vita, quella vera, è fatta di carne e sangue, di emozioni e conseguenze ineluttabili.
Eppure, da una sfida goliardica come quella evocata nella canzone di Battisti e Mogol, “guidare a fari spenti nella notte”, si passa a una gincana ancora più tragica. Si tralascia l’amore, i sentimenti, persino la gravidanza, come se fossero solo degli ostacoli da superare, delle pedine sacrificabili in questa insana partita di sopravvivenza. La battaglia con il rischio diventa estrema, quasi elettrizzante, alimentata da una sorta di tossica endorfina. Ma cosa succede quando, per un crudele destino, ci si ritrova con un cadavere nella vasca da bagno? Ci si affida all’onniscienza di “Madre”, come se fosse l’androide del Nostromo di Ridley Scott, pronto a risolvere ogni problema. E persino le parole di Alessandro, che pronuncia senza pentimento alcuno, confermano la sua tragica confusione tra la realtà e un mondo parallelo, dove si può premere “esc” per azzerare tutto, per cancellare le tracce dei propri atti.
Questa concezione della vita come un gioco, in cui non esistono conseguenze morali, in cui si minaccia il suicidio per abbandonare la partita o si spegne tutto premendo un pulsante, è segno di una profonda mancanza di responsabilità. La connessione tra azioni e conseguenze, la comprensione della responsabilità morale, sembra essere scomparsa in questa dimensione virtuale. Eppure, c’è un errore ancor più grave che possiamo commettere: quello di giustificare l’omicidio di Giulia come un fatto isolato, attribuendolo a una presunta follia di Alessandro. Questo ci impedisce di affrontare la radice profonda e dilagante di questa vera e propria malattia sociale.
Dopo l’orrore di questo tragico evento, si è scatenato l’indecente sfruttamento di alcuni influencer, che hanno cercato di trarre profitto dalla morte di Giulia, fingendo di essere suoi affezionati seguaci. Questa triste realtà ci dimostra quanto profondamente radicato e diffuso sia il male in questo mondo virtuale, in cui i profili e gli account si scambiano come monete, lontano dai corpi fisici e dalle emozioni autentiche vissute dalle persone. Ci troviamo di fronte a una banalità del male (o del nor-male) che si diffonde, in cui tutto sembra perdersi nella miseria di una ricerca su Google.
La tragica storia dell’omicidio di Giulia ci pone di fronte a una cruda realtà, in cui l’incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni, la manipolazione delle relazioni umane e la mercificazione della morte sono all’ordine del giorno. È un campanello d’allarme che richiede una profonda riflessione sul modo in cui viviamo e interagiamo in questo mondo digitale. Solo attraverso una maggiore consapevolezza e responsabilità possiamo sperare di preservare la dignità e il valore della vita umana, al di là delle luci sfavillanti di un flipper virtuale.