Seduto ai bordi della strada, i pantaloni corti e le gambe tormentate dalle zanzare. Spedito, passo deciso, lungo le pietre e in mezzo alla polvere. Niente case a intralciare la vista. Sdraiato. Immerso nella salsedine morbida che s’attacca alla pelle e l’avvolge. Le caviglie nel grano che punge, i polsi nell’acqua, la faccia piegata alla terra. In tavola il pasto quotidiano a dar riposo alla schiena, le donne mute e la farina fino ai gomiti. Le piccole giacche sdrucite, poche lezioni giusto il minimo per imparare a firmare. La raccolta al mattino, l’alba in cornice, in mostra perenne. La bestia che scaccia lenta il fastidioso insetto, i denti piantati nel fieno, mosche a ronzare intorno. Le scarpe senza stringhe, i piedi senza scarpe. Le grandi foglie verdi coi frutti che pungono e fanno star male, le uova rubate al sonno pomeridiano del fattore, il latte nel secchio, il formaggio in soffitta, il vino perennemente sottochiave. I romanzi a due lire letti alla frescura della pianta nell’orto. Le fantasie represse, la figlia del fattore disposta a farsi pagare, le poche letture di una larga periferia senza centro, bianca di calce, silenziosa, afosa, acre. I cani rincorsi nei vicoli, i roghi, le fionde cattive dei bimbi di strada. La carne alla domenica, una domenica al mese. Le grosse fette di pane sporche di qualcosa che avesse sapore, odore, poco colore. La grezza educazione senza parole, fatta di sguardi, di silenzi; il pudore inflitto a schiaffi, a sguardi, le madri sveglie fin dal mattino, otto in un letto. Profumo di pane appena cotto. Le vecchie impagliate, immobili sulle sedie impagliate. Nel secchio appeso al muro, il giardino invidiato, le liti spiate, le risa senza rimorso, i furti senza peccato, le gialle albicocche mature fino a scoppiare, le ciliegie rosse di fuoco, la brace accanto alla porta, la cenere per spegnere a sera. Il lutto pesante dei caldi giorni d’estate, il destino patriarcale inflitto alle vedove, il carretto col ghiaccio, il vaso comune per vomitare i bisogni, le necessità relative, la ristrettezza assoluta. Una piccola sopravvivenza quotidiana, masticata come la prima gomma portata dai soldati. Lo stupore dei bimbi, le divise cucite sui volti neri di alcuni strani americani. Le capre e i pesci, gli odori frammisti all’olezzo, le rare nebbie all’altezza del capo, le sigarette di giunco rubate alle scope solerti, i corpi vestiti a festa lungo i muri sporchi della stanza e i balli proibiti sotto gli occhi dei padri, l’amore senza toccarsi, fatto di sguardi. Nei solchi che una volta erano caldo ristoro per le zampe trainanti delle bestie da soma, persi tra la polvere del sottosuolo appena smosso, senza respiro. Nella sabbia dei fondali dove oziano i molluschi. Nella paglia bagnata. Nell’odore di erba appena tagliata. Tra i rovi, dove si nascondono i dolci frutti selvatici. Camminando senza meta, senza motivo.
(Ricordi di vite passate, ascoltate nei lunghi e oziosi pomeriggi d’estate, nascosti nella memoria e affiorati guardando una vecchia fotografia del ’53).
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