La politica che custodisco nella memoria ha sempre danzato sulle note dello stesso brano: il vincitore si prende tutto, l’altro, se fortunato, ottiene le briciole inavvertitamente dimenticate. Un dono gratuito? No, piuttosto un gesto di presunta benevolenza, un mero espediente per abbellire l’immagine del dominante, per far sembrare di concedere qualcosa all’opposizione o alla minoranza interna. Ecco la simulazione di un ecumenismo, utile a lasciare una porta aperta per quando le sorti si invertiranno, perché si sa, la ruota della fortuna non smette mai di girare.
La mia voce non si unirà a quelle di coloro che si indignano per le grinfie sulla città. E’ il solco tracciato dalla storia. Mi ritorna in mente l’eco bellica di Cesare Previti negli anni Novanta, «se vinciamo questa volta non faremo prigionieri», parole forti, immagini di morte scolpite dalle parole. Ma chi emerge vittorioso dal campo di battaglia politico ha sempre saputo scegliere: ha colto ciò che desiderava, trascurato ciò che non contava.
Tuttavia, il ventre insaziabile dell’onnivoro potere politico richiede un conclave, un consesso di eguali, nodi di una stessa rete che appoggiano le decisioni, si sentono coautori di esse. L’arroganza e le decisioni unilaterali generano un vuoto intorno, un isolamento che diventa più amaro se sono gli alleati minoritari a sentirsi esclusi. Questo tipo di autoritarismo è una scelta rischiosa: da un avversario sai come difenderti, ma un alleato è un ospite nel tuo salotto, conosce i tuoi segreti.
Giorgia Meloni sembra camminare su questo sentiero: tutte le strade sono sue, come dichiarava la Regina ad Alice. Ma conosciamo la fine della storia. La strada intrapresa dal leader politico, che si muove con la testa alta, lo sguardo fisso verso l’obiettivo, conduce a un isolamento progressivo. Il potere richiede alleati fidati, e l’adesione dell’elettorato non è sufficiente.
È il futuro che avrà l’ultima parola, che ci dirà se il cerchio ristretto di parenti e collaboratori di Meloni sarà abbastanza forte da garantirne la sicurezza politica.
Tuttavia, emergono alcuni interrogativi, ombre che meritano luce. Il concetto di violenza, per esempio, ha bisogno di essere riscritto: non è la stessa cosa protestare a parole o usare la forza fisica. Ascoltare Giorgia Meloni promettere di “liberare la cultura dal potere intollerante della sinistra” solleva interrogativi, se i riferimenti culturali alternativi sono legati a razza, etnia, o radici italiche.
Ecco la questione di fondo: il governo di un paese non è un gioco di scacchi o una partita a carte. Sarebbe ideale che le figure chiave nella cultura, nella supervisione, nelle aziende municipali fossero guidate da persone competenti, persone dotate di un curriculum adatto, abituate a sfogliare i libri, a passare esami con buoni risultati. Più che una questione di destra o sinistra, si tratta di un problema di competenza. Il mantra di non fare prigionieri presuppone che si abbia a disposizione una classe dirigente capace di prendere il posto di quella eliminata senza compromettere il funzionamento del sistema. Una classe dirigente. Una sola Regina non basta. Specialmente se non può contare nemmeno sui suoi ministri (benché meno sui suoi alleati).